La sera dell’11 maggio 1960, in un sobborgo di Buenos Aires, Adolf Eichmann, gerarca nazista, si dirigeva faticosamente verso casa dopo una giornata di duro lavoro. Ad attendere Eichmann c’erano degli agenti del Mossad, i servizi segreti israeliani, che lo rapirono e lo portarono davanti a un tribunale, in Israele. Il processo che ne seguì, disponibile per la visione nella sua quasi totalità su YouTube è ancora oggi fonte di dibattiti e non solo per quanto riguarda il suo protagonista, Eichmann per l’appunto. C’è chi ritiene che il suo rapimento, e il successivo processo, abbiano violato il diritto internazionale, chi invece crede fosse questo l’unico modo possibile per fare giustizia e chi, infine, è riuscito a tirare fuori una teoria filosofica sul male, partendo proprio dalla figura dell’imputato.
Naturalmente, ci si sta riferendo alla teoria del male banale, formulata da Hannah Arendt per la prima volta dopo aver assistito a questo processo. Il male banale è quello compiuto dai “signor nessuno”, quello fatto quasi casualmente, senza pre-intenzione e di cui, a volte, non ci si accorge nemmeno. È il male che si fa quando non si pensa perchè il pensiero ha un ruolo fondamentale nell’impedirci di compiere il male. Il caso Eichmann dimostra, secondo la Arendt e chi scrive, come un uomo comune, senza tendenze aggressive o drammi personali particolarmente importanti, possa diventare uno dei più grandi criminali della storia. Alcuni esperimenti condotti da psicologi e sociologi a partire dagli anni ’60 (ad esempio l’esperimento Milgram o quello carcerario di Standford) provano che a compiere il male non sono solo i cattivi nel senso tradizionale del termine, individui senza scrupoli o morale, ma persone comuni, senza particolari qualità positive o negative. Un male privo di fascino, banale appunto, perché gli uomini che lo compiono sono anche loro banali.
Il rapimento
Appena la notizia del rapimento di Eichmann fu resa pubblica, furono in molti a cercare di prendersene il merito. Tuttavia, ad avere un’importanza davvero decisiva per la cattura fu la famiglia Hermann. Lothar Hermann, un ebreo tedesco che era fuggito in Argentina nel 1939, aveva deciso di mantenere la sua identità ebraica segreta nella nuova patria che simpatizzava con i nazisti. Riuscì così bene nell’intento che sua figlia Sylvia, ignara delle sue origini ebraiche, nel 1956 cominciò a frequentare uno dei figli di Adolf Eichmann, Klaus Eichmann. Quest’ultimo, che pure si vantava del fatto che suo padre fosse stato un importante nazista e che Lothar sentì dichiarare solennemente che sperava qualcuno finisse il lavoro di sterminio degli ebrei, era però molto vago su quale fosse stato il destino del padre dopo la guerra. Inoltre, si era sempre rifiutato di dare l’indirizzo di casa a Sylvia. Gli Hermann furono insospettiti da questi comportamenti, oltre che da un recente articolo uscito su Argentinisches Tageblat, un giornale argentino in lingua tedesca, dove Eichmann era descritto come uno dei criminali nazisti ancora liberi dopo la caduta del regime hitleriano.
Lothar Hermann contattò il Mossad e, dopo altre indagini di conferma, elaborò un piano per scoprire l’indirizzo degli Eichmann. Un giorno, Sylvia andò nel quartiere dove presumeva vivesse Klaus Eichmann e chiese in giro, fino a quando localizzò la casa. L’abitazione, priva di corrente elettrica e di acqua corrente, rimaneva leggermente rialzata ed isolata dalle altre: tale collocazione da un lato costituiva un vantaggio, perché permetteva di vedere chiunque si avvicinasse, dall’altro uno svantaggio in quanto, in caso di rapimento, le possibilità che si trovassero dei testimoni erano pochissime. Sylvia, per giustificare la sua presenza, disse di stare cercando Klaus: incontrò un uomo che si presentò come lo zio del ragazzo, ma che si rivelò poi essere Adolf Eichmann. La ragazza descrisse Eichmann come una persona normalissima, lui si dimostrò più che disposto alle chiacchere. Le chiese come andava la scuola e quali fossero i suoi progetti futuri. Appena Klaus Eichmann rientrò a casa, accompagnò Sylvia alla fermata dell’autobus in tutta fretta, ma molto probabilmente non sospettò nulla, anche perché non sarebbe stato difficile per lui e per i neonazisti della zona spaventare la ragazza.
Dopo ulteriori indagini, l’operazione rallentò. Ci vollero quattro anni prima che Eichmann fosse catturato, la sera dell’11 maggio 1960. Gli agenti dichiararono che Eichmann non oppose nessuna resistenza e che rispose alle domande in maniera onesta, ammettendo subito la sua identità. A favorire l’espatrio illegale del marito rapito, contribuì involontariamente anche sua moglie, che ne denunciò la scomparsa con il nome argentino di Ricardo Klement. Il 20 maggio, Eichmann fu così drogato e caricato di peso su un aereo. Appena atterrato sul suolo israeliano, fu portato in prigione, dove gli fu fatta firmare una dichiarazione in cui sosteneva di aver accettato spontaneamente di essere trasportato in Israele e processato. Sono due i motivi per i quali Eichmann decise di collaborare spontaneamente, senza provare ad opporsi: in primo luogo era stanco di vivere nell’anonimato, ed in secondo luogo voleva aiutare le nuove generazioni tedesche a liberarsi dal senso di colpa per i peccati dei padri (il famoso tema della “Schuldfrage”, la questione della colpevolezza, che tanto infiammerà e in un certo senso infamma ancora oggi l’opinione pubblica tedesca contemporanea).
Il processo
La tesi maggiormente sostenuta dai critici del processo riteneva che Israele non sarebbe stato in grado di giudicare obiettivamente i crimini compiuti da Eichmann. Queste critiche, tutto sommato infondate, esprimevano però anche un pericolo reale, cioè il rischio che il processo diventasse un evento mediatico ed Eichmann un capro espiatorio. Per moltissimi ebrei il processo era la prima e l’unica occasione per poter raccontare le loro sofferenze ed essere ascoltati. Il numero di sopravvissuti che si presentò per testimoniare fu enorme e anche se molti dei testimoni che presero parte al processo non avevano avuto alcun contatto diretto con Eichmann, vennero comunque ammessi con la giustificazione di essere utili a costituire un quadro generale della questione.
Ben Gurion, capo di stato di Israele e «regista invisibile del processo», era spinto da motivi politici, più che da un vero sentimento di giustizia, a perseguire Eichmann. Le sue ragioni vennero ribadite più volte da Hausner, il procuratore generale. In primo luogo, Gurion voleva che questo processo fosse una sorta di rivincita contro quello di Norimberga, che era stato condotto dagli Alleati, ma non dagli ebrei, mancanza, questa, che riteneva inaccettabile, ora che finalmente esisteva uno Stato di Israele. In secondo luogo, Gurion voleva criticare i Paesi che avevano reso possibile lo sterminio, Alleati compresi. Voleva poi dimostrare, con le testimonianze dei sopravvissuti, i rischi del vivere tra non ebrei e la necessità dell’esistenza dello Stato di Israele come unico luogo sicuro per il suo popolo. Infine, sperava di scovare altri nazisti nei paesi arabi. In effetti, grazie al processo altri nazisti vennero trovati, non però nei paesi arabi, come sperato da Gurion, ma in Germania Occidentale, dove il governo di Adenauer era stato costretto a graziare molti ex nazisti.
Una volta stabilito ufficialmente che il processo sarebbe stato fatto, restava il problema di chi avrebbe costituito la Corte, l’accusa e la difesa. La scelta dei giudici che avrebbero dovuto presiedere il processo spettava a Benjamin Halevi, il presidente della corte distrettuale di Gerusalemme. Molti pensavano che Halevi non fosse adatto al compito perché, nel 1957, emise una sentenza di colpevolezza verso Kastner, sostenendo che l’ebreo avesse «venduto l’anima al diavolo», ed il diavolo a cui si riferiva il giudice era proprio Eichmann. Le preoccupazioni dell’opinione pubblica ruotavano principalmente attorno all’oggettività di Halevi: come avrebbe potuto giudicare obiettivamente un uomo che aveva precedentemente chiamato il diavolo? Halevi, tuttavia, rifiutò di farsi da parte e accusò il governo di voler un altro giudice solo perché si temeva il riemergere di questioni che gli ebrei avrebbero preferito dimenticare, come il comportamento di Kastner. Alla fine si arrivò ad un compromesso: a presiedere la Corte fu scelto Moshe Landau e, ad affiancarlo, c’erano Halevi e Yitzhak Raveh. Il comportamento di questi tre giudici fu considerato impeccabile anche da parte dei più severi critici del processo. Le 120 sedute, che si svolsero tra il 1961 ed il 1962, dimostrarono che questi tre uomini avevano preso sul serio il loro compito di tutori della legge: giudicarono un uomo e non il nazismo in generale.
I tentativi di trasformare il processo in un evento “mediatico” furono numerosi, addirittura durante lo svolgimento si tennero conferenze ed in televisione la diretta del processo era interrotta da spot pubblicitari. Inoltre, a contribuire all’immagine di show televisivo, furono inseriti alcuni “effetti scenici”, primo tra tutti una gabbia di vetro dentro cui l’imputato fu interrogato per tutte le sedute del processo. Il dibattito, che si svolgeva in ebraico, era tradotto in un buon inglese ed un buon francese, ma in un tedesco scarso. Ciò è molto strano, soprattutto se si considera il grande numero di ebrei-tedeschi dell’epoca immigrati in Palestina.
L’accusa era composta da un gruppo di avvocati, capeggiati da Hausner, mentre la difesa era formata solo dall’avvocato Robert Servatius. Quest’ultimo era stato scelto direttamente dall’imputato, che lo conosceva per fama. Servatius aveva infatti difeso a Norimberga altri nazisti. Al contrario delle aspettative e da quanto annunciato inizialmente da lui stesso, egli non guidò un gruppo di avvocati, ma lavorò da solo. Vista l’enorme quantità di materiale da leggere, Eichmann in persona divenne l’assistente del suo difensore.
La vita di Adolf Eichmann
Adolf Eichmann nacque il 19 marzo 1906 a Solingen, da una famiglia borghese. Non possedeva particolari abilità o talenti e anche dal punto di vista scolastico era un alunno mediocre, tant’è che fu l’unico dei suoi fratelli a non terminare le scuole superiori. Nei documenti ufficiali del partito figurava come ingegnere ma, non avendo nemmeno terminato la scuola, tale titolo non fu mai davvero conseguito. La sua carriera lavorativa iniziò grazie all’aiuto del padre, che aveva rilevato una piccola società mineraria, ed assunse il figlio come minatore, per poi trovargli un impiego nell’ufficio vendite di un’altra società, dove imparò a vendere e commerciare, abilità che gli sarebbe tornata utile nel suo lavoro con il nazionalsocialismo. Fu poi assunto dalla compagnia petrolifera austriaca Vacuum e questi furono probabilmente gli anni più felici della sua vita. Tuttavia, la crisi economica in Germania iniziò a farsi sentire, così, nel 1932, Eichmann fu trasferito da Linz a Salisburgo, con suo grande rammarico: «Persi completamente il gusto di lavorare; non mi piaceva più vendere, fare telefonate» disse Eichmann durante il processo. L’aspetto curioso da rilevare qui è che avrebbe usato quasi le stesse parole quando raccontò, durante l’interrogatorio in prigione, al commissario Less, della scoperta della soluzione finale: «Ora persi tutto, tutto il gusto di lavorare, tutta l’iniziativa, tutto l’interesse; mi sgonfiai, se così si può dire».
Nel 1932 avvenne anche un altro evento importante nella vita di Eichmann: decise di iscriversi al partito nazionalsocialista ed entrare nelle SS. In realtà, come quasi tutte le decisioni della sua vita, la scelta fu dettata da fattori casuali più che ideologici. Egli era proprio sul punto di entrare a far parte della Loggia massonica Schlaraffa, un’organizzazione completamente diversa per ideali e per composizione; tuttavia fu tolto dall’imbarazzo del prendere una decisone perché si macchiò di una colpa che per l’associazione era imperdonabile, «avevo osato invitare i miei compagni a bere un bicchiere di vino». Eichmann decise quindi di accogliere l’invito di Ernst Kaltenbrunner, figlio di un amico del padre, e di entrare a far parte del partito nazionalsocialista. Inoltre, era fortemente influenzato dall’ambizione personale: tra le file del Terzo Reich sarebbe entrato a far parte di un meccanismo che muoveva la storia. Sempre su invito di Kaltenbrunner, vista la difficile situazione economica tedesca, decise di arruolarsi nelle SS.
La vita militare non soddisfece le sue aspettative, perché trovava il servizio militare estremamente noioso. Nel 1934 decise qindi di fare domanda per un posto al Servizio di Sicurezza (SD). Eichmann, al processo, sostenne di aver voluto questo posto di lavoro perché aveva scambiato l’SD per il Servizio di Sicurezza del Reichsführer, cioè pensava che il suo compito sarebbe stato quello di fare da guardia del corpo ai più importanti dirigenti del partito. Questo punto è importante e fu dibattuto a lungo durante il processo per stabilire se l’imputato avesse scelto volontariamente o meno il posto nei servizi segreti. Hannah Arendt scelse di credere alle parole del gerarca nazista, sostenendo che nelle fasi iniziali del nazionalsocialismo le SS si occupavano della protezione dei membri del movimento e quindi l’errore di Eichmann poteva essere comprensibile. Di parere opposto invece è la storica ebraica D. E. Lipdstadt. Lei ritiene che, in quanto appartenente alle SS, fosse altamente improbabile che Eichmann non sapesse cosa fosse l’SD.
Il suo primo compito fu quello di raccogliere delle informazioni per creare un museo massone. Dopo pochi mesi, nel 1935, fu assegnato ad un ufficio nuovissimo, che si occupava di ebrei e da questo momento iniziò la sua carriera. Il lavoro di Eichmann consisteva nell’organizzare l’emigrazione forzata degli ebrei, prima verso i ghetti, poi verso i campi di sterminio. Il 1938 fu l’anno in cui la sua carriera raggiunse l’apice: fu promosso al rango di ufficiale tenente grazie alla precisione con cui si era occupato dell’emigrazione forzata a Vienna. Nel 1939, seguendo le direttive di Himmler, venne creato l’Ufficio centrale per la sicurezza del Reich (Reichssicherheitshauptamto – RSHA) che fondeva insieme SD, polizia regolare e Gestapo: era la polizia segreta del regime. Il primo comandante dell’RSHA fu Reinhard Heydrich, seguito poi, nel 1942, dopo il suo assassinio, da Kaltenbrunner. Dopo questa fusione, più uffici insieme iniziarono a lavorare per trovare una soluzione alla questione ebraica, ma a parere di Eichmann, questo non fu un vantaggio, perché la burocrazia e le lotte interne gli impedivano di fare il suo lavoro.
A partire dal 1941, Eichmann fu incaricato di organizzare i primi convogli diretti verso i campi di concentramento e consolidò la sua fama di organizzatore di emigrazione forzata ed esperto ebraico. I primi paesi ad essere colpiti furono la Germania, l’Austria ed il Protettorato, cioè l’attuale Polonia. Successivamente, nel 1942, si procedette all’emigrazione in Francia, Belgio e Olanda. Sempre nello stesso anno, i nazisti agirono sulla Norvegia e tentarono di convincere il governo italiano a consegnare i suoi ebrei: questo si verificò però, di fatto, solo nel 1943, quando l’Italia si spaccò in due in seguito allo sbarco degli Alleati.
Se nell’Europa occidentale le deportazioni incontrarono delle difficoltà, seppur minime, questo non si verificò nei territori dell’est. I paesi balcanici, la Croazia, la Serbia, la Grecia e la Romania non solo consegnarono i propri ebrei volentieri ai nazisti, ma spesso parteciparono alle persecuzioni. Unica eccezione in questo panorama fu la Bulgaria. Più complicate, per motivi politici e sociali, erano le situazioni in Ungheria ed in Slovacchia. Eichmann trascorse gli ultimi mesi di guerra isolato a Berlino. Egli non aveva contatti con gli altri membri dell’RSHA e si occupò di far costruire delle fortificazioni in modo da essere pronto all’ultima battaglia.
Nell’aprile del 1945 Himmler lo mandò a Theresienstadt con lo scopo di prelevare alcuni ebrei illustri da poter scambiare con gli Alleati. Le strade erano però tutte bloccate e così ebbe da Kaltenbrunner l’incarico di organizzare una difesa partigiana, che su ordine di Himmler dovette poi disfare subito dopo. A guerra finita fu internato in un campo di prigionia per SS, dove la sua identità rimase segreta. Grazie all’aiuto di alcuni compagni di prigionia riuscì a fuggire dal campo e tramite l’ODESSA, l’organizzazione clandestina di veterani delle SS, riuscì a espatriare dopo un breve soggiorno in Austria sotto falso nome. In Argentina adottò il nome di Ricardo Klement e riuscì a farsi raggiungere dalla moglie e dai figli. Insieme vissero, in povertà quasi assoluta, fino al 1960, quando Eichmann fu rapito dal Mossad.
Eichmann e gli ebrei
Quello che fu uno dei più grandi collaboratori alla macchina della soluzione finale si dichiarò più volte non antisemita. Anche se l’affermazione può suonare paradossale, ci sono alcuni indizi nei comportamenti di Eichmann che sembrano sostenere la sua tesi. Ad esempio, il capitano Less, che interrogò l’imputato nella prigione di Yagur, vicino ad Haifa, raccontò di come Eichmann si mostrò dispiaciuto del fatto che i suoi genitori fossero morti in un campo di concentramento. Less disse che, dopo aver udito il suo triste racconto, Eichmann abbia esclamato: “Ma è terribile!”, come se non fosse stata colpa sua. Si possono individuare due motivazioni principali per le quali Eichmann sostenne di non essere antisemita: quelle personali e quelle politiche.
In primo luogo, per quanto riguarda la sua vita privata, egli raccontò di come un cugino della sua matrigna, che lui chiamava “zio” e che aveva sposato la figlia di un industriale cecoslovacco ebreo, lo aiutò per mezzo delle sue conoscenze a trovare un lavoro come commesso viaggiatore e di questo Eichmann gliene fu sempre grato. Anche un suo amico di infanzia era ebreo, e a Linz pare avesse addirittura avuto un’amante ebrea, uno dei massimi disonori per una SS. Eichmann raccontò di aver anche aiutato in due casi degli ebrei a fuggire, su sollecitazione dello “zio”. Inoltre, l’atteggiamento di Eichmann nei confronti degli ebrei era, almeno a prima vista, corretto e rispettoso. I membri dei Consigli Ebraici molto spesso potevano avanzare richieste che venivano ascoltate. Tuttavia, a partire dal 1939 la situazione cambiò: Eichmann assunse un atteggiamento rude ed arrogante.
Franz Mayer, sionista tedesco, raccontò durante il processo il cambiamento di Eichmann con queste parole: «Dissi ai miei amici che non ero certo che fosse proprio lui. Tanto terribile era il cambiamento… Qui trovai un uomo che si comportava come il signore della vita e della morte. Ci ricevette con fare insolente e rude. Non permise che ci avvicinassimo al suo tavolo. Dovemmo restare in piedi.». I giudici ritennero che i motivi del cambiamento di atteggiamento dell’imputato potessero essere attribuiti al fatto che in quegli anni la sua carriera stava decollando. In realtà, non è così semplice formulare un giudizio, perché pare che talvolta egli avesse dei «ritorni», cioè dei momenti in cui il suo comportamento tornava ad essere rispettoso come lo era prima. Ad esempio, un testimone raccontò di un colloquio avvenuto nel 1945 a Theresienstadt in cui Eichmann si mostrò molto interessato al sionismo e per nulla arrogante.
In secondo luogo, Eichmann sostenne di non essere antisemita nemmeno sul piano politico. Egli non aveva fede ideologica nel nazismo: non aveva mai letto il Mein Kampf e quando gli si chiedevano le sue ragioni di adesione al partito rispondeva con i soliti luoghi comuni sulla crisi economica, la disoccupazione ed il Trattato di Versaglia. Riteneva che l’obiettivo del suo lavoro fosse quello di «porre sotto i piedi degli ebrei un po’ di terra ferma» e per dare qualche autorevolezza alla sua opinione, Eichmann cominciò a costruirsi il suo personaggio da “esperto ebraico”. Per prima cosa lesse Lo stato ebraico di Theodor Herzl e rimase completamente affascinato da questo libro, al punto che da questo momento in avanti si considerò un sionista. Lesse poi anche La storia del sionismo di Adolf Böhm, che al processo confuse continuamente con il libro di Herzl. Imparò un’infarinatura di yiddish, impresa non troppo difficile per un tedesco, visto che si tratta di un dialetto germanico scritto in caratteri ebraici. Sulla base di queste competenze, fu inviato in Israele, probabilmente per una missione di spionaggio, e di questo si vantò più volte durante il processo, perché riteneva fosse stato un grande onore recarsi in un «paese straniero così lontano», dove nessuno dei suoi colleghi era mai stato. Infine, per abbellire ulteriormente la sua immagine, si vantava spesso di essere nato in Palestina, anche se non era assolutamente vero. Il motivo per cui era rimasto così affascinato dalla causa ebraica era dovuto ad un tipo particolare di ebrei che era solito definire “idealisti”.
Eichmann e la legge
Come Hannah Arendt rileva più volte nel suo libro, Eichmann, durante il processo, non ricordò date o eventi storici, a meno che non coincidessero con svolte della sua carriera. La ragione per cui si ricordò della Conferenza di Wannsee, alla quale partecipò come segretario, si spiega col fatto che dopo la riunione fu invitato a cena con tanti “grandi personaggi”. Dopo che tutti se ne furono andati, rimase in compagnia di Heydrich, nel frattempo diventato uno dei più alti ufficiali del Reich, e Müller, comandante della Gestapo, a bere e fumare. Quel giorno fu memorabile per Eichmann: «Mi sentii una specie di Ponzio Pilato, mi sentii libero da ogni colpa». Fu durante quella cena che Eichmann smise di porsi qualsiasi domanda sulla soluzione finale: a volerla non era solo Hitler o il partito, ma tutti gli organi dello stato e «Chi era lui per permettersi di “avere idee proprie”?».
Eichmann si chiese mai se ciò che stava facendo fosse giusto o sbagliato? Quando il giudice Landau gli pose questo quesito in maniera diretta, la sua risposta fu probabilmente sincera: egli disse che non si faceva alcuna domanda, si limitava ad eseguire gli ordini, a seguire la legge. Quindi, stando a queste affermazioni, la risposta sembrerebbe essere no: Eichmann non solo non pensava, come sostenne Hannah Arendt nel suo reportage, ma anche non aveva nessuna coscienza.
Eppure, come spesso accade, la realtà è molto più complicata di quanto appare e ci fu per lo meno un caso eclatante che dimostrò che Eichmann una coscienza l’aveva. Dopo aver scoperto i preparativi per la soluzione finale, egli decise di inviare i suoi ebrei nel ghetto di Lódz, anziché in territorio russo, dove sapeva che sarebbero stati fucilati subito. Lódz fu uno degli ultimi ghetti ad essere ripulito, perché i nazisti erano riusciti a sfruttare gli ebrei in maniera da produrre guadagni economici. Servatius, che citò questo episodio in difesa di Eichmann, cercò di concludere la sua arringa sostenendo che l’imputato aveva sempre cercato di salvare più ebrei che poteva. Nonostante la posizione del difensore non sia sostenibile, questo episodio si può considerare un caso, l’unico, in cui Eichmann ebbe una “crisi di coscienza”.
Tre settimane dopo la decisione di inviare gli ebrei a Lódz, si tenne a Praga una riunione in cui Eichmann suggerì di utilizzare i campi impiegati per la detenzione dei comunisti, in cui operavano le unità operative (Einsatzgruppen, speciali reparti tedeschi composti da uomini delle SS e della polizia e che avevano il compito di liquidare sul posto i detenuti) come campi anche per gli ebrei. Hannah Arendt, che analizzò questo episodio nel suo libro, concluse scrivendo: «sì, egli aveva una coscienza, e questa coscienza funzionò per circa quattro settimane nel senso normale, dopo di che cominciò a funzionare nel senso inverso.».
Servatius costruì la difesa di Eichmann sostenendo la tesi che l’imputato si fosse sempre limitato ad eseguire degli ordini, a dispetto delle sue inclinazioni personali. Solo perché una legge doveva sempre essere rispettata e non per l’antisemitismo di cui volevano accusarlo, Eichmann disse di aver eseguito sempre ogni incarico con il massimo zelo. Per questa ragione, in Ungheria, aveva deportato millecinquecento ebrei contro il volere di Horty ed aveva organizzato poi le marce a piedi del novembre del 1944 verso i campi di concentramento, che stavano venendo smantellati in quel momento, marce che furono sospese solo per volere di Himmler. Inoltre la sua precisione si manifestava sia nell’organizzazione delle deportazioni generali sia verso individui singoli. Ad esempio, quando l’Ufficio degli Esteri tedesco intercedette per un ufficiale franco-ebraico, Eichmann si rifiutò di fare un’eccezione per una questione di «principio». Oppure, quando il partito fascista italiano, chiese che fosse rilasciata la vedova di un ufficiale ebreo tenuta in custodia a Riga, Eichmann non solo rifiutò, ma aumentò la sicurezza attorno alla donna affinché non scappasse in alcun modo.
In un contesto di questo tipo, il ruolo della burocrazia è fondamentale. Arendt ritenne, già nelle Origini del Totalitarismo, che la macchina burocratica era stata estremamente importante per i sistemi totalitari grazie alla sua forza de-personalizzante. Di fronte ad un sistema complesso, dove le persone sono ridotte a meri numeri, il passo da compiere per distruggere delle vite è breve. Eichmann non si sentiva responsabile perchè le liste che compilava, i nomi che scriveva, altro non erano che numeri. Per questo, sostenne per tutta la durata del processo di non aver mai ucciso nessuno. Non si sentiva colpevole, perchè a premere materialmente il grilletto non era lui. Un po’ come oggi non si sente colpevole chi stabilisce un margine finanziario, condannando chi è al di sotto ad un’esistenza di stenti.
Ma se Eichmann si limitò sempre a eseguire degli ordini perchè allora, nel 1945, a guerra quasi finita, quando i suoi superiori gli ordinarono di smettere con le deportazioni ed Himmler stesso gli disse di «fare da balia agli ebrei», continuò invece a ignorare gli ordini, portando avanti lo sterminio? Molti videro in questo atteggiamento la conferma dell’antisemitismo di Eichmann.
La risposta a questa domanda può forse nascondersi dietro al complesso rapporto tra legge e Führer, che si era stabilito nella Germania di quegli anni. Hans Frank, governatore della Polonia durante il nazionalsocialismo, aveva riformulato la massima kantiana dell’imperativo categorico, «Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere nello stesso tempo come principio di legislazione universale», in «Agisci in una maniera che il Führer, se conoscesse le tue azioni, approverebbe». Questa definizione, che probabilmente era conosciuta da Eichmann, esprime in maniera chiara il sentire dell’imputato. Eichmann ammise che, dopo essere stato incaricato di procedere alla soluzione finale, si consolava pensando che ormai non era più padrone delle sue azioni e non poteva fare nulla per cambiare le cose.
Inoltre, Eichmann non aveva prestato giuramento alla Germania, ma a Hitler. Il motivo per cui Eichmann, alla fine della guerra, fece l’opposto di quello che Himmler gli ordinò, era perché questi ordini erano contrari alla volontà del Führer che, anche se non era scritta, era la vera legge da seguire. A differenza di altri nazisti che col tempo si staccarono dalla linea di Hitler e divennero critici del suo operato, Eichmann ebbe una «sfrenata e smisurata ammirazione per Hitler» e gli rimase sempre fedele. Il Führer non aveva torto a dire che le SS, verso la fine del conflitto, non erano più fidate, e gli ultimi mesi da nazista di Eichmann lo testimoniarono. Egli, infatti, si trovò a Berlino da solo, senza avere alcun contatto con gli altri membri dell’RSHA, che pranzavano tutti insieme nello stesso edificio, senza mai invitarlo.
La sentenza
La sentenza fu pronunciata l’11 dicembre 1961. Eichmann fu ritenuto colpevole di tutte le 15 imputazioni contenute nell’atto di accusa, anche se fu prosciolto da alcuni crimini particolari. Ad esempio, l’accusa non riuscì a provare che fosse responsabile della deportazione di novantatré bambini di Lidice, un villaggio della Boemia Centrale, avvenuta dopo l’assassinio di Heydrich, e neppure accettò la tesi che fosse una delle menti del genocidio. Egli aveva però commesso crimini “contro il popolo ebraico”, cioè con l’intenzione di distruggere la stirpe, in quattro modi:
1) «causando lo sterminio di milioni di ebrei»;
2) facendo vivere «milioni di ebrei in condizioni che verosimilmente avrebbero condotto alla loro distruzione fisica»;
3) «provocando gravi danni fisici e mentali»;
4) «ordinando che si bandissero le nascite e interrompendo le gravidanze tra le donne ebree».
Inoltre, era accusato anche di “crimini contro l’umanità” e di “crimini di guerra”.
L’accusa non riuscì a dimostrare che Eichmann avesse ucciso qualcuno di propria mano, ed egli protestò sempre veementemente quando si cercò di accusarlo di omicidio nel senso tradizionale del termine. Tale atteggiamento è importante da segnalare perché, come scrive Hannah Arendt: «i crimini che il tribunale di Gerusalemme stava analizzando non erano “crimini comuni” ed Eichmann stesso non era un “criminale comune”». I giudici, inoltre, non ritennero un’attenuante alla responsabilità personale il fatto che la maggioranza della popolazione fosse complice di questi crimini, ma anzi «in generale il grado di responsabilità cresce quanto più ci si allontana dall’uomo che usa con le sue mani il fatale strumento.». L’accusa chiese poi la pena di morte, paragonando, come già fatto nell’arringa iniziale, i “due Adolf”, Hitler ed Eichmann.
Servatius rispose sostenendo che le azioni dell’imputato erano state “azioni di Stato”, che i reati di Eichmann erano caduti ormai in prescrizione e non lo si poteva condannare a morte, sia perché in Germania questa pena era stata abolita, sia perché egli era stato abbandonato dal suo Paese, ed era diventato un “capro espiatorio”.
Il discorso finale di Eichmann, anche senza utilizzare esattamente le parole “capro espiatorio”, le sottointese, aggiungendo di non essere stato capito dai giudici: il suo unico peccato era stata la troppa obbedienza, virtù che di solito veniva esaltata. Durante il processo di appello, che iniziò nel marzo 1962, l’accusa, sempre capeggiata da Hausner, ripropose gli stessi argomenti. La difesa, guidata ancora dal solo Servatius senza alcun assistente, chiese alla Corte che Israele offrisse l’estradizione di Eichmann, visto che la Germania restava sorda alle sue richieste. Inoltre, fornì una nuova lista di testimoni,ma nessuno di essi risultò essere davvero rilevante. La difesa costruita da Servatius era piena di errori, ma ad irritare la Corte furono principalmente alcune osservazioni dell’avvocato. In primo luogo, non riconobbe mai la validità del processo e sostenne che fosse stato “sleale” perché l’imputato non aveva potuto fornire documenti utili e testimoni per la sua difesa. In effetti, una grave mancanza del processo era dovuta al fatto che se qualche ex nazista fosse entrato in territorio israeliano per difendere Eichmann, c’era il rischio che fosse poi catturato e processato. In secondo luogo, Servatius sostenne che nessun tribunale ebraico poteva pronunciarsi sull’uccisione dei bambini di Lidice, perché non erano ebrei. Infine disse che l’uccisione mediante gas non rientrasse fra le competenze della Corte in quanto “questione medica”.
La seconda sentenza, sebbene non lo dicesse apertamente, fu una revisione della prima: Eichmann fu qui accusato di essere una delle menti del genocidio e di aver agito liberamente senza eseguire nessun ordine superiore. Fu condannato a morte il 29 maggio 1962. In sua difesa si alzarono alcune voci, dai famigliari a personalità importanti, anche ebraiche, come Martin Buber. Le richieste di grazia vennero respinte e la sentenza fu eseguita in tutta fretta il 31 maggio 1962, probabilmente per evitare che Servatius si appigliasse a qualche altro cavillo giuridico che la rimandasse.
Eichmann mostrò, anche nella sua ultima ora, quell’ambiguità che l’aveva contraddistinto e che ancora oggi fa discutere su chi sia stato veramente. Non aveva voluto un prete negli ultimi momenti in cella e non si era pentito perché «il pentimento è per bambini». Nel momento dell’esecuzione della sentenza assunse un contegno più che dignitoso: volle restare in piedi e non indossò il cappuccio per coprirsi il volto. Disse di essere un Gottgläubiger, temine che letteralmente significa credente in Dio, ma che dai nazisti veniva usato per indicare la loro “religione”, fatta di uomini che non credevano né nel cristianesimo, né nella vita dopo la morte. In ultimo, disse: «Tra breve, signori, ci rivedremo. Questo è il destino di tutti gli uomini. Viva la Germania, viva l’Argentina, viva l’Austria. Non le dimenticherò.».
Le sue ceneri furono gettate nel mare, fuori dal territorio israeliano.
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