‘Prestare attenzione è la più grande forma di generosità.’ Simone Weil.
Sono uscita senza niente. Solo penna, quaderno, portafogli e chiavi. Niente libro, niente cellulare. Mi sto dirigendo verso la S-Bahn di Hermannstraße e ho intenzione di farmi tutto il giro della Ringbahn. Non l’ho mai fatto. Spero che non sia troppo lungo, ho già paura di annoiarmi.
L’obiettivo è quello di prestare attenzione.
Ho appena interrotto il mese di sciopero intellettuale, mi era sembrata la soluzione migliore al fatto che, anche provandoci, non riuscissi a concentrarmi su nessun progetto, ma continuassi a passare dall’uno all’altro senza risultati. Anzi, con il solo risultato di innervosirmi. Ho scelto così di lasciar perdere, di non preoccuparmi per un po’, per trenta giorni, per l’esattezza. Facevo solo sport e attività manuali. Non leggevo, non scrivevo, non cercavo di capire questioni che mi sfuggono, non mi facevo domande, non rimuginavo.
Ha funzionato.
Per venticinque giorni sono stata una persona leggera, di buon umore, che vive nel presente. Quasi zen, se non avessi sviluppato una compulsione ossessiva per il gioco del ping-pong. Le vacanze però non possono durare per sempre. A un certo punto ti inizia a mancare casa. La prima cosa di cui mi sono resa conto è che non ero all’erta. Non mi accorgevo di quello che mi succedeva intorno. Adesso che voglio rimettere in moto il cervello, ma mi sento un po’ fuori allenamento, ho pensato che sarebbe saggio iniziare con un po’ di stretching e passare qualche ora ad osservare.
Salgo sulla S42 perché arriva prima, ma avrei voluto prendere la S41 perché è quella con tutti gli studenti che vanno alla Freie Universität. Il vagone è moderatamente pieno e silenziosissimo. Non so che ore siano, mi sono dimenticata di controllare, ma sono uscita di casa poco prima delle dieci. Alla mia destra un cartellone pubblicitario pro sesso sicuro.
Vicino a Treptow è tutto un cantiere. Gru zafferano si stagliano su un cielo bianco. C’è la stessa malinconia di un giorno di fine estate, quando invece è appena iniziata. Mattoni grossi e dall’aria friabile sono coperti di graffiti ancor prima di essere assemblati a formare un vero muro. Sabbia, gilet color arancio neon, elmetti gialli. Mi affascinano i lavori in corso perché sono vecchia dentro.
Quanti posti di questa città non ho ancora visto. Rivolgo lo sguardo verso i passeggeri. Devo ammettere che la metropolitana di Londra mi piaceva molto di più per questa attività. Aveva i sedili tutti in fila e molto spesso le donne si truccavano. Tiravano fuori la loro trousse e vai, fondotinta, cipria, ombretto, matita, rimmel, lucidalabbra. Un’altra sorta di lavori in corso. La signora di fronte a me ha i contorni del labbro superiore disegnati ben più in là di dove in realtà sarebbero le sue vere labbra, specialmente la metà sinistra. La matita usata per riempire le sopracciglia è di un colore sbagliato, rossiccio, quando i suoi capelli sono neri. Le donne truccate male hanno qualcosa di grottesco che mi ispira simpatia. Forse si è accorta che la sto guardando. Su un muro c’è scritto Kochen Statt Fast Food e non mi sembra uno slogan molto significativo. A fianco una pubblicità delle sigarette, pensavo fossero proibite. Qualcuno ha un profumo troppo forte e sospetto che sia il signore nel set di poltroncine più in là alla mia sinistra. Ha un’aria arrabbiata per cui non mi piace guardarlo. Ho un brufolo sulla guancia che so che non smetterò di tormentare. Anche la ragazza seduta a fianco a me ha dei brufoli, in realtà tanti, sulla fronte, ma è giovanissima. Sta leggendo un testo universitario sulla talassemia. Vorrà diventare medico. Non è da tutti. Alcuni non sopportano la vista del sangue, io l’odore. Mi ricordo quando sono andata a trovare Enrico dopo l’incidente in moto. Aveva i punti sul collo e la stanza puzzava di croste. Ho visto tutto giallo e ho dovuto aggrapparmi allo stipite della porta mentre uscivo a prendere aria.
Dove sono? Che ore sono? Fuori dai finestrini vegetazione rigogliosa da entrambi i lati, rampicanti.
Schönhauser Allee.
Cambio vagone ed anche qui c’è qualcuno con troppo profumo. Meno gente di quanta mi aspettassi sta con gli occhi incollati allo smartphone. Forse perché non ci sono poi così tanti giovani. Quello che amo dei vecchi tedeschi è che si ostinano ad indossare pantaloncini sfacciatamente corti che sono la trasposizione in vestiario della parola peinlich. Quanto è brutta questa città. Vicino a me si siedono una mamma con figlia. La prima dice alla seconda di appoggiarsi al sedile con la schiena, di rilassarsi e di riposarsi un po’. Perché? le chiede la seconda. Ha una maglietta con su scritto che i fiori la rendono felice. Il mio buon proposito del 2017 è avere piante e non farle morire. Ero partita con: stare ferma in un posto. Poi un amico mi ha suggerito di pormi obiettivi realizzabili. Ho pensato che dovermi prendere cura di esseri viventi mi avrebbe fatto andare via meno spesso o per meno tempo. Sul davanzale della mia sala ci sono un’aloe vera con due foglie in gangrena, un cactus quasi completamente secco, un altro con i fiori morti. L’unico che sembra stare bene è una grossa pianta fucsia che mi ha coraggiosamente lasciato in custodia il mio coinquilino. Mi piacerebbe affittare una di quelle casette nelle Kolonie vicino al lago. Starci una settimana o due, facendo del giardinaggio vero magari. Andrei a nuotare la mattina, anche se l’acqua del lago mi fa schifo perché mi fa sentire viscida. Tornerei e accenderei la brace per la griglia, ci metterei su le verdure che tanto cuociono lente. Nel frattempo leggerei. Dopo pranzo riposino, poi un bel caffè solubile, perché di sicuro mi sarei dimenticata la moca. Mi metterei a scrivere fino a sera, poi con l’arrivo del fresco farei un giro in bici. Una volta tornata mi griglierei due salsicce da accompagnare con un bicchiere di vino rosso e poi a nanna. Non sarebbero neanche le undici di sera. Ci sono un sacco di corsi d’acqua a Berlino, credo di averne passati già almeno quattro.
La cosa che mi ripeto più spesso è stai calma. Mi farei le pere di pazienza se si potesse.
Non so se sia un orario sfigato, ho scoperto che sono le 11:10, ma non mi sembra ci siano persone interessanti da osservare, o forse le persone mi interessano meno in questo frangente. Passiamo un palazzo orribile rosa salmone con disegnate delle scimmie bianche che saltano da una finestra all’altra.
Cambio vagone a Messe Nord. Non sono mai stata ad un concerto alla Funkhaus.
Ora sono già a Westkreuz e una volta ci sono stata per fare la pipì da un gommista. In realtà dovevo fare un’ecografia, ma era inverno e il tragitto da casa alla ginecologa troppo lungo. Non ho resistito. C’è quella regola che il biglietto singolo non è valido per tornare indietro. Ma allora come funziona quando ci si sposta in circolo?
Ogni tanto anche se non mi muovo da casa mi stanco tantissimo. È perché mi faccio mille viaggi. La sagoma del conducente dietro una porta di vetro opaca è dritta davanti a me. Chi sa se gli si è mai buttato qualcuno sotto i binari. Chi sa se quelli che si buttano sotto i binari pensano che stanno per traumatizzare un intero treno di persone. Prima di smettere di usare il cervello stavo leggendo Anna Karenina, il problema dei classici è che quasi sempre ti hanno già spoilerato la fine.
Sono ad Heidelberger Platz, ci sono stata un milione di volte in questa stazione, quando facevo l’università. Tra poco sono otto anni che mi sono trasferita qui, se ci penso ero praticamente una bambina quando sono arrivata. Questa è la città in cui sono diventata grande, in cui sto diventando adulta. Oggi Giulia viene a montarmi le tende perché non so trapanare, ho ancora molto da imparare. La patente cazzo! Ci ho pensato così tanto ultimamente che mi sembra di averla già presa.
Bleistift. Una ragazza bionda l’ha ripetuto tre volte di fila. Dovrei chiamare Nadja, che i capelli ce li ha rossi naturali. Ho un’altra amica che si chiama Nadia e una Diana, che è il suo anagramma. La ragazza di fianco a me guarda skyscanner, va a Vienna, forse. Oggi per l’occasione ho messo gli occhiali da vista, per farmi meglio i cazzi degli altri. Il cielo nel frattempo è diventato grigio-violaceo. Forse è perché siamo a Sud, è da qui che viene la perturbazione. La settimana scorsa ho visto il mio ex, è con lui che sono venuta qui, l’ho convinto io. Avrei potuto chiedere a lui di montarmi le tende, ma preferisco non fare affidamento sugli uomini. Il giro è quasi finito. C’è un sacco di sicurezza. È un brutto segno? Vorrei trovarci una metafora di vita in quest’ultima frase, ma ne uscirebbe qualcosa di troppo personale.
Sta per arrivare la tempesta. È da un po’ che non ho voglia di fare festa.
La prossima fermata è Hermannstraße. 11:32. C’è un tedesco che si vergogna di parlare al telefono sui mezzi pubblici. Il suo è un Tchüss di sollievo. Devo andare da Bauhaus a comprare i fisher. Ho voglia di continuare a leggere Mark Fisher. Avrei potuto conoscerlo se lo avessi scoperto qualche mese prima. Frequentava casa di un mio amico a Londra, prima di suicidarsi. Ha scritto un saggio su un musicista per cui suona l’ultimo uomo per cui ho sofferto molto. Questa contingenza di eventi mi ha fatto sentire depressa per cinque minuti, ma d’altronde stavo leggendo Writings on depression, hauntology and lost futures. Quello che si vergognava prima di parlare al telefono non si vergogna a fissarmi senza ritegno con il mento appoggiato sul pugno. Io non mi vergogno di fargli una faccia infastidita e continuare ad ignorarlo.
Sono arrivata. Spero che non abbia già cominciato a piovere.
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