Greg Gonzales sale sul palco per ultimo e la scritta RGB1, sulla parete alle sue spalle, smette di lampeggiare. Tutto è nero. Le teste degli altri circa quattrocentonovantanove individui intorno a me, il pubblico, sembrano sospese nell’aria, in attesa. Greg Gonzales si sistema al centro della scena con la chitarra a tracolla e una buona dose di ansia da prestazione. Poi avvicina le labbra al microfono e sussurra: “Hey guys, thanks for being here”. Dietro di lui compaiono gli inconfondibili scatti in bianco e nero di Man Ray.
Aspettavo questo momento da tanto tempo. Ho iniziato ad ascoltare i Cigarettes After Sex quando, l’anno scorso, i loro singoli cominciavano ad essere visualizzati furiosamente su youtube. Centinaia di migliaia e poi milioni di volte. Un’improvvisa, fulminante epifania. Le anteprime ai loro ep, con le immagini surrealiste di Ray, come ad esempio Necklace or anatomy, copertina della loro prima uscita. Tutte immancabilmente in bianco e nero, di una delicatezza disarmante, mi comparvero un giorno per caso sulla homepage del sito, tra i suggerimenti. Strano come a volte un algoritmo faccia la felicità. La prima volta che ho ascoltato l’intro di basso di “Nothing’s gonna hurt you baby” credo infatti di aver avuto un rapido, intenso, orgasmo.
Il progetto Cigarettes After Sex nasce, quasi accidentalmente, a El Paso, in quella città di confine che pare la terra santa per qualcuno e forse l’inferno per altri.
Dream pop soffice come un sospiro, romantico e sussurrato. Senza fronzoli, per arrivare dritto dove deve.
“Che tipo assurdo” mi dice la mia amica ad un orecchio.
Non ha tutti i torti. Greg Gonzales è piccolo e dimesso. Non intuisco se per una questione caratteriale o emozionale, ma, escluso il movimento dei polsi e delle mani sulla chitarra, sembra centellinare ogni spostamento nello spazio intorno a sé. La band attacca con “Starry eyes”, cover trasognata della versione lo-fi di Roky Erickson, e Gonzales è intrappolato in un’altra dimensione. Sembra completamente fatto. Suona immobile, la testa inclinata leggermente da un lato, gli occhi semichiusi e un’espressione indecifrabile. La sua voce androgina arriva da un altro mondo. Non è difficile immaginarselo in un’aula dell’Università a El Paso, presso la quale ha registrato il primo EP della band nel 2012, “I.”, oppure nel piccolo studio di registrazione di Brooklyn, qualche anno dopo, mentre riarrangia vecchie canzoni o ne compone di nuove. Da solo con la sua musica. La cosa pazzesca è che nonostante quest’uomo stia suonando, adesso, al Lido, nel quartiere di Kreuzberg di Berlino, a pochi metri da me e da centinaia di altri occhi, anche io ho la sensazione di trovarmi sul letto di camera mia, tra le lenzuola stropicciate e con le cuffie attaccate al laptop. Da sola, con la sua musica che è diventata anche la mia. “Affection”, il nuovo singolo “K.”, la cover a dir poco geniale di REO Speedwagon, Keep on loving you e poi ancora due inediti e una versione acustica di “Please don’t cry” che credo difficilmente dimenticherò.
Le canzoni si susseguono una dopo l’altra e ad ognuna io non posso fare a meno di agganciare una piccola parte di me. Ad esempio il ricordo di quella sera in cui tu mi hai mostrato i disegni sul tuo taccuino nero mentre due ragazze accanto a noi, al bancone della Kneipe, continuavano a infilare monetine da 20 centesimi in un distributore automatico di noccioline. E l’odore di tabacco misto a Ostalgie emanato dalla donna che ci aveva servito la birra danzava il valzer coi nostri nasi. Di quando, sporgendo la gamba leggermente in avanti sullo sgabello, mi hai sfiorato con le tue dita ricoperte di inchiostro indelebile. And now I’m dreaming of you.
Mi travolge la sensazione che ogni canzone stanotte al Lido sia legata ad un momento che non abbiamo vissuto insieme. Ad un non-ricordo. Credo sia proprio per questo motivo che i Cigarettes After Sex piacciano così tanto, non solo a me, ma ad un pubblico che ogni giorno si fa sempre più numeroso ed entusiasta. Per il loro romanticismo nudo e crudo e la semplicità con cui, da una manciata di note e testi altrettanto essenziali, Gonzales riesce a raccontarci la nostra stessa storia parlandoci di sé. Come ogni poeta degno di questo nome, in fondo. Quando dopo quasi un’ora e mezza di concerto sono obbligata a riemergere dal mio Porto Sepolto, la prima cosa che faccio, istintivamente, è cercare il tuo sorriso irregolare tra la folla. Un sorriso che, ho sempre pensato, sembra essere stato tagliato grossolanamente a metà, con una forbice. Bellissimo. Ma tu non ci sei, d’altronde non ci sei mai stato. Intanto sul palco i ragazzi hanno posato definitivamente gli strumenti. Greg è l’ultimo ad uscire di scena. Per un breve attimo, prima che la tenda rossa del backstage lo inghiotta esattamente come ha fatto con gli altri tre componenti della band, si gira verso il pubblico e abbassa la testa. Sillaba un timido “Thank you”, solo con le labbra. Un movimento impercettibile. Eppure quel grazie mi arriva dritto in faccia come uno schiaffo. Dopo pochi minuti sono fuori di lì, fuori da tutto. Ci siamo io, la città fredda e buia e qualcos’altro cui non riesco a dare un nome, ma di cui percepisco chiaramente la presenza. È dentro e tutto intorno. Dappertutto.
Forse si chiama Poesia.
REDAZIONE
Wale Café
Hobrechtstrasse 24, 12047 Berlin