Il Dottor Živago. Il classicone natalizio in VHS che propinavano i miei a me e mia sorella. Cosa ne capissimo resta un mistero, eppure mi ero dolcemente abituato a quelle immagini. Oggi, ricordando quel film, come frammenti provenienti dal sotto-testo di un sogno, mi ritornano quei paesaggi della Siberia e della Russia metropolitana. Luoghi innevati e gelidi che facevano a pugni con lo scirocco natalizio della mia Palermo.
Un ritratto di quel freddo, in particolare, mi colpiva. Dentro ad un treno merci, in fuga dagli aguzzini del regime sovietico, il Dottore (un giovanissimo Omar Sharif, pace all’anima sua) con famiglia al seguito decide di raggiungere la propria tenuta di campagna, trovandosi costretto ad attraversare le lande ghiacciate di una Russia sconvolta dalla guerra civile. Mi sembrava atroce la condizione di quel viaggio, intollerabile quel freddo russo. Ma non è la sola cosa che ricordo di questo episodio. All’interno del vagone c’era infatti un elemento perturbante, un personaggio che m’infastidiva. Stipato tra uomini, donne, bambini e vecchi, spiccava la figura di un giovane: un anarchico incatenato, incazzato e braccato da una guardia. Questi non perdeva occasione per gridare, bestemmiare il prossimo e ululare; alle volte, invece, rimaneva muto, in osservazione, come un animale da lungo tempo abituato alla cattività. Chi era costui se non Klaus Kinski.
Durante quel cameo di appena 5 minuti, la mia impressione di bambino era che quel cane pazzo non fosse un attore o che almeno non lo fosse al pari degli altri: egli non stava recitando. Mi sembrava, piuttosto, che quella creatura fosse parte integrante di quel mondo lì rappresentato, come il ghiaccio delle steppe russe o quegli abitacoli del treno in ferro battuto. Credo che fosse proprio la naturalezza della sua recitazione a rendermi quel personaggio fastidioso, fastidioso perché troppo vero, troppo ingombrante sullo schermo della nostra televisione. Era tracotante. Insultava me e la mia famiglia. Non appena Kinski appariva sullo schermo mio padre bussava alla mia spalla e mi diceva “Guardalo! Guardalo! Questo è Klaus Kinski: è completamente pazzo!”. E come dare torto al mio vecchio.
Penso che Kinski sarebbe stato alquanto lieto di conoscere questo mio fastidio.
Herzog, dopo essere stato minacciato da Kinski di lasciare il set, abbia imbracciato un fucile per impedirgli di fuggire: si dice che, a fianco della macchina da presa, si potesse vedere fare capolinea la canna di un semiautomatico, pronto a fare fuoco da un momento all’altro.
Di certo la sua infanzia deve essere stata ben diversa dalla mia: per lui niente arancine e niente spiaggia di Mondello. Lui nasce nella ex città libera di Danzica – oggi Sopot – in Polonia, nel 1926. Dopo il Trattato di Versailles, infatti, Danzica era stata strappata all’impero tedesco e resa città autonoma, così da permettere alla Polonia l’utilizzo del suo ricco porto commerciale. L’infanzia di Klaus non è comunque legata alle vicende storiche di Danzica: nel ’31, con padre, madre e i tre fratelli, si sposta a Berlino nel quartiere di Schöneberg, conducendo una vita dissoluta e brancolando nella povertà, a sua detta.
Ecco, qui sorge subito un problema, sebbene utile.
Ricostruire i fatti biografici di Klaus Kinski è complesso, forse addirittura impossibile. La fonte primaria è la sua autobiografia “Ich brauche Liebe”, meglio nota con il titolo inglese “All I need is love”, pubblicata nel 1988. Di fatto, questo testo non è altro che una mistificazione eroizzante delle gesta di un “egomaniaco”, come lo definì Werner Herzog: un delirio autoincensante da cui è impossibile separare i fatti biografici da una loro vivacissima coloritura. Parlando della sua infanzia a Schöneberg, Kinski racconta di furti e di lotte incessanti con la legge, notti insonni trascorse sotto i ponti per sopravvivere a una terribile condizione di miseria, causata dalla crisi economica e sociale della Grande Depressione. Ancora più sordido il racconto della scoperta della propria sessualità: in giovanissima età, racconta di una relazione incestuosa con la sorella più grande e di alcune oscure fornicazioni con la madre.
Dal canto di Herzog queste non sono nient’altro che menzogne: Kinski era il figlio di un farmacista benestante di origini polacche, che una volta trasferitosi a Berlino aveva frequentato il Prinz-Heinrich-Gymnasium di Schöneberg. Niente fame, niente torbidume. Eppure questa diffrazione tra le fonti è utile, come dicevo, per comprendere il Kinski artista, non certo l’uomo. Tale inestinguibile confusione fra sceneggiatura e vita vissuta è, infatti, la cifra stessa della grandezza di questo attore che incarnava la recitazione fin dentro le proprie viscere e senza mai potersene distaccare, facendo del gesto artistico un prolungamento della propria esperienza vitale. Un anacronistico esteta.
L’esperienza della seconda guerra mondiale fagocita il giovane Kinski, il quale combatte tra le fila della Wehrmacht nelle ultime fasi della guerra, venendo presto catturato e trascorrendo più di un anno di prigionia presso il campo di Colchester (UK). Disertore – come lui stesso afferma – o forse banalmente catturato dagli inglesi, quasi certamente è durante la prigionia, che Kinski entra in contatto per la prima volta con il mondo della recitazione, dovendo tenere alto il morale dei propri compagni. Tornato nel 1946 in una Berlino totalmente rasa al suolo, scopre improvvisamente della morte di gran parte della propria famiglia tra cui la madre, alla quale lo legava un sincero amore.
Tra la fine degli anni Quaranta e gli anni Cinquanta Kinski lavora nei teatri di prosa, rischiando di tanto in tanto l’internamento negli ospedali psichiatrici. Il suo carattere animalesco e spregiudicato, sul palco e nella vita, gli valgono una certa reputazione tra il pubblico, facendosi una certa fama per la sua interpretazione dei classici e per i suoi one-man-show; tuttavia, i suoi comportamenti erano spesso e volentieri motivo di attriti con i colleghi e con il personale artistico e rendendo la sua carriera particolarmente instabile. Durante la prima metà degli anni Cinquanta entra nel mondo del cinema ed è in questo periodo che si stabilisce a Monaco di Baviera, sistemandosi presso una ricca donna che offriva alloggio nella propria dimora ad artisti maledetti. In quella stessa palazzina viveva un Herzog appena quindicenne che, raccontando le sue prime impressioni dell’attore, ricorda come in seguito ad una notte insonne l’attore si fosse chiuso dentro ad un bagno per 48 ore, riducendo ogni singolo pezzo della stanza in polvere: con la schiuma alla bocca e brandendo come arma qualsiasi oggetto gli capitasse tra le mani, Kinski urlava come un animale mentre spaccava ogni centimetro quadro della piccola toilette.
La sua carriera sul grande schermo è fin da subito caratterizzata da una prolificità formidabile: si contano di più di 130 film, con una media di circa 10 film l’anno durante gli anni Sessanta. La crescente fame di denaro e le spese folli spingono Kinski a lavorare senza sosta e ad imbarcarsi in grandi produzioni come “Per qualche dollaro in più” di Leone o “Il Dottor Živago”, così come in veri e propri flop, senza mai risparmiare le proprie energie. La bravura sul set e l’entusiasmo scellerato con cui affronta il proprio mestiere, sfiorando alle volte l’ossessività patologica, lo ripagano sempre con numerosi ingaggi nel mondo del cinema. E per quanto egli abbia sostenuto di odiare il mestiere dell’attore, era ben consapevole del proprio talento, a suo dire un dono divino: “I am like a wild animal born in a zoo but where a beast would have claws, I was born with talent / Sono un animale selvaggio nato in uno zoo ma se la bestia ha le zanne, io sono nato con il talento.” Tutt’altro, sostengono Herzog e chi ebbe modo di conoscere Kinski; non si trattava di una predisposizione naturale o di talento concesso dall’Altissimo, bensì del frutto d’intense sessioni di autoapprendimento, essendo Kinski completamente autodidatta. Decine e decine di ore di pratica, senza interruzioni, spese interamente in esercizi di dizione o di conoscenza della propria mimica facciale e corporale. Questo a testimonianza dell’artificio ben calcolato, della cura maniacale e della meticolosa professionalità che si celavano dietro questa natura bestiale.
Gli anni Settanta e Ottanta sono ugualmente segnati dalla scelleratezza: una vita piena di stravizi, flotte di macchine sportive e lussi sopra le righe lo spingono a lavorare a pellicole di terz’ordine. Egli stesso dichiara: “I am a whore. I´m doing this crap for money, for nothing else. / Sono una troia. Faccio questa merda per soldi, per nient’altro che questo.”
Gli anni Settanta sono anche gli anni della collaborazione con Werner Herzog che, nel 1971, propone a Kinski il ruolo di protagonista in “Aguirre, furore di Dio”. Per scelta del regista, il film fu completamente girato nella fitta vegetazione della foresta amazzonica peruviana della regione Ucayali e sugli affluenti del Rio delle Amazzoni, tra il gennaio e il marzo del ’72: una di quella imprese epiche che avrebbe meritato un film a parte. Le riprese di Aguirre, così come quelle di “Fitzcarraldo” o “Woyzeck”, hanno dato vita ad una vastissima aneddotica sull’ira folle di Kinski e ai tentativi di Herzog di controllare la sua potenza distruttrice. Anche qui la verità lascia il passo al verosimile, alla menzogna, al cinema.
La più nota di queste leggende vuole che durante la produzione di Aguirre, Herzog, dopo essere stato minacciato da Kinski di lasciare il set, abbia imbracciato un fucile per impedirgli di fuggire: si dice che, a fianco della macchina da presa, si potesse vedere fare capolinea la canna di un semiautomatico, pronto a fare fuoco da un momento all’altro.
Meno conosciuta, invece, la disavventura che vede coinvolto un macchinista della squadra di “Fitzcarraldo”. Questi era impegnato ad aprire il percorso della troupe attraverso la vegetazione peruviana usando una motosega, quando fu improvvisamente morso da un serpente letale il cui morso lo avrebbe ucciso in un paio di minuti. Senza riflettere troppo, il malcapitato raccolse la motosega e si amputò di netto il piede colpito, così da interrompere la diffusione del veleno. Tutti i membri della troupe accorsero per aiutarlo, tentando di metterlo in salvo. Ciò non fu gradito da Kinski che, avendo perduto l’attenzione generale, cominciò a sbraitare e inveire contro il moribondo, urlando che era lui la star del set e che avrebbe lasciato tutto in asso. Anche in quel caso, si dice che sia stata una canna di fucile a risolvere la questione.
La relazione tra i due s’interruppe dopo “Cobra Verde” del 1987. Sebbene Kinski avesse desiderato Herzog per la regia del suo “Kinski Paganini”, pellicola del 1988 dedicata al celebre violinista, il sodalizio tra i due si era definitivamente spezzato. Herzog rifiuta.
La carriera di Kinski prende una rapida piega e s’interrompe improvvisamente, subito dopo il tributo a Paganini di cui fui egli stesso regista – per la prima e unica volta – e attore protagonista. Muore nel 1991 a causa di un infarto. Nell’abitazione californiana di Lagunitas. Nessuno lo compiange, i figli lo odiano. A qualche anno dalla sua dipartita Pola Kinski rende pubbliche le violenze sessuali perpetrate dal padre nei suoi confronti. Vero o falso, è riuscito a infastidire tutti un’altra volta, anche dalla bara.
ANDREA GELARDI: Nato nelle periferie di Palermo, fin da piccolo sogna di aprire una friggitoria tutta sua e di poter conoscere David Hasselhoff personalmente. Ha cominciato una lenta lentissima migrazione attraverso le crete senesi, le lagune veneziane e i colli emiliani per arrivare lui non sa dove: l’importante è che ci sia da mangiare. Attualmente stanziale in Berlino. La sera prega Lindsay Lohan e Antonio Gramsci affinché lo guidino nella ricerca del vero.
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