Fin da bambino ho sempre avuto un’inspiegabile fascinazione per gli esploratori. Anche io, come tanti, ho attraversato la fase del pompiere/poliziotto, ma alla lunga il sogno eroico di finire disperso su una montagna o disidratato a morte in un deserto ha preso il sopravvento. Da quando ho imparato a leggere ho utilizzato i miei primi risparmi per comprare lugubri volumi che raccontavano di spedizioni ai confini del mondo e dello spazio; il più delle volte queste imprese avevano anche un terribile epilogo.
Non so perché un bambino dovrebbe desiderare fatiche, privazioni e, verosimilmente, una morte onorevole ma agghiacciante. Rimane il fatto che tutto questo su di me aveva un’attrazione formidabile.
Come diretta conseguenza, anche nel cinema ho sempre adorato i personaggi che ricalcavano il mio ideale di eroe; essendo nato negli anni ’80 credo non ci sia bisogno di dire che uno dei miei punti di riferimento sia stato Indiana Jones. Non Harrison Ford, proprio Indiana Jones: nella mia fantasia di bimbo teledipendente il buon Harrison indossava completo marrone, cappello e frusta anche sotto la doccia. Per farla breve: da grande sarei potuto essere chiunque e quindi avevo deciso che sarei stato Indiana Jones.
È andata assai diversamente.
Pur non considerandomi un sedentario non mi sono mai nemmeno lontanamente avvicinato alle avventure che immaginavo da bambino. Non ho mai preso in mano una frusta e i Nazisti (per fortuna) li ho incontrati solo sui libri di storia.
Nel 2016, ad un lasso di tempo considerevole dai miei sogni infantili, i casi della vita hanno portato Alessandro a vivere a Berlino come me. Alessandro Neri, oltre ad essere mio compagno di banco ai tempi del Liceo, archeologo lo è diventato davvero. Una sera a cena, tra un discorso e l’altro, viene fuori che Alessandro e il suo amico e collega Giacomo Gonella (sempre residente a Berlino) da anni stanno collaborando ad un progetto di ricerca e scavo sulle montagne della Carnia friulana.
Abituato ad immaginare archeologi che scavano ai quattro angoli (pericolosi) della terra, mi sono chiesto cosa diamine potesse esserci di tanto interessante in Friuli. Povero ignorante: per le caratteristiche favorevoli del territorio, la zona carnica è da sempre stata interessata dal transito di molte popolazioni fino dal Paleolitico. Le montagne sono mediamente più basse che nel resto dell’arco alpino, le vallate sono ampie, i corsi d’acqua abbondano; le scaltre popolazioni antiche hanno quindi giustamente pensato, attraverso i millenni, di stabilirsi in questi luoghi rischiosi e soggetti a frequenti tentativi d’invasione ma, allo stesso tempo, strategici: chi si stanziava qui aveva controllo sui commerci ed esercitava tasse. Dai Longobardi ai Carolingi passando per i Sarmati e i Paleoslavi, non c’è paragrafo del mio libro di Storia (la mia unica fonte sull’argomento) che non abbia deciso di stanziarsi in Carnia.
Ogni anno il progetto archeologico friulano fissa nuovi obiettivi: quello di quest’anno è cercare conferme sulla presenza di alcuni probabili tumuli venuti alla luce nella valle di Tolmezzo alla fine degli anni ’60.
Alessandro mi racconta tutto questo in maniera particolareggiata, ma io ormai mi sono fissato sullo schema archeologi-montagna-popolazioni antiche. Il mio cervello ha scartato il resto. Non appena recupero un minimo di attenzione, le mie sinapsi hanno un guizzo e mi viene in mente l’annuncio che il Capitano Shackleton pubblicò su un giornale di Londra nel 1913: cercava membri per comporre l’equipaggio della nave Endurance che, nella sua idea, avrebbe attraversato l’Antartide.
“Si cercano uomini per un viaggio pericoloso. Bassi salari, freddo intenso, lunghi mesi di tenebre, rischio costante, ritorno incerto. Onori e riconoscimenti in caso di successo.”
ho visto le scarpe di Giacomo all’altezza degli occhi. Per osservare il resto del suo corpo dovevo praticamente buttare all’indietro la testa. Mai vista una pendenza simile.
Al di là del triste destino della spedizione Endurance, nel nostro particolare caso il salario nemmeno esiste, le tenebre a Tolmezzo arrivano quando devono arrivare (canonicamente verso le 19 nella stagione autunnale) e il rischio costante e il ritorno incerto sarebbero da temere solo dopo una cena a base di funghi molto sbagliati.
Non importa, la vocina nel mio cervello è ormai partita: “Alessandro, posso venire anche io? Potrei scrivere un articolo su voi che cercate i tumuli, sarebbe interessantissimo!” Alessandro accetta. Giacomo, interpellato poco dopo, è d’accordo.
Nella mia immaginazione, come credo in quella di tutte le persone a totale digiuno di archeologia, una missione archeologica si svolge esattamente come nei film: Alessandro e Giacomo (gli Indiana Jones) si ritrovano come per magia catapultati nel luogo del ritrovamento. Dopo mille peripezie riescono a trovare il reperto, l’oggetto viene consegnato ad una terza persona non identificata ma danarosa (Marcus Brody) e viene esposto in un museo. Gloria eterna e copiose possibilità di avventure amorose/sessuali ad essa legate. Fine. Titoli di coda.
Alessandro e Giacomo mi spiegano che non funziona esattamente così. Intanto, da scavare non ci sarà proprio nulla: la nostra spedizione prevede solo l’eventuale identificazione dei tumuli. La parola “eventuale” è ripetuta varie volte, forse per impedirmi di vangare a caso qualsiasi cosa mi capiti a tiro. Dopo l’identificazione dei tumuli ci sarà la comunicazione alla soprintendenza (l’organo deputato alla tutela del patrimonio archeologico) e il reperimento di fondi adeguati che permettano di scavare anche solo pochi centimetri di terra. Se tutto andrà per il verso giusto, lo scavo non inizierà prima di un anno a partire dal ritrovamento. Più verosimilmente non riusciremo nemmeno a trovare i tumuli e, anche in caso di fortuna sfacciata, i finanziamenti potrebbero non arrivare, lasciando gli antichi defunti a riposare in pace lontani da cazzuole, picconi e teche di musei.
Non mi faccio abbattere da queste parole: “gli archeologi sono sempre modesti” penso. “Alessandro e Giacomo in realtà sanno già dove cercare”. Ovviamente non dove c’è una X, perchè la X non indica mai il punto dove scavare (Indiana Jones e l’Ultima crociata, minuto 14:05).
Fiero delle mie conoscenze fantarcheologiche, cammino ad un metro da terra. Partirò con loro, il sogno di un’infanzia che si avvera.
Arriviamo in Friuli a metà Ottobre; il nostro campo base per i quattro giorni di ricerche è ad Illegio, una piccola frazione a pochi chilometri da Tolmezzo. Da qualche anno Illegio, 350 abitanti circa, è diventata abbastanza nota a livello nazionale perché ospita mostre d’arte e iniziative culturali di alto livello che richiamano visitatori da tutta Europa. Una volta finito il periodo di esposizione, Illegio torna ad essere un piccolo borgo di montagna: tre bar (mantenere un elevato numero di locali pro capite è fondamentale quando il grappino è una filosofia di vita), un paio di ristoranti, tanti alberi e ancora più montagne. Qua le persone ti salutano quando ti incontrano per strada, anche se sei un forestiero arrivato fuori stagione su una macchina targata Berlino. Un “Mandi” non si nega a nessuno, il grappino nemmeno.
La prima sera in terra friulana ci serve per fare il punto della situazione: sappiamo della storia dei tumuli ritrovati, sappiamo il quando, ma ci manca il come e soprattutto il dove. Alessandro e Giacomo mi presentano Benito, la memoria storica di Tolmezzo e dintorni. Davanti ad un bicchierino di liquore ai lamponi, i tasselli della ricerca cominciano a mettersi insieme: nel 1967 la quiete della valle viene invasa dal progresso. Le guerre mondiali sono abbastanza lontane, i rapporti tra Italia e paesi confinanti migliorano. Perché non collegare Germania, Austria ed Italia con un bell’oleodotto, facilitando il trasporto di idrocarburi e risparmiando non poco denaro? Detto, fatto: nasce l’Oleodotto Transalpino Trieste-Ingolstadt, 752 km di tubazioni che passano sotto a monti, boschi e paesi. Fra questi, la stessa Tolmezzo.
L’excursus sull’oleodotto, ancorché noioso per i non ingegneri, è però funzionale alla nostra avventura: nel 1969, durante la posa della tubazione nei pressi della cittadina, il pesante braccio di una ruspa solleva un cumulo di terra diverso dagli altri. Tra radici, sassi e altri strati di deposito vengono alla luce anche un paio di scheletri, dei manufatti e resti di alcune piccole strutture in pietra. Sono i tumuli di cui Tolmezzo parlerà per decenni, tra millantate foto scattate dagli operai, antichi orecchini custoditi da non si sa chi e altre mille voci di paese. Le stesse voci che hanno finito per portarci qua nel 2016.
I resti dei due tumulati, risvegliati a colpi di ruspa dal loro sonno, vengono “pietosamente sepolti” (cito fedelmente il Gazzettino Veneto dell’epoca) in una tomba anonima nel cimitero di Tolmezzo. Di scavi successivi non ci sono notizie. O meglio, gli unici che vengono fatti sono quelli per la prosecuzione dell’oleodotto. Ruspa – Tumuli: 1-0.
La mattina dopo ci mettiamo in marcia. I propositi di una partenza di buon’ora si infrangono miseramente al primo bar del paese, davanti ad un cornetto dolce e un cappuccino fatto come si deve. Siamo fiduciosi, stiamo andando a colpo sicuro: sappiamo dov’è l’oleodotto, sappiamo che i tumuli dovrebbero essere nei pressi e decidiamo di prendercela abbastanza comoda. Un vecchio adagio dice che “a pancia piena si ragiona meglio”, ma è evidente che l’adagio non abbia mai dovuto salire un ripido sentiero di montagna, nel bosco e in uno degli ottobri più umidi che la Carnia ricordi. Dopo venti minuti sembriamo già reduci da una partita di tennis giocata all’Equatore. A rompere il ritmo dettato dal nostro fiatone arriva un piccolo pianoro sul fianco della montagna: abbiamo raggiunto la torre della Picotta, una vecchia fortificazione recentemente restaurata.
Il panorama che si gode dall’alto della torre è una buona scusa per riprendere fiato. Il tracciato dell’oleodotto è a poche centinaia di metri; giusto la sera prima riflettevo su come si riesca a riconoscere il passaggio di un tubo di un metro e mezzo (minimo) di diametro che passa sotto a boschi e montagne. Il giorno dopo la risposta mi è apparsa nella sua brutale semplicità: il bosco viene segato e la montagna fatta saltare in aria q.b. Il risultato è un solco netto e innaturale nel paesaggio montano, visibile anche dalle foto satellitari. Nel punto che ci interessa, il taglio della montagna è spaventoso: quasi duecento metri in verticale di rocce e terreno sono stati asportati. Una volta posato il tubo, sono stati ricostruiti con un terrapieno di pietre posizionate ad arte. Il resto l’ha fatto il sottobosco che si è lentamente riappropriato di quello che era suo.
Poco oltre l’oleodotto, davanti a noi, si para una piccola collinetta. E’ tagliata in modo netto su un lato, probabilmente la parte mancante era d’intralcio ai lavori: anche in questo caso, la ruspa ha posto rimedio. Alessandro si insospettisce subito: se le informazioni che abbiamo sono vere, il punto in cui gli operai avrebbero scoperto i tumuli potrebbe essere questo.
Ai miei occhi di giovanotto di città, quella che abbiamo davanti sembra semplicemente una collinetta di terra ricoperta dalla vegetazione. Esterno il mio parere ad alta voce. Alessandro e Giacomo, con estrema pazienza e senza prendermi a sberle, mi spiegano che tumuli e sepolture, a distanza di molti secoli dalla loro realizzazione, appaiono esattamente così. Originariamente erano montagnole di pietre sovrapposte nelle quali veniva lasciata un’apertura in cima per collocare il defunto all’interno. Una volta completata la sepoltura, il tumulo veniva chiuso con una pietra più grande. Col passare del tempo, soprattutto su terreni scoscesi, gli agenti atmosferici fanno scivolare il terreno a ridosso della sepoltura che viene così parzialmente o del tutto ricoperta. A quel punto, la natura fa il resto, facendoci crescere sopra muschi, erba, piante o addirittura alberi.
La spiegazione tecnica mi esalta. Finito il momento di meraviglia, mi assale lo sconforto: in un bosco in alta montagna qualsiasi cosa assomiglia ad una collinetta. Sarà una ricerca complicata.
Dopo aver osservato il presunto tumulo e scattato alcune foto, decidiamo di tornare il giorno dopo con l’attrezzatura per fare una valutazione più completa. L’ideale sarebbe anche battere il punto: per ritrovare il luogo preciso per una successiva indagine, si possono prendere le esatte coordinate con un rilevatore Gps. In assenza dell’apposito apparecchio, si può scaricare un’applicazione per il cellulare. Che ovviamente non ha rete.
Mentalmente aggiorno la lista delle cose che mi fanno incazzare della tecnologia.
Alessandro e Giacomo sembrano abbastanza convinti di aver trovato quello che stiamo cercando ma sono scettici sulla possibilità che il tumulo sia isolato: di solito le sepolture avvenivano vicino ad altre in luoghi precisi e lontani dagli insediamenti abitati. Un po’ come i nostri attuali cimiteri. Per questo motivo decidiamo di proseguire lungo il pendio alla ricerca di altri punti interessanti. Mentre ci stiamo muovendo, Giacomo scherza: “E adesso come fai a scrivere l’articolo? Forse abbiamo trovato i tumuli il primo giorno!”. Faccio il neutrale e minimizzo: “L’importante è aver trovato qualcosa, il quando non importa…” Cazzate. Giacomo ha ragione: in quale epopea esplorativa i protagonisti ottengono il risultato il primo giorno? Non succede mai. Il trionfo è riservato all’ultimo istante dell’ultimo giorno, quando tutto sembra ormai irrimediabilmente perduto. Mastico amaro, mi faccio un po’ schifo per essere diventato disilluso come un René Belloq qualsiasi (cfr. Indiana Jones e i predatori dell’arca perduta) e mi rimetto a camminare.
Il resto della giornata posso catalogarlo con il titolo “Quello che in montagna non andrebbe mai fatto, ma chissenefrega”: senza una cartina adeguata, a pomeriggio già inoltrato, decidiamo unilateralmente di prendere il sentiero più ripido per arrivare a ridosso dell’ultimo balzo di roccia prima della cima. Il sentiero ha un nome che molto promette (e molto mantiene): la direttissima. Lo spirito archeologico ci possiede, i toponimi non ci spaventano e ci avventuriamo. Stremato dalla fatica, della direttissima ricordo solamente due punti: uno in cui ho pensato che un passo falso mi avrebbe precipitato direttamente a Tolmezzo e l’altro quando, guardando davanti a me sul sentiero mentre salivamo, ho visto le scarpe di Giacomo all’altezza degli occhi. Per osservare il resto del suo corpo dovevo praticamente buttare all’indietro la testa. Mai vista una pendenza simile.
Seguendo fedelmente la legge di Murphy, su quel sentiero non abbiamo trovato la minima traccia di altri possibili tumuli. Non solo: una volta scesi a Tolmezzo, consultando una carta dei sentieri, ci accorgiamo di aver percorso quello sbagliato. Se c’è una possibilità di trovare altre sepolture non è certo su uno scosceso pendio di roccia, ma sul fianco del monte, rimanendo più o meno alla stessa altitudine del presunto tumulo che abbiamo visto vicino all’oleodotto. La direttissima ci ha tradito, l’umore è abbastanza scuro. Si torna a casa.
In cosa consiste l’attrezzatura di un archeologo? Contrariamente alla mia idea, non prevede frusta e revolver. Il piccone, in compenso, è d’ordinanza. Il resto è formato da carta millimetrata, cordino, chiodi, molte matite, piccole cazzuole e un oggetto di cui, fino ad oggi, ignoravo l’esistenza: la palina metrica.
Dicesi palina metrica un bastone di legno lungo circa un metro e mezzo artisticamente dipinto a strisce rosse e bianche; ad una delle estremità si trova una punta di metallo acuminata. Alessandro blocca sul nascere la mia fervida fantasia: la palina non serve per trafiggere gli archeologi nemici ma per avere un riferimento dimensionale quando si scattano delle foto vicino a dei punti di interesse. Un affossamento nel terreno, una roccia con una squadratura artefatta, una collinetta, Etc… La palina piantata per terra o distesa, aiuta a verificare quale sia la reale dimensione e lunghezza di quello che si guarda.
La spiegazione mi convince, ma per tutto il giorno guarderò Alessandro, il portatore designato della palina, come se fosse un incrocio tra un giavellottista e un oplita spartano.
Il percorso è lo stesso del giorno precedente: saliamo alla Picotta, incontriamo l’oleodotto, rileviamo, fotografiamo e misuriamo il probabile tumulo, riusciamo a battere il punto Gps (imparo in fretta dagli errori: ho scaricato l’applicazione la sera prima), passiamo accanto alla direttissima, mostriamo il dito medio alla direttissima e proseguiamo oltre.
Il sentiero è effettivamente meno ripido e percorre il fianco della montagna su un terreno più regolare, più adatto ad eventuali insediamenti o necropoli rispetto a quello che avevamo visto il giorno prima.
Mi sono ormai totalmente calato nel trip dell’archeologo: qualsiasi montarozzo di terra, cumulo di sassi o avvallamento appare ai miei occhi come una possibile sepoltura. Sono diventato un’integralista delle dita puntate e dei “Guarda quello!”. Col passare delle ore divento meno molesto, un po’ per stanchezza e un po’ convinto dal pensiero che Alessandro potrebbe decidere di mostrarmi altri utilizzi della punta acuminata della palina metrica. La giornata è comunque produttiva: arriviamo a quota 900 metri (vicini alla cima), riusciamo a battere almeno altri due punti Gps e sulla strada del ritorno individuiamo la base di una vecchia struttura a pianta quadrata. Le grandi pietre che ne formavano le fondamenta, anche se ricoperte dal muschio e dalle piante, sono chiaramente visibili. Scavando leggermente il terreno con la microcazzuola (nome di fantasia scelto da me), Alessandro e Giacomo riescono ad individuare dei resti di malta, usati per tenere insieme le pietre. È impossibile dire con certezza a quando risalga la struttura, ma Alessandro ritiene comunque interessante segnare le coordinate e proporre una successiva indagine.
Fin qui l’esperienza archeologica ha pienamente soddisfatto le mie aspettative: risalire montagne, camminare su terreno accidentato, perdersi nei boschi, sudare e molto altro le considero tutte cose facenti parte dello Starters Pack dell’archeologo tipo. Ovviamente non c’è solo questo.
Sono stato iniziato al culto dell’argilla.
L’archeologia è così, il successo completo è merce rara. Come dice Giacomo quando lo tedio con le mie farneticazioni su Indiana Jones: “Anche Harrison Ford, l’archeologo più famoso del mondo, deve fare l’attore per vivere.”
Come ho già detto, la zona di Tolmezzo è stata interessata da moltissimi insediamenti; le popolazioni locali si sono ovviamente trovate con la necessità di conservare liquidi ed oggetti in appositi contenitori fatti di ceramica o terracotta.
L’argilla con la quale sono realizzati si trova naturalmente nel terreno, ma non dappertutto: servono delle indagini specifiche per individuarne i giacimenti. Dato che i nostri quattro giorni di permanenza sono pochi per mettersi a scavare e carotare un’intera valle, Alessandro e Giacomo hanno fatto i compiti in anticipo portandosi delle indagini sui terreni fatte anni prima dal Comune di Tolmezzo per scopi edili. Grazie ad esse, sappiamo esattamente dove andare a cercare.
Il resto della nostra mattinata lo passiamo saltando da una parte all’altra del torrente Fornicion che costeggia Illegio, individuando i punti dove l’argilla emerge alla luce del sole. Una volta trovata, prendiamo la microcazzuola, stacchiamo un pezzetto e lo infiliamo in un sacchetto da congelatore etichettando il luogo esatto del ritrovamento. È un lavoro sporco, letteralmente.
I miei due Ciceroni sono contentissimi: l’argilla che troviamo pare essere ottima e avrebbe dovuto permettere la realizzazione di eccellenti contenitori. Uso il condizionale perché capisco dalle osservazioni di Alessandro che in realtà i locali producessero dei pessimi oggetti, particolarmente fragili, imperfetti e quindi non compatibili con il buon materiale che abbiamo trovato. I campioni servono proprio a questo: analizzandoli si potrà capire se il materiale è lo stesso dei manufatti che sono stati ritrovati o se sia un tipo diverso. In quest’ultimo caso, l’argilla sarebbe stata evidentemente importata nella zona di Illegio da chissà dove; se invece fosse la stessa, la scarsa qualità degli oggetti sarebbe da imputare al tipo di lavorazione e cottura successivo.
Mi soffermo a osservare un grande pezzo di argilla che ho raccolto: lo guardo, cercando di trovare in esso le risposte a millenni di progresso umano. Sembra la pasta modellabile con la quale all’asilo gli altri bambini facevano piccole sculture meravigliose mentre io a stento riuscivo a comporre una banana (più simile ad uno sfollagente, in realtà). L’evoluzione è stata riservata ad altri, non a me. Frustrazione assoluta.
In tre giorni in Carnia il bilancio è stato buono: la raccolta delle argille è andata bene, abbiamo battuto l’intero fianco di una montagna trovando varie tracce di strutture o presunte tali, tutte meritevoli di successive indagini. Ma c’è comunque insoddisfazione generale. Alessandro non è del tutto convinto che quello che abbiamo trovato sia collegato ai tumuli che stavamo cercando; Giacomo vuole prelevare altri campioni d’argilla per avere più materiale d’analisi. Io mi trovo in uno stato d’animo indefinito: sono contento perché quello che abbiamo fatto è stato più che sufficiente per farmi un’idea di quale sia il reale lavoro di due archeologi. Però.
Però manca il colpo ad effetto. Non c’è stata nessuna Arca dell’Alleanza che si è aperta liberando morti stecchiti e spiriti malvagi, non abbiamo riportato l’ultima pietra di Shannara al villaggio indiano. Né tantomeno abbiamo incontrato l’ultimo templare a guardia del calice di Cristo.
Capita. L’archeologia è così, il successo completo è merce rara. Come dice Giacomo quando lo tedio con le mie farneticazioni su Indiana Jones: “Anche Harrison Ford, l’archeologo più famoso del mondo, deve fare l’attore per vivere.”
Decidiamo di passare il pomeriggio nella biblioteca di Tolmezzo per consultare un libro di storia e aneddoti del paese. Stiamo cercando le ultime conferme sul lavoro che abbiamo fatto nei giorni precedenti e poi Alessandro e Giacomo scriveranno i risultati ad Aurora Cagnana, direttrice della missione archeologica, e alla soprintendenza della Regione Friuli.
Via via che sfogliamo il libro ci rendiamo conto che qualcosa non torna: le testimonianze di cui abbiamo sentito parlare fin dall’inizio non combaciano. La foto che ritrae gli operai dell’oleodotto coi tumuli ritrovati, della quale ci hanno raccontato in molti, sembra non esistere. E, soprattutto, la parte di montagna che abbiamo perlustrato pare non essere quella giusta.
Recuperiamo in fretta altri libri, cerchiamo nuovi dati che possano darci qualche prova certa ma non abbiamo molta fortuna. Riusciamo a malapena ad isolare una nuova zona di ricerca per il giorno dopo, basandoci su un paio di punti di riferimento riportati da un vecchio articolo di giornale degli anni’ 60. È tutto quello che troviamo e decidiamo di farcelo bastare.
Fino a adesso ho raccontato la mia esperienza da assistente archeologo come in un diario: sono stato preciso ai limiti del pignolo e penso di aver omesso solo pochissimi dettagli di quello che abbiamo visto e fatto. Da questo punto in poi dovrò per forza essere laconico. Il motivo di questo cambio di registro sarà evidente alla fine di questa storia.
Quarto giorno, l’ultimo che trascorriamo in Carnia.
Decidiamo di dividerci: Giacomo raccoglierà ancora campioni di argilla nel fiume vicino ad Illegio mentre io e Alessandro andremo a fare un ultimo (disperato) tentativo di individuare i tumuli nella zona di cui abbiamo raccolto i dati in biblioteca.
È una giornata terribile: fa più freddo degli altri giorni, durante la notte è nevicato sulle cime più alte e sta piovendo a dirotto e continuamente da quando ci siamo svegliati. Il meteo ideale per camminare in un bosco, coi piedi che sprofondano nella terra fino alla caviglia, circondati da alberi e piante che grondano ulteriori rubinettate d’acqua.
Decidiamo il piano d’azione: percorreremo il bosco a distanza di dieci metri l’uno dall’altro, camminando in parallelo lungo tutta la zona di ricerca. Arrivati al limite della zona, scenderemo di qualche centinaio di metri e torneremo indietro, sempre a distanza e in parallelo. E avanti così per tutto il pendio, fino a trovare qualcosa.
Mentre ci prepariamo fuori dalla macchina parcheggiata, Alessandro mi offre uno dei suoi sigari: è da molto che non ne fumo uno e mi sorprendo di riuscire a tenerlo sospeso in bocca senza l’aiuto delle dita, come si vede fare ai protagonisti dei film.
Quel momento è stato il primo e l’unico nella mia vita in cui mi sono sentito uno di loro: fumo un sigaro senza mani mentre mi allaccio le scarpe; poi, attraverso la pioggia battente, guardo la montagna immersa nella nebbia. Sembra molto il finale di Casablanca. Poi però mi vedo riflesso nel parabrezza: non sono Humphrey Bogart e Alessandro decisamente non è Ingrid Bergman.
È stata anche la prima volta in vita mia in cui ho fumato un sigaro prima di ottenere un successo.
Perché i tumuli alla fine li abbiamo trovati davvero, dopo ore di ricerca e dopo esserci bagnati fino alle mutande, nonostante giacche e mantelline. Trovati all’ultimo istante dell’ultimo giorno, quando tutto sembrava ormai irrimediabilmente perduto. Come volevasi dimostrare.
Le sepolture erano esattamente dove sarebbero dovute essere, solo che erano sempre stati cercate nel punto sbagliato. E non erano poche come avevamo sentito, ma decine: una necropoli intera distesa lungo il fianco della montagna. Probabilmente non si tratta di sepolture slave (all’incirca del II-IV secolo d.C.) come si pensava, ma di qualcosa di più antico, forse risalente all’età del ferro o alla cultura di Hallstatt (tra il XII e il V secolo a.C.).
Per almeno un’ora io e Alessandro siamo corsi su e giù come pazzi per il pendio, individuando un tumulo dopo l’altro. Abbiamo scattato foto (di una qualità imbarazzante: l’obiettivo della macchina si appannava in continuazione), abbiamo segnato le coordinate Gps.
E non abbiamo scavato niente. Perché non funziona così, anche se sembra frustrante. Perché quello che si vede nei film non è vera archeologia: nella vita reale servono le autorizzazioni della soprintendenza. Purtroppo questa regola non vale per tutti: almeno una decina di tumuli della necropoli erano già stati scavati e svuotati. I tombaroli dei film esistono anche nel 2016 in Italia e purtroppo sono dannatamente scaltri e veloci nel fare il loro lavoro.
Ecco il motivo per il quale sono stato volutamente vago nel raccontare le nostre ultime ore in Friuli, senza alcun dubbio le più belle e soddisfacenti della mia breve esperienza da archeologo. Non vorrei che per una leggerezza, un particolare superficiale o una sbadataggine scritta in un articolo altri delinquenti decidessero di dare il via al saccheggio selvaggio di quello che è stato ritrovato.
La speranza è che le autorizzazioni allo scavo arrivino velocemente, così come i finanziamenti: la lentezza dei procedimenti e la mancanza endemica di investimenti nell’archeologia purtroppo non permettono di essere ottimisti sulle sorti del nostro ritrovamento. Intervenire prima che qualcuno porti via tutto in maniera illecita sarebbe fondamentale: al di là del semplice danno economico, il “lavoro” dei tombaroli distrugge il contesto archeologico. Per loro i manufatti sono solo belli o brutti, preziosi o da buttare. Per gli studiosi invece ogni singolo pezzo è un tesoro di informazioni.
Il rischio più paradossale però è che la necropoli venga riconosciuta e poi, semplicemente, lasciata dov’è. Inghiottita del bosco per la seconda volta, come una specie di monumento dedicato alla burocrazia italiana.
Non resta che sperare per il meglio. E soprattutto insistere con chi è davvero in grado di fare qualcosa.
Alla fine dei giochi, la mia idea sugli archeologi è cambiata. La visione romanzata alla Indiana Jones ha lasciato il posto a qualcosa di diverso. Proprio l’ultimo giorno mi è tornato in mente quello che Alessandro mi aveva raccontato durante il viaggio d’andata in macchina, da Berlino a Tolmezzo. Era la storia di Giovanni Battista Belzoni, uno dei primi archeologi italiani di una certa fama. Il buon Belzoni aveva studiato idraulica, ma si era appassionato all’archeologia fin da giovanissimo. Gli eventi della vita lo avevano portato in Inghilterra dove, grazie anche alla sua robusta costituzione fisica, campava facendo l’uomo forzuto nei circhi itineranti. Quello coi baffi a manubrio che alza bilancieri, che tira un carro di buoi con la sola forza del proprio tronco, che solleva una piramide umana con le braccia… Ma la sua passione non si era mai spenta: dopo anni di spettacoli aveva deciso di mollare tutto e partire per l’Egitto. Per farla breve, tra il 1816 e il 1819 scoprì sette tombe di grande importanza e identificò l’ubicazione esatta della piramide di Chefren.
Non c’è un epilogo glorioso in questa storia: Belzoni morì durante un viaggio d’esplorazione, intrapreso per ripagare i debiti contratti per finanziare le sue spedizioni archeologiche. Chi volesse rendergli omaggio lo può trovare sepolto sotto un albero alla periferia di Gwato, una piccola città nell’attuale Benin.
Eccola la vita dell’archeologo, con i soldi che arrivano un po’ sì e un po’ no. Con la gloria che forse non ottiene nemmeno dopo una vita di scoperte. Con i tombaroli che spesso ti battono sul tempo, con l’incertezza di non poter concludere il proprio lavoro come si vorrebbe e dovrebbe, con la burocrazia ostile, con i fondi da ottenere.
Rimane la passione, quella sì è la stessa di Indiana Jones e di Belzoni. Ed è solo quella che ti porta ad avere un secondo lavoro, ad andare a scavare nel deserto, ad abbarbicarti su un pendio in montagna o sui sassi di un fiume per cercare delle argille. Anche con le informazioni sbagliate, in un piovoso ottobre friulano.
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