In questa foto mamma guarda in su, come se avesse appena visto un uccello volare nella stanza. E ogni cosa – la vecchia poltrona, i nostri abiti, i ricami della tovaglia – è ancora al suo posto.
Una bambina si introduce, trasgredendo agli ordini, nella stanza di una donna, un luogo per lei da sempre interdetto, nel quale non è attesa e non è accolta. La trova seduta in poltrona, gli occhi persi nel vuoto, immersa nelle ombre. Quando si accorge della sua presenza, la donna, che è sua madre, le sussurra qualcosa, baciandole i capelli: perdonami. Perché?
DOMANDE
Una minima infelicità, il romanzo d’esordio di Carmen Verde (Neri Pozza) si apre con una domanda, è una storia continuamente attraversata dalle domande. La protagonista, Annetta, una petite, una donna destinata a rimanere piccola nel corpo, per tutta la vita, si pone interrogativi ai quali non riceverà risposta. Cosa si nasconde dietro lo sguardo della madre Sofia Vivier, donna bella, inquieta, infedele, immersa in una sofferenza indecifrabile, affamata d’amore? Cosa è celato nel suo stesso cuore, freddo e lontano, quasi senza una ragione, davanti al padre, figura che per buona parte della sua vita le apparirà distante e inesplicabile? Quando si è piccoli? Di quali colpe la madre le sta chiedendo perdono? Perché le sue compagne la disprezzano? Cosa muove l’odio instancabile di Clara Bigi, la governante che la tortura con le sue regole insensate e i suoi divieti? Che cosa è l’infelicità e come misurarla con esattezza? La sua vita, si chiede Annetta, la sua stessa presenza al mondo, è in qualche modo giustificata?
Ho incontrato Carmen Verde per rivolgerle qualche domanda, sulla sua scrittura, i libri letti e quelli fantasticati, sulla costruzione del personaggio e dell’identità narrativa.
Dio è l’altezza suprema. Dio è l’Altissimo.
Non è spaventoso?
E. Cocco
Carmen, il tuo romanzo è cosparso di domande, non c’è un solo aspetto della vita di Annetta che non sia passato al setaccio dai suoi interrogativi. Penso che le domande siano per lei una strategia di difesa, l’esercizio ripetuto del dubbio la tormenta, ma al tempo stesso la dispensa dal prendere delle decisioni definitive sulla sua vita, di trovare un suo ruolo nel mondo. Tutto è intermittente in lei, nessuna verità è data.
La strategia testuale della domanda che tu usi così spesso in questo romanzo mi ha fatto venire in mente che è proprio nell’esercizio della scrittura è insita, in ogni autore, una domanda fondante, che si nasconde fra le pieghe del testo e che governa le sue opere, i suoi tentativi di interpretare il mondo, una sorta di mandato che l’autore deve assolvere attraverso il testo. Mi chiedo: qual è la tua domanda, quello che chiedi alla tua scrittura, il tuo mandato?
C. Verde
Sì, ho seminato in “Una minima infelicità” molte domande senza risposta. Tutto il romanzo è, in fondo, la storia di una domanda senza risposta. Annetta guarda sua madre incantata, ma lo sguardo di sua madre non arriva mai… E cos’è quello sguardo che non arriva se non una domanda senza risposta? Sofia Vivier, la madre della protagonista, non è forse una buona madre ma sarebbe un buon libro. Lo diceva già Proust: “Tutto quanto può fare un libro è donarci dei desideri”.
Ciò che io chiedo alla mia scrittura, è sobrietà, distacco, rigore. Non il calore della passione ma, anzi, una certa dose di gelo. Anche di ambiguità (la letteratura si fonda sull’ambiguità). È questa la mia idea di bellezza, ed è rispetto a questi parametri che giudico ogni mia pagina. Procedo con lentezza. Per un testo il tempo è importante perché lo cambia, lo aggiusta, dato che il tempo cambia anche lo scrittore, ne pulisce lo sguardo.
SOMIGLIANZA ED ESTRANEITÀ
Non pensai mai di essere brutta. Né dubitai mai di assomigliare a mia madre, pur non avendo le sue caviglie sottili, le sue proporzioni eleganti. La nostra era una somiglianza ingannevole, incomprensibile: il genere di somiglianza che stringe il cuore di chi arriva a riconoscerla.
E.C.
Somiglianza ed estraneità sono i due poli attraverso i quali si muove la storia di Annetta. La somiglianza che la lega alla madre è un segreto che forse solo lei conosce e vede. Il mondo, la vita operosa delle persone che viaggiano, che lavorano, le sue compagne di scuola, l’universo maschile, incarnato nella figura del padre, così come in quella del giovane amante della madre, tutto le è estraneo. Forse l’unica cosa che Annetta conosce, il principale oggetto della sua indagine, è proprio la natura della sua infelicità, l’unico elemento di pura connessione sia con il padre che con la madre. Partendo da questo ti chiedo a cosa somiglia la tua scrittura, o anche in cosa riscontri una somiglianza profonda con il tuo modo di fare letteratura, e cosa invece gli è estraneo?
C.V.
Scrivo con la disciplina di un monaco cistercense, mi ha detto di recente Guido Vitiello in un’intervista, accostandomi a Cristina Campo e facendomi arrossire. Cristina Campo chiamava ‘cistercense’ Bach, riferendosi al rigore della sua scrittura musicale, a quel salutare esercizio alla sorveglianza del proprio sé. Nella scrittura in fondo c’è un aspetto di autoesilio dal mondo: quando si scrive si sta sempre un po’ da un’altra parte. E scrivere, per me, è disciplina. Disciplina mentale (togliere continuamente per lasciare soltanto l’essenziale, eliminare il superfluo, dire ciò che basta e scegliere di non aggiungere altro: puoi permetterti di farlo se hai talmente interiorizzato e meditato il soggetto da poterlo rendere con un solo tratto (la sapienza dello scrittore sta nella scelta di ‘quel’ tratto) e disciplina del corpo: star seduta a scrivere tutti i weekend, compresi quelli fatti di belle giornate, sapendo di avere poco tempo e di dover tornare il lunedì mattina al mio ‘altro’ lavoro.
Mi sono estranee l’enfasi non controllata, le spiegazioni, tutta la ‘cellulite’ del testo. E la prosa che fa scadere le questioni morali in moralismo.
MISURAZIONE
La finestra della mia classe affacciava sulla strada. così che fra il mio banco e la panchina su cui lei sedeva, in attesa, c’erano non più di cinquanta metri in linea d’aria.
E.C.
Annetta, è una petite, una persona che non cresce, che resterà per sempre piccola. La madre, quando lei è ancora solo una bambina, ne misura costantemente l’altezza e ne osserva la crescita con apprensione. Il processo di misurazione, fisica, dei sentimenti, e delle emozioni, è praticato con costanza dalla protagonista del tuo romanzo. Già nel titolo la sua infelicità è definita minima, e Annetta stessa la racconta come un luogo fisico, una stanza, uno spazio percorribile, un territorio nel quale possiamo scegliere di eclissarci. In questo senso il tuo romanzo mi sembra lavorare molto sul concetto di misura, qualcosa che investe non solo i luoghi in cui si svolge la storia, così come la fisionomia dei protagonisti, ma anche lo spazio della pagina e la composizione delle frasi, dei capitoli. Tutto questo lavoro di misura, questa attenzione a quello che può essere ammesso nel campo visivo del lettore e quello che è destinato a restare nello spazio buio del fuori campo, quello che viene rivelato e quello che viene omesso, rende la tua opera al tempo stesso impalpabile eppure così profonda. Mi piacerebbe sapere come lavori alla storia così come alla pagina. Ti va di raccontarcelo?
C.V.
Confesso che quando scrivo non so precisamente come la storia evolverà: cosa volevo scrivere esattamente lo so sempre dopo averlo scritto. La storia la trovo con le parole e non con la fantasia (che, tra l’altro, credo di non avere). Ciò che cerco è l’interconnessione tra le cose che semino: così, nel romanzo collego una bambina piccola a una madre gigantesca e, per loro tramite, il vuoto al pieno, il limite all’illimitato, la rinuncia alla libertà, la felicità all’infelicità.
A proposito di infelicità, una parola a temperatura altissima, la convoco sulla pagina sapendo che non si può creare emozione con l’emozione. Che, per scrivere di un sentimento tanto caldo, occorre raffreddarlo. E ricordare che l’infelicità è fatta di pena e di crudeltà, di oscurità e di chiarezza, di memoria e di oblio, di ogni cosa e del suo contrario. Per raccontarla, faccio un profondo lavoro di omissione, che apre voragini di senso nel testo. Nicola Gardini ha scritto un saggio molto bello sulla lacuna in letteratura. Lui scrive: “La lacuna sta al testo come l’ombra sta al corpo”. È questo che io cerco: non la verità pura e semplice dei fatti, ma una verità più profonda, spirituale che può risuonare – forse con più autorità –nell’ombra del non detto. Sulla pagina, questo si traduce anche in grandi spazi bianchi. Alterno il vuoto e il pieno, circondo le parole di silenzio, di modo che partecipino l’uno dello spirito dell’altra. L’infelicità è un pensiero tacito.
L’omissione riguarda anche il tempo, che non menziono. Il tempo per me rimane la questione più enigmatica. Concedo ai miei personaggi il privilegio dell’atemporalità.
IDENTITÀ E PERSONAGGIO
Sofia – gli occhiali da sole, il golfino di cashmere, le morbide scarpe di vitello – era nel momento più glorioso della sua giornata, quello in cui la sua bellezza, non più fresca come un tempo, godeva della penombra del tardo pomeriggio. Io le tenevo la mano (sottomessa come sempre alla sua fallibile guida), ma invisibile da dietro il bancone, così che papà non si accorse della mia presenza.
Forse per il rapido passaggio dalla semioscurità del retro alla luce del negozio, nemmeno riconobbe sua moglie.
E.C.
Annetta non vuole crescere, e si ritrova a non crescere ma al tempo stesso prova vergogna per il suo corpo che sembra restare fermo mentre gli altri vanno avanti, lasciandola indietro. Nelle sue fantasticherie a volte diventa altissima, enorme, ma nella vita di tutti i giorni tende a voler occupare sempre meno spazio, ad esercitare l’arte del recedere, a chiudere a una a una le stanze della sua grande casa per accontentarsi di un ambiente circoscritto. La storia che racconti ha molto a che vedere con la costruzione dell’identità, con l’immagine interiore che spesso non coincide affatto con quella che rimandiamo all’esterno. Possiamo, in ogni istante, essere irriconoscibili a noi stessi, o agli altri. In questa definizione dell’identità lo sguardo che raccoglie la nostra immagine, e facendolo ci definisce, è un elemento centrale. Nella storia che racconti i personaggi cercano disperatamente di definirsi di costruire un’immagine identitaria stabile e non intermittente, data dall’umore, il vissuto, i sentimenti dell’altro, senza mai riuscirci. Questa intermittenza identitaria si ripercuote anche sul tuo modo di caratterizzare i personaggi nella storia. Nessuno di loro ha una caratterizzazione fissa, stabile. Anche un personaggio terribile e respingente come Clara Bigi, la governante, a un certo punto porta dentro di sé la possibilità di non essere solo un’aguzzina ma anche una donna degna che qualcuno è in grado di amare. Lo stesso possiamo dire di Sofia Vivier che non è mai solo una traditrice, una madre assente. Ho trovato questa scelta moderna e condivisibile. Un punto di forza del tuo romanzo sono certamente i suoi personaggi e i meccanismi di relazione tra loro. Mi piacerebbe approfondire con te questo aspetto e capire meglio come costruisci nel testo la loro identità narrativa.
C.V.
Nabokov decenne in “Parla, ricordo” descrive così il sapone Pears con cui si lavava al mattino: “Nero catrame se asciutto, simile a un topazio se tenuto controluce tra le mani bagnate”. Con un procedimento contrario, in Una minima infelicità faccio guardare ad Annetta un dipinto in cui un dettaglio sembra luccicare come fosse oro ma, visto da vicino, si rivela solo una piccola chiazza marrone contornata di giallo. È un’intermittenza identitaria, come bene la definisci tu, e questo come narratrice mi interessa. In controluce, l’aguzzina Clara Bigi può brillare come un topazio, mentre il cristallo dei bicchieri di Sofia Vivier puo’ risultare malinconicamente opaco.
Hai perfettamente ragione quando dici che il mio romanzo è tutto un gioco di sguardi: c’è lo sguardo pettegolo della città puntato su Sofia Vivier; quello scaltro di Clara Bigi che fa emergere un aspetto nuovo della personalità della padrona; quello di Antonio Baldini di fronte ai pettegolezzi dei commessi del suo negozio; e infine quello sgomento di Annetta, che registra tutto. Guardando nelle fotografie il suo corpo minuscolo, Annetta dice: “Una parte di noi è pura astrazione. Noi piccoli siamo spettri per metà”. Ecco, quell’astrazione è anch’essa intermittenza identitaria: se fosse musica, sarebbe un vibrato, un suono che rimane nell’aria, sospeso, quando lo strumento ha smesso di suonare.
Lavorando al mio romanzo, che è ambientato per gran parte in una casa, ho pensato spesso al film “Il servo” di Losey, sceneggiato da Harold Pinter. Un piccolo gioiello fatto di figure ambigue, dove falsi duri incontrano falsi deboli, e in scena c’è un continuo gioco di sguardi intercettati attraverso uno specchio convesso, che amplifica lo spazio, lo duplica, lo deforma.
OGGETTI
«E i Lalique? Sono ancora nella cassapanca? Vá a prenderli» diceva. Ma dopo che le avevo mostrato, uno dopo l’altro, quei piccoli e preziosi cristalli, mi ordinava di metterli via, la voce carica di risentimento. «Via, via. Non voglio vederli mai più.» E di nuovo, il giorno dopo, mi chiedeva di prenderli; di nuovo il sangue le affluiva alle guance; di nuovo esigeva che li nascondessi per sempre. Dopo aver dedicato a loro quasi tutta la vita non desiderava ora che dimenticare quegli oggetti, condannarli definitivamente al buio della cassapanca. Oppure disfarsene, congedarli prima della fine.
E.C.
L’infelicità è irragionevole, dichiara Annetta, e la sua illogicità fa sì che nel tuo romanzo non segua nessun piano, non trovi casa in nessuna stabile motivazione ma si nasconda, invece, nei posti più impensati, in ogni angolo della storia, nel corpo, nel volto dei personaggi, e soprattutto negli oggetti, in tutti i costosi e raffinati apparati della messa in scena messa in atto da Sofia Vivier che tanto ricorda la sfarzosa e fallimentare ricerca dell’amore che anima Emma Bovary nell’immenso romanzo di Gustave Flaubert. Tutto quello che dovrebbe rallegrare Sofia Vivier, quello che dovrebbe portarle piacere, la mortifica. E così è per i tessuti che si trovano nel negozio del padre di Annetta, che si perde tra le stoffe rinunciando alla vita, così come per i costosi giocattoli di Annetta bambina, dei quali lei si disfa senza nessun rimpianto, regalandoli alle compagne di scuola che mai le saranno amiche. Nel tuo romanzo gli oggetti circondano i personaggi e spesso si sostituiscono a loro per lasciare dichiarazioni sul loro conto, per suggerire tutto quello che, detto in maniera diretta, li farebbe dissolvere o impietrire. Parliamone un po’: che valore hanno gli oggetti nella tua scrittura? Vogliamo fare una piccola ricognizione nel mondo degli oggetti che popolano Una minima infelicità?
C.V.
Coralli di Torre del Greco, cristalli di Daum, statuine di Meissen, bicchieri di cristallo e, sullo sfondo, una cassapanca che tutta questa bellezza ingoia e nasconde. Nel romanzo – che, in varie forme, racconta di un vuoto incolmabile – solamente quella cassapanca è stracolma. Così profonda che potrebbe arrivare agli inferi: nella mia mente, affacciandosi sull’orlo tenebroso di quella cassapanca si potrebbe precipitare.
C’è qualcosa di mortifero negli oggetti che dispongo nel romanzo. Con loro fa la bellezza fa il suo ingresso Baldini e, insieme a lei, il declino. A mano a mano che la decadenza s’insinua nella vita familiare, le statuine andranno in mille pezzi, le pareti si veneranno di rughe come i volti delle persone… I quadri, venduti all’asta, lasceranno una serie di altri vuoti sul grigio del muro. Bisognerebbe scrivere una storia sugli aloni che lasciano i quadri sulle pareti; che all’inizio sono abbaglianti e poi, via via, si fanno più tenui perché anche su di loro cade il tempo, con la sua polvere.
Non mi interessano gli oggetti per loro stessi, ma per il modo in cui Sofia si pone nei loro confronti. Le magnifiche porcellane hanno al loro interno la parola ‘cella’ e così mettono in scena la schiavitù per la bellezza di Sofia Vivier. Allo stesso tempo, sono una metafora: è Sofia, lei stessa a essere un vaso freddo di magnifica porcellana.
Non osavo accostare la penna a quelle pagine vuote.
E.C.
Ed eccoci arrivati alla domanda esiziale per chiunque si ritrovi a scrivere una storia, una faccenda spinosa di cui ogni autore è chiamato a rendere conto: l’oscura faccenda della voce. In questo romanzo c’è un diario ma la voce che parla dalle pagine del diario non è una voce scritta, e non è neanche la voce di un racconto che parte dalla viva voce della protagonista. La mia impressione è che a parlare in Una minima infelicità sia la voce della memoria di Annetta, una voce intermittente, epifanica, asincronica, che illumina senza soluzione di continuità alcuni momenti della vita della protagonista senza che questa continua alternanza di luce e di buio sia governata da un ordine prestabilito. Quindi ora parliamo un po’ della voce autoriale. La tua, che è ben definita, come l’hai trovata e che definizione potresti darci di questo misterioso oggetto del discorso (e delle più complesse speculazioni intorno al testo) che potremmo chiamare voce autoriale?
C.V.
Sì, è la voce della memoria della protagonista. Annetta, ormai adulta, racconta la sua storia dal futuro: per questo, la storia è raccontata al passato remoto e all’imperfetto, due tempi verbali che hanno una loro specifica, persuasiva malinconia. Senza un ordine prestabilito, seguendo i ricordi che vanno e vengono, la voce della protagonista torna al presente: in quelle pagine, è Annetta la ‘sopravvissuta’ a prendere la parola. La sua voce si fa ardita, lucida, sapiente.
E’ anche la mia la voce di Annetta. Per la prima volta, mi sono data il permesso di prestare la mia voce a lei e a tutti i personaggi del mio romanzo. Nei miei testi precedenti, volevo che i miei personaggi fossero altro da me. Temendo l’autobiografismo, come pratica di distacco narravo in terza persona. E, sistematicamente, allontanavo dalla pagina la mia vita. Che enorme sciocchezza. Nel rispetto pieno delle regole, giungevo a una scrittura immemore di me, dei miei rovelli… Stavolta, buttando via i luoghi comuni sull’io narrante, in ognuno dei personaggi del mio romanzo ho messo una parte del mio dolore, soggiogandolo. E ho raggiunto un distacco perfetto. Credo che non potrò più scrivere che in prima persona. Con la mia voce, insegno ai miei personaggi il loro canto.
IMMAGINI
Per un mese intero, tornando da scuola, continuai a osservare quel gatto, morto all’angolo della strada. Diventava ogni giorno più vuoto, inconsistente, tanto che la luce – che all’inizio gli batteva sul pelo – cominciò ad attraversarlo. Per un po’ fu solo trasparenza, poi solo un grigio niente, in mezzo a un tappeto di foglie morte.
E.C.
Nel romanzo c’è una scena che mi è rimasta impressa per la potenza dell’immagine che salta fuori dalla pagina. La protagonista racconta di una giornata al mare trascorsa con il padre, che insiste per portarla in acqua tenendola a cavalcioni sulle sue spalle. Annetta, che non sa nuotare, è spaventata e si sente ancora più piccola mentre il corpo del padre gli si rivela per la prima volta e gli appare quello di un gigante.
Il tuo romanzo è ricolmo di immagini, molte di queste sono, ambigue, piene di mistero, altre sono rivelatrici, segni che di colpo, senza la necessità di appoggiarsi a nessuna parola, mettono a nudo i personaggi. Penso alle unghie mangiucchiate della folle nonna Angelina, oppure all’immagine di Sofia nella mente di Annetta, che la trasfigura in una dea, e quella reale di Sofia malata, inseguita dall’inverno, che siede in poltrona in una bella giornata estiva coprendosi gli occhi con le mani per mettersi al riparo dalla luce del sole, o anche alle foto dalle quali Annetta, seguendo la traiettoria dello sguardo di chi vi è ritratto, cerca di indovinarne i moti dell’animo più sottili. L’immagine di quel gatto morto, all’angolo della strada, il cui corpo in disfacimento è attraversato dalla luce, è, un’immagine presagio che dagli occhi di Annetta passa al lettore, con tutto il suo carico di tragica attesa.
Mi piacerebbe restare a parlare ancora a lungo con te ma è arrivato il momento di salutarci. Prima, però, ti chiedo di regalare ancora un’immagine di questo tuo romanzo ai lettori. Potrebbe essere la prima che ti ha raggiunta e che ha dato avvio a questa storia, oppure quella che ti che ti ha stupito, che è arrivata da te senza che tu l’avessi meditata. Insomma: con quale immagine della tua storia hai voglia di congedarti dal lettore? Grazie per essere stata con noi.
C.V.
Scelgo la fotografia in cui la madre di Annetta agita un braccio come per salutare. Sul retro Sofia Vivier, con la sua bella grafia, ha scritto: “Da scartare”. Hanno i loro meriti le fotografie venute male.
Emanuela Cocco
Editor freelance e autrice, vive a Roma. Ha scritto per il teatro e per la televisione, come autrice e come critica. Ha pubblicato racconti e saggi di analisi letteraria su varie riviste e raccolte. È stata lettrice del Premio Italo Calvino, è tra i fondatori di Terra di nessuno, spazio di critica della drammaturgia. Dirige Trema, la collana di letteratura sinistra pubblicata da Edizioni Arcoiris. Collabora con la rivista Carmilla. Insegna editing e scrittura per Minimum Lab i corsi di minimumfax. e per altre scuole di scrittura, associazioni culturali e Università. Ha fondato e dirige la scuola di scrittura Scrivere di notte. Odia i refusi e scrive di notte. Tu che eri ogni ragazza (Wojtek, 2018) è il suo primo romanzo.
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