Servivano un grande foglio di carta, pennini, righe e squadre.
E la tabella dell’Existenzminimum, che ti diceva quanti zero virgola metri quadrati di tinello, di verde, di aria, di luce spettassero a ogni abitante.
Certo, ognuno seguiva la sua ricetta: chi aveva le Modulor, chi faceva Bauhaus e chi diceva less is more, ma alla fine il risultato era quello: volumi semplici, tanto verde, tanta aria, tanta luce.
C’è stato un tempo in cui l’architetto risolveva problemi.
Figlio del positivismo ottocentesco e cresciuto con le avanguardie novecentesche, l’architetto si trasformò in un tecnico illuminato al servizio dell’umanità. In collaborazione con l’industria si fece addirittura demiurgo: intercettava, prevedeva e plasmava le necessità degli abitanti delle città da lui disegnate, progettando posate per la sala da pranzo, poltrone per il salotto e tende per la camera da letto.
Con il passare degli anni ci si accorse che rialzare i palazzi su pilastri di cemento, usare finestre a nastro e piantare giardini sul tetto non bastava. Non bastava dare a ognuno il suo zero virgola metro quadrato di verde e di luce per salvare il mondo.
E venne il tempo in cui l’architetto andò a cercare i problemi.
«Per me il design è un modo di discutere la vita. È un modo di discutere la società, la politica, l’erotismo, il cibo e persino il design. Infine, è un modo di costruire una possibile utopia figurativa o di costruire una metafora della vita.»
In questa definizione di Ettore Sottsass c’è tutto il programma dell’architettura radicale.
Un esempio classico è questa creazione del Superstudio:
Superstudio propone alcune soluzioni per salvare i centri storici delle città italiane. Per Firenze suggerisce di allagare la città (l’immagine è forte perché siamo nel 1972, appena sei anni dopo la storica alluvione). Per Roma e Milano invece le soluzioni sono sotterrare la prima e chiudere sotto una cupola di smog la seconda.
Sono provocazioni, è chiaro, che però vogliono farci riflettere, vogliono aprirci nuovi punti di vista, vogliono mostrarci che i problemi non li risolviamo perché non li vogliamo risolvere, perché tutto sommato stiamo bene così anche se stiamo male.
Gli anni d’oro dell’architettura radicale sono passati da un pezzo, ma il loro approccio è ancora vivo ed è il fondamento del cosiddetto critical design.
Siamo andati a parlare con Liam Young in occasione della conferenza “Data Cities – Smart Technologies, Tracking and Human Rights” , organizzata dal Disruption Network Lab.
Young è un Esponente del critical design, ma in un modo tutto suo, perché lo integra nella speculative architecture.
“L’espressione speculative architecture esisteva prima che iniziassi a usarla, – ci dice Liam – ma credo di essere quello che la sta portando più avanti di tutti.”
Flavio Villani Non siamo fanatici anglisti. Da una parte ci scusiamo per l’indolenza di non aver tradotto critical design, dall’altra chiediamo comprensione perché la traduzione di speculative architecture va oltre le nostre modeste forze. In inglese l’aggettivo speculative definisce una storia o un’azione che non si regge su basi certe e in questo senso si avvicina al significato originario latino di elucubrazione, meditazione, ma nella direzione di fantasticheria. Lasciamo che sia ancora Liam Young a venirci in soccorso:
Liam Young Gli architetti hanno sempre sviluppato progetti di fantasia. Succedeva infatti che fossero fatti in vista di una successiva realizzazione o, molto più spesso, quando non c’erano le risorse per la costruzione. La speculative architecture è sempre stata vista come una disciplina minore dell’architettura. Non appena cambiavano le condizioni economiche, gli architetti abbandonavano i progetti di fantasia e tornavano alla progettazione di edifici fisici.
Per me la speculative architecture non è una soluzione temporanea, è il punto di arrivo. Può avere più impatto nel mondo reale di un singolo edificio realizzato, perché può raggiungere un pubblico molto più ampio e coinvolgerlo nella discussione sul futuro della città.
FV Come sei arrivato alla speculative architecture?
LY Ho studiato architettura in Australia e per alcuni anni ho lavorato in uno studio che verrebbe indicato come l’apice della professione, quello dell’archistar Zaha Hadid. Abbiamo progettato e realizzato opere tra le più rappresentative degli ultimi anni. Ma io ero sempre più frustrato: mi sentivo complice di quegli oligarchi e despoti da cui veniva la maggior parte dei nostri incarichi. Creavamo splendidi oggetti di lusso, ma qual era il senso di contribuire a quelle esibizioni di ricchezza, se le nostre capacità e la nostra creatività erano inaccessibili alla gente comune?
E comunque rimanevamo al di fuori dei processi reali di trasformazione che subiscono le città, che è l’esatto opposto del sogno di ogni architetto.
FV Com’è possibile che lavoravate alle opere più rappresentative senza lasciare il segno nelle città?
LY La maggior parte delle forze che oggi definiscono le esperienze urbane esiste al di fuori dello spettro fisico: sono relazioni di rete, tecnologie mobile, strutture software.
Come architetto mi sono confrontato con queste forze che stanno cambiando le nostre città e più mi immergevo in queste tecnologie, arrivate più velocemente della nostra comprensione, e più l’aspetto visionario e narrativo del mio lavoro diventava preponderante.
La speculative architecture può giocare un ruolo critico nella rappresentazione dei potenziali futuri delle città.
Mostriamo a Liam tre immagini di città d’invenzione.
La prima è La città ideale di incerta attribuzione, realizzata nella seconda metà del XV secolo e conservata a Urbino:
E poi due città dell’inizio del XX secolo, la Città industriale di Tony Garnier:
e la Città nuova di Antonio Sant’Elia:
Liam sorride. È l’unica volta che lo fa durante l’ora che passiamo insieme. Gli chiediamo se la sua Planet City segua lo stesso percorso di queste città d’invenzione.
LY Neanche Planet City è un progetto da realizzare.
Le utopie sono molto preoccupanti quando sono proiettate nel mondo reale. Il loro valore è nel discorso che generano. I progetti immaginari e visionari hanno cambiato la relazione dell’architettura con la realtà, non perché sono stati realizzati e sono diventati degli esempi, ma perché hanno cambiato totalmente l’approccio culturale della loro epoca.
Planet city opera come una città per l’intera popolazione della Terra concentrata su una superficie grande come l’area metropolitana di Tokyo. È una visione di come potremmo vivere in modo compatto insieme alle infrastrutture produttive, in contrapposizione al modello attuale di città che implica un altrove per i siti di produzione. In Planet city non c’è un esterno: tutto è prodotto all’interno. Gli abitanti vivono tra sistemi agricoli verticali e impianti di irrigazione. Negli spazi pubblici trovano posto frutteti e orti. Nei laghi e nei corsi d’acqua che attraversano la città si coltivano alghe e si allevano pesci. Negli impianti di riciclaggio dei rifiuti vengono prodotti fertilizzanti e mangimi per gli abitanti non umani della città. Ogni cosa è costruita sopra l’altra.
Chiaramente, una città per l’intera popolazione della Terra non vuole essere la soluzione di tutti i problemi. La nostra è una provocazione per suggerire che, se questi sistemi funzionano alla scala globale di Planet City, possono funzionare anche a quella minore delle città che abitiamo ora.
Il progetto è interamente fondato su tecnologie già esistenti e sviluppato in collaborazione con scienziati, teorici ed economisti. Ogni aspetto della città è reale, manca solo l’investimento culturale ed economico per realizzarlo.
FV Come raggiungerà il pubblico Planet City?
LY Il film Planet City è stato proiettato in anteprima da poco. È un tour visivo attraverso la città. A gennaio uscirà per la casa editrice Uro anche un libro, che raccoglie saggi di scienziati coinvolti nel progetto e racconti ambientati all’interno della città.
FV Qual è il tuo ruolo?
Mi definisco il curatore di Planet City.
Il progetto è stato sviluppato da quello che io chiamo un Consiglio comunale di consulenti e teorici provenienti da paesi di tutto il mondo. È molto più che la visione di un solo architetto. Molti collaboratori sono stati scelti perché rappresentano voci che normalmente sono escluse dalle discussioni sul futuro della città.
La fantascienza e le visioni del futuro hollywoodiane sono spesso sviluppate da prospettive molto occidentali e molto maschili. Invece Planet City contiene tutti i punti di vista, è una rappresentazione equa e proporzionale della popolazione della Terra, un progetto di fantascienza decolonizzato in contrapposizione a quello hollywoodiano.
FV Qual è la differenza tra la fantascienza hollywoodiana e Planet City?
LY Hollywood è rimasta, con alcune eccezioni, alle proiezioni distopiche cyberpunk degli anni Ottanta: città ad altissima densità coperte di luci al neon, ambienti postatomici, megastrutture aziendali che governano le nostre vite, cyborg e macchine volanti. Sono le condizioni ideali per l’esplosione di conflitti, che sono il pane della narrazione. È molto più difficile ambientare una storia appassionante in una città meravigliosa, perché l’eroe non ha nemici contro cui combattere.
Planet City vuole essere un antidoto a questa visione, in un momento in cui siamo già dentro un film distopico dal vivo. Ha più senso vedere come potrebbe essere il nostro futuro nel contesto del cambiamento climatico, invece di sentirci ripetere che stiamo per morire.
Planet City si pone come un prototipo dei cambiamenti necessari per vivere in modo sostenibile sulla Terra. Propone un modello post-vestfaliano di cittadinanza planetaria che superi i nazionalismi che negli ultimi anni sono emersi con violenza.
Il modello capitalistico ci spinge a lavorare per l’acquisto della casa e a riempirla di oggetti. Questa ridondanza è del tutto insostenibile e in Planet City abbiamo immaginato risorse condivise, dalle cucine ai data center di quartiere. Vogliamo superare le piantagioni a monocultura e le grandi conurbazioni industriali e passare alla produzione locale delle risorse.
FV C’è stata una supervisione estetica?
LY La forma della città emerge dalle indicazioni del Consiglio comunale tradotte in proposte progettuali. Non ci interessa tanto l’aspetto della città, quanto il suo funzionamento.
FV Però avete prestato molta attenzione all’impatto visivo.
LY Intervengo a eventi e convegni, mi invitano a parlare università e media. Voglio coinvolgere il pubblico più ampio possibile e che di solito non entra nei dibattiti sul futuro della città. Abbiamo utilizzato il mezzo della narrazione cinematografica e creato un’opera visivamente coinvolgente proprio per arrivare a questo pubblico. Le tecniche di Hollywood, gli effetti speciali e l’animazione sono il nostro cavallo di Troia per raccontare storie critiche sul futuro, in contrapposizione all’intrattenimento vuoto.
Mi sono trasferito a Los Angeles proprio per questo. Faccio speculative architecture e world building per l’industria cinematografica. Lavoro come consulente in produzioni di fantascienza mainstream per creare visioni urbane intelligenti, invece di immagini patinate, ma senza significato. L’estetica del futuro è solitamente definita da artisti concettuali, che in genere non hanno frequentato scuole di architettura, ma conoscono solo software di elaborazione d’immagine.
Prima, in particolare negli anni Sessanta e Settanta, era addirittura definita dai modellisti. Le scelte erano fondate sulla disponibilità e sul costo dei materiali e sulla fattibilità dei modelli. Non si realizzavano città pensando a come potessero essere, bastava che funzionassero sullo schermo.
Il lavoro di world building diventa il mezzo per visualizzare nuove forme urbane, non per creare solo uno sfondo visivo a una storia. Uso il cinema come laboratorio per sviluppare idee sulla città.
FV In quali progetti sei impegnato ora?
LY Con la pandemia, la maggior parte dei film a cui lavoravo ha subito ritardi di mesi e la maggior parte di quelli a cui ho lavorato non è ancora uscita. Al momento mi dedico a un film con robot e realtà aumentata sviluppato da Apple, che dovrebbe uscire tra qualche mese, e progetto una città per un film basato su una storia di fantascienza cinese, che dovrebbe uscire alla fine del 2021. Aziende come Mitsubishi, Ford e General Motors mi hanno commissionato film basati sull’evoluzione dei veicoli a guida autonoma nel futuro.
FV Abbiamo iniziato a parlare di città e finiamo a parlare di automobili.
LY Nel secolo scorso l’automobile ha cambiato la città molto più di qualsiasi altra tecnologia. In questo secolo è lo smartphone che sta cambiando l’esperienza urbana. Ignorare queste tecnologie e gli attori che le portano sul mercato significa mettere la testa sotto la sabbia, quindi da una parte cerco di essere molto attivo nello sviluppo di collaborazioni con le case automobilistiche e costringerle a farsi domande, dall’altra invito il pubblico a valutarne criticamente l’operato. Avremmo dovuto parlarne dieci anni fa, quando queste aziende avevano appena iniziato a investire, perché ora queste tecnologie, che ci piaccia o no, sono già tra di noi. I veicoli a guida autonoma cambieranno radicalmente la natura della città, cambieranno quello che è una strada, la vita di strada e anche l’aspetto degli edifici.
L’architettura tradizionale si trova all’estremità più lontana della catena di trasferimento tecnologico. La speculative architecture e lo storytelling possono aiutarla a colmare la distanza.
FV Il tuo lavoro è legato in qualche modo ai movimenti per i diritti umani?
LY È sicuramente legato al critical design e ai movimenti di progettazione responsabile.
Per continuare la vita umana su questo pianeta dobbiamo cambiare radicalmente la natura di quello che facciamo.
In Machine landscapes: Architectures of the Post-Anthropocene (Wiley, 2019, ndr) sostengo la tesi secondo cui il design incentrato sull’uomo, che nel linguaggio di mercato significa design incentrato sull’utente, cioè sul consumatore, sia straordinariamente problematico in termini di sostenibilità e che sia una delle cause principali delle condizioni attuali della Terra. Abbiamo messo l’essere umano al centro del nostro pensiero e abbiamo assoggettato il pianeta in base ai nostri desideri. Al momento sono più interessato al design incentrato sul carbonio, sulle foreste o sull’atmosfera.
Dobbiamo cominciare a ripensare il nostro posto nella gerarchia. L’idea di piegare ecosistemi alle nostre esigenze non è più attuale, dobbiamo progettare per le altre specie tanto quanto per noi stessi.
Non è proprio una risposta alla tua domanda, ma far scendere l’essere umano dal piedistallo e riconoscere i diritti umani della natura è critical design ed è parte del mio lavoro.
FV Quali sono le sfide e le opportunità che affronteremo nei prossimi anni?
LY Tecnologie come automazione e intelligenza artificiale giocheranno un ruolo fondamentale nel plasmare le città del futuro.
Vorrei che questi sistemi fossero infrastrutture pubbliche e non imprese private. Queste tecnologie sono ora prodotte da un pugno di grandi aziende che rispondono solo ai propri azionisti, invece che ai cittadini. Vorrei che passassero dal settore privato a quello pubblico.
Lo vediamo in questa pandemia: dipendiamo completamente dai social media e dalle reti globali di distribuzione e nessuno di questi sistemi fa parte del servizio pubblico.
Non sogno un futuro off grid in ci ritiriamo sulle montagne per vivere in case di tronchi coltivando i nostri pomodori.
La mia speranza è vedere nei prossimi dieci anni un’integrazione democratica e inclusiva di queste tecnologie nelle nostre vite.
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