Un arco giallo incornicia la piccola rampa da cui i ciclisti scendono per iniziare la tappa a cronometro che dà il via al Tour de France 2003. All’ombra della Tour Eiffel la gente grida e agita campane e maracas per incoraggiare i partecipanti. È il 5 luglio, il cielo parigino è coperto da un grigio strato di nuvole. «Bienvenue champion d’Olympique Hermann Maier!», annuncia una voce. Ai piedi della pedana non c’è il bianco soffice della neve, ma il grigio infuocato dell’asfalto. «Cinq, quatre, trois, deux, un…». Maier spinge i pedali con tutta la forza possibile. Il battito inizia ad accelerare velocemente. Dopo due minuti le gambe bruciano. Tutti lo avevano avvertito: «Non partire troppo forte!». Ma l’adrenalina è incontrollabile, come la voglia di dimostrare nuovamente qualcosa. Uno, due, uno, due. Tutta l’energia si concentra sulla spinta, come le migliaia di volte in cui ha pedalato sull’ergometro. Ma questa volta la strada si muove sotto i suoi piedi, e intorno a lui le persone gridano «Allez, Hermann!», neanche fossimo a Kitzbühel. Dopo 8 minuti e 45 secondi a tutta birra, Maier taglia il traguardo. Ha accumulato un ritardo di poco superiore al minuto dal primo classificato, Bradley McGee. Un risultato abbastanza deludente, se non fosse che Hermann Maier non fa il ciclista di professione, ma lo sciatore. E soprattutto che nell’estate 2001 ha rischiato seriamente di perdere una gamba, di smettere di sciare, di camminare, di vivere. Quello che ha passato nei due anni precedenti è drammatico, folle, incredibile, straordinario, come straordinarie sono la carriera e la vita di questo sciatore austriaco, capace non solo di scendere divinamente sulle piste, ma anche di risalire da un baratro profondissimo.
Ad Altenmarkt in Pongau, un piccolo comune a sessanta chilometri da Salisburgo dove nel 1955 Alois Rohrmoser ha fondato la Atomic, il 25 dicembre 1975 due sci di quel famoso marchio sono adagiati sotto l’albero di Natale della famiglia Maier: sono il regalo per il piccolo Hermann, che ha appena compiuto tre anni. I genitori sono entrambi maestri di sci, e in quelle zone non è raro che i bambini inizino a sciare prima di camminare. Per questo suo padre, Hermann senior, la mattina di Santo Stefano decide di portare il suo primogenito agli impianti di Griessenkar, nonostante le proteste di mamma Gerti. Tre ore dopo, i due sono di ritorno: «Prova tu», dice rassegnato il papà, trascinandosi dietro Hermann, contrariato e infreddolito da una mattinata passata con il sedere sulla neve. Gerti ci riprova, con maggiore pazienza, e nel giro di pochi giorni suo figlio si muove da solo sugli sci. A cavallo tra il 1975 e il 1976, mentre lo svedese Ingemar Stenmark inizia a costruire il suo dominio nel circuito, preparandosi a vincere la prima di tre coppe di cristallo consecutive, Hermann Maier fa quindi le prime curve sulle montagne vicino a casa. L’uomo che lo aiuta a salire sulla seggiovia, spazientito, non sa che sta assistendo alle origini del mito.
Carl Yarbrough se ne sta appostato su una scala ai bordi della pista di Hakuba. Capisce che deve scattare quando sente il rumore degli sci che grattano sulla neve, perché vuol dire che lo sciatore di turno si sta avvicinando. Sports Illustrated l’ha inviato come fotografo alle Olimpiadi invernali di Nagano 1998, in Giappone. Il 13 febbraio si disputa la discesa libera. Hermann Maier ha 25 anni e sta disputando la sua prima stagione da dominatore incontrastato: arriva nel Paese del Sol levante dopo dieci vittorie e altri sette podi in ventuno gare stagionali. Va dannatamente forte in tutte le competizioni (i successi sono così divisi: tre giganti, quattro super G, due discese e una combinata), e si presenta come punta di diamante di una nazionale austriaca quasi imbattibile, capace di mettere cinque uomini nei primi cinque classificati nella discesa di Beaver Creek. Prima di Nagano, la generale di Coppa del mondo vede Maier primo, il suo connazionale e compagno di stanza Andreas Schifferer secondo e Stephan Eberharter terzo. Herminator, come la gente ha iniziato a chiamarlo, è l’uomo del momento.
Carl, il fotografo, si mette in posizione in attesa del pettorale numero 4, quello di Maier. Sa che sta per passare davanti a lui, ma non sente il rumore della neve. Tutto tace. Che fine ha fatto? In una frazione di secondo, Yarbrough alza lo sguardo e vede un proiettile impazzito con il casco rosso, sollevato di almeno due metri da terra, andare verso di lui a una velocità pazzesca, con gli sci in aria e il corpo parallelo al terreno. Non ha il tempo di pensare: il dito preme sul pulsante della sua Nikon, che fa dodici scatti al secondo. Nel frattempo, Hermann si è schiantato sul terreno sbattendo la testa, ed è poi volato sulle recinzioni rosse, travolgendo anche la giacca di Carl, che era lì appoggiata. «Non può essere sopravvissuto», pensa Yarbrough. E invece, improvvisamente, Maier si muove, fa cenno che va tutto bene. Non ci può credere, Carl, che un secondo dopo sente il cellulare squillare: «Allora, hai la foto?», chiede il suo capo. «Puoi scommetterci», risponde il fotografo, che ha appena scattato la copertina del prossimo numero del magazine e immortalato per sempre in un’immagine the crash of the century. «La mia prima discesa libera alle Olimpiadi è durata meno di 20 secondi – ricorda Maier nella sua autobiografia -. Per essere precisi, è durata 17.7 secondi per terra e 1.7 in aria. Quegli ultimi 1,7 secondi mi hanno reso famoso in tutto il mondo».
Il mito della gloria dopo una caduta tipico dello sport, riassunto dai milanisti nella frase dopo Istanbul c’è sempre Atene, per Hermann Maier non è solo una metafora, ma esattamente quello che accade a Nagano, in Giappone, in quell’inverno del 1998. La sera dell’incidente, Hermann si trova nella stanza del suo hotel. Ha appena chiamato i suoi genitori per rassicurarli, e sta scherzando con suo fratello e due amici: «Hai ricevuto dei punti per il perfetto stile d’atterraggio?», gli chiedono. L’uomo di servizio della Carrera, uno degli sponsor tecnici, chiede se può prendere il suo casco rosso. «Non esiste, quello è il mio casco della vittoria, mi serve ancora per la prossima gara», risponde Hermann, per esorcizzare la paura di dover dire addio al suo sogno olimpico dopo 20 secondi sulla pista. All’esterno mostra un’incrollabile fiducia in se stesso, che diventa quasi spacconeria quando nell’improvvisata conferenza stampa nella lobby dell’albergo, dice ai giornalisti: «Se riesco a vincere una medaglia olimpica dopo questo, devo essere immortale». Il ginocchio però fa molto male, e il Super G si corre il giorno dopo. È una corsa contro il tempo, nei corridoi si comincia a parlare di Pepi Strobl, l’eventuale rimpiazzo di Maier, ma Herminator vuole esserci a tutti i costi, perché quella è la sua gara: fino a quel momento nella stagione ha partecipato a quattro Super G, vincendoli tutti.
Nella delegazione austriaca, e non solo, tutti si prodigano per mettere Maier nelle condizioni di gareggiare. È il miglior atleta del circuito, e una sua vittoria dopo quella caduta è la storia che tutti vorrebbero raccontare. La prima notte dopo l’incidente, Petra, l’allora compagna di Hermann, che alloggia in un appartamento con la fidanzata di Andreas Schifferer, Schiffi per gli amici, fa cambio con quest’ultimo, ben contento, nonostante la grande amicizia con Hermann, di dormire con la sua fidanzata e di non essere più disturbato durante il riposino pomeridiano dal cigolio della bicicletta statica di Maier. Nella stanza a fianco, i medici si consultano di continuo su come sistemare il ginocchio dello sciatore e renderlo arruolabile per il Super G. Gli amici del fan club fanno di tutto per tirarlo su di morale, lo portano anche a una partita di hockey su ghiaccio delle Olimpiadi a un’ora e mezza di macchina.
Poi il meteo inizia a giocare a favore dell’austriaco: le condizioni peggiorano, e la gara viene rinviata prima di un giorno e poi ancora una volta. Quando si deve correre il Super G sono passati tre giorni dal volo, e Hermann incomincia a sentirsi meglio. Ora ci crede, anzi, sa che se riuscirà a tagliare il traguardo sugli sci, è probabile che lo farà davanti a tutti, perché quell’anno è troppo più veloce, e non c’è dolore che possa buttarlo giù dal podio. Non scia alla solita maniera super-aggressiva, ma quando arriva in fondo e legge il display, tutta la tensione può sciogliersi: -0,61. Ce l’ha fatta: medaglia d’oro, davanti allo svizzero Didier Cuche. Scoppia in lacrime. A meno di 72 ore da un clamoroso incidente, Hermann Maier è campione olimpico. La gente in Austria impazzisce, Arnold Schwarzenegger lo chiama per fargli i complimenti.
E non è finita qui. Tre giorni dopo, nel gigante, arriva un’altra medaglia d’oro, questa volta con 85 centesimi di vantaggio sul compagno di squadra Eberharter. Maier diventa il personaggio più famoso del circo bianco e uno degli atleti più in vista del mondo: le agenzie di marketing stimano il suo valore di mercato a 10 milioni all’anno, una cifra spropositata per uno sciatore. Arrivano gli inviti dei talk show americani, perché negli Stati Uniti adorano la favola del muratore diventato milionario. Sì, perché Hermann Maier, uno dei migliori sciatori di sempre, due medaglie d’oro nella sua Olimpiade d’esordio, stava per mettere definitivamente in soffitta sci, scarponi e racchette per dedicarsi a cazzuola e mattoni.
Dieci anni prima delle Olimpiadi di Nagano, nell’estate del 1988, Hermann senior, che lavora come muratore, cade da sette metri di altezza mentre lavora alla cupola di vetro di una fabbrica di legno a Reitdorf, fratturandosi diverse ossa e rischiando la vita. Maier, che ha appena compiuto quindici anni, tornando sul luogo dell’incidente con il desiderio di capire la dinamica, ha una piccola epifania: «Il mondo degli affari non fa per me, voglio fare il muratore». Il 16 agosto 1988, dopo aver abbandonato l’accademia sportiva di Schlamding (frequentata solamente per uno dei tre anni previsti), inizia a lavorare in un cantiere e rende indimenticabile il suo primo giorno prendendosi un pannello di alluminio in testa. Il mestiere è duro, ma questo non lo spaventa, e anzi la sua abnegazione lo mette in buona luce con i colleghi. Hermann per loro va sempre a fare la spesa: birre, salsicce, sigarette, e ogni volta, quando deve consegnare il resto, arrotonda un po’ a suo favore, almeno per comprarsi il pranzo. Lavorando in cantiere, lui e suo fratello più piccolo, Alex (che diventerà uno snowboarder professionista), riescono con gli anni a finanziare tutti i loro primi, grandi acquisti: la moto, la patente, la prima macchina, una GM Star Kadett del 1978. Certo, nonostante i risultati non siano ancora entusiasmanti e i problemi alle ginocchia (il morbo di Osgood-Schlatter, tipico della crescita) lo tormentino, ciò che guida e condiziona la vita del giovane Hermann è il sogno di diventare uno sciatore professionista.
Da quando diventa maggiorenne, alterna le estati da muratore agli inverni in cui lavora come maestro di sci, dove con meticolosità studia gli aspetti teorici e tecnici della disciplina. Alla fine delle lezioni, resta sulle piste fino alla chiusura, a sciare da solo, con qualsiasi condizione atmosferica. Una domenica tipo del 18enne Hermann inizia quando fuori è ancora buio, con il tragitto fino a Kitzsteinhorn, dove hanno la scuola sci di famiglia (il padre, nel frattempo, ha ripreso anche a sciare), prosegue con un’intera giornata sulle piste, fino all’ultima risalita, e finisce sull’erba del Flachau, la sua squadra di calcio, in cui gioca con discreti risultati. Si allena con un’intensità impressionante, mettendo tutto se stesso, anche se spesso lo fa in maniera disordinata, perché totalmente autodidatta: disegna lui i percorsi con le porte, scia fuori pista, si crea la sua tabella di esercizio fisico, tra i pesi al sito di costruzioni e le ore trascorse a pedalare e a correre. Studia le videocassette delle vecchie Coppe del mondo, soprattutto del suo modello, Rudi Nierlich, spinto anche dalla madre: «Quello che fanno quei ragazzi, puoi farlo anche tu», gli dice Gerti. Ha un talento naturale rarissimo, uno spirito di sacrificio esemplare e una dose di follia e amore per la velocità che deve avere chiunque voglia lanciarsi a oltre cento chilometri orari giù dalle montagne.
All’inizio del nuovo millennio, Hermann Maier è da qualche anno il miglior sciatore del mondo. Ha conquistato nel 2001 la sua terza Coppa del mondo generale. Nel 1999 ha vinto l’oro sia in discesa libera che in super G ai mondiali di Beaver Creek. Tra il 1998 e il 2000 ha messo in fila sette vittorie consecutive in supergigante. Ha dominato su tutte le piste più iconiche dello sci alpino, dalla Stelvio di Bormio alla Streif di Kitzbühel. La sciata impetuosa e potentissima, i suoi occhi azzurri e le sue avventure lo hanno reso uno degli atleti più amati e famosi, non solo tra gli appassionati di sport invernali. I fan lo seguono ovunque, mostrando il glück Schwein, il maialino portafortuna dello sciatore sui loro striscioni, mascherandosi, cantando, suonando e facendo chiasso per supportarlo. In Austria, un paese per due terzi montuoso, dove lo sci è lo sport nazionale, Maier è una leggenda. Nell’estate 2001, dopo sei settimane di allenamento sulle Ande, in Cile, si prepara a un’altra stagione di successi, di lotte all’ultimo centesimo con il connazionale Stephan Eberharter, l’antiMaier in tutto e per tutto, e con il nuovo fenomeno che si sta affacciando alla finestra del Circo bianco: un personaggio atipico, americano, figlio di due hippy, cresciuto senza elettricità, che gira per le montagne europee a bordo di un super-camper e dice di aver corso diverse gare da sbronzo. Un fenomeno sulle piste, capace di vincere un oro olimpico, quattro mondiali, due Coppe del mondo generali, ma anche fuori, con tutte le sue stranezze: Bode Miller. Ma proprio in quell’estate del 2001, la carriera e la vita di Maier vengono divise in due, squarciate da un evento imprevedibile, su cui lui non ha nessun controllo.
Il 24 agosto Hermann, dopo aver terminato la sua sessione di allenamento in palestra, una pedalata sulla cyclette mantenendo la frequenza cardiaca tra i 105 e i 110 battiti al minuto, si mette d’accordo con suo fratello Alex e uno dei suoi allenatori, Andy Evers, per andare a vedere una partita di calcio a Flachau, e poi magari a farsi un paio di birre. Uscito dal centro sportivo, mette in moto la sua Penz Sp 14 Performance, una moto fatta su misura per lui del valore di 36mila euro, uno sfizio che Hermann sentiva di meritarsi dopo aver vinto la terza Coppa del mondo, definita da lui stesso «il primo vero lusso della mia vita». Obertauern e Flachau sono separate da una ventina di chilometri, che Maier ha percorso migliaia di volte; con addosso un giubbotto di pelle e l’euforia di una stagione sciistica che si annuncia trionfale pensa «Niente può fermarmi, ora» mentre pilota la Penz tra le montagne, all’imbrunire. A un certo punto, però, mentre sta sorpassando delle auto, una Mercedes C 180 rossa svolta improvvisamente a sinistra senza mettere la freccia, senza nessun preavviso, attraversando un’isola di traffico sulla quale non poteva transitare. I tempi di reazione di Maier sono, come prevedibile, eccezionali, ma la collisione non può essere evitata. Viene sbalzato dalla moto e fa un volo di quasi dieci metri prima di atterrare per terra e finire in un fosso. La scena davanti ai primi soccorritori è drammaticamente tarantiniana: Maier se ne sta disteso sulla schiena, ricoperto di sangue, con le ossa che gli escono dai blue jeans. La parte inferiore della gamba destra è attaccata al resto del corpo solamente da uno strato di pelle. Hermann però è cosciente, lucido, chiede aiuto. Dopo aver realizzato cosa gli stia succedendo, il suo pensiero è uno: come farò a sciare con una gamba del genere?
Caricati a fatica i suoi 100 chili sull’ambulanza e trasportato d’urgenza in ospedale, Hermann ha la forza di dire ai medici (che lo conoscono bene): «Ora scriveremo una storia completamente nuova della mia carriera». Ma il dottor Harald Aufmesser, mentre organizza il suo trasferimento in elicottero dalla clinica di Radstadt al centro di Salisburgo dove lavora il chirurgo di Hermann, Artur Trost, gela il sangue dello sciatore: «Temo che per molto tempo non dovrai pensare allo sci». Solo a quel punto Maier capisce che non si sta parlando della Coppa del mondo, o delle Olimpiadi di Salt Lake City, ma della sua vita. In ospedale sono arrivati suo fratello, i suoi amici, i genitori, la nuova fidanzata, Gudrun, e Heini, il suo allenatore, una figura importante nella vita di Maier prima dell’incidente, fondamentale per quello che verrà dopo. L’intervento dura sette ore ed è complicatissimo: per ricomporre le fratture gli viene impiantata nella gamba un’asta in titanio di trenta centimetri; della pelle gli viene tolta dal braccio sinistro per essere messa sulla gamba destra. Le complicazioni sono molte, compresa un’insufficienza renale, ma alla fine quando Hermann riapre gli occhi, in una stanza con altri sei pazienti, la sua più grande paura è scongiurata: la gamba c’è ancora. Tutto il resto, però, è da vedere.
Il 27 gennaio 2003, cinquecentoventuno giorni dopo quell’incidente, Hermann guarda la neve scendere copiosa fuori dalla finestra del suo albergo di Oberndorf: «Speriamo smetta», pensa, mentre la fisioterapista entra in stanza per massaggiargli la caviglia destra. Sono le 6 del mattino di un lunedì, e poche ore dopo si dovrebbe disputare il Super G di Kitzbühel (rinviato il giorno prima per il brutto tempo), la tappa probabilmente più prestigiosa della Coppa del mondo. A Kitzbühel tutto è amplificato, ci sono il triplo dei giornalisti e dei tifosi rispetto alle gare normali; la Streiff, la pista di discesa libera (e la Streifalm, la sua versione accorciata per il Super G), è uno dei tracciati più iconici. L’ultima volta che è venuto qui, Hermann Maier in 24 ore ha vinto la discesa libera e il Super G. Era il gennaio del 2001, l’austriaco allora volava sulla neve. Ora invece viene da un anno e mezzo passato tra ospedali, centri di riabilitazione, migliaia di ore in sella all’ergometro e un interminabile giro su delle montagne russe emozionali, dove le salite sono fatte di sudore e fatica, e le discese di dolori e tormenti.
Nei giorni successivi all’operazione che gli salva la gamba (e la vita) si alternano momenti di profondo scoramento ad attimi di cauto ottimismo, attacchi di panico a stati euforici per un piccolo progresso. Il dolore, intanto, è insopportabile: morfina e antidolorifici diventano i compagni inseparabili di Hermann, mentre staff, famiglia e amici provano a non fargli mancare niente. Ma a lui manca tutto, perché non può fare quello per cui è nato, e cioè allenarsi e sciare. Non vorrebbe vedere nessuno, ma i primi giorni condivide la stanza con altre cinque persone, tra cui un suo fan, paralizzato dal collo in giù, con cui stabilisce una forte connessione empatica. Nonostante gli alti e i bassi, comunque, Maier non pensa nemmeno per un momento all’eventualità di non sciare mai più: «Come atleta professionista impari che bisogna sempre avere un obiettivo. Il mio, in quel momento, era chiaro: andarmene il prima possibile dall’ospedale». Il tempo però è necessario, perché se è stata scongiurata l’amputazione, il suo corpo è provato dall’incidente, e il problema ai reni nei giorni successivi all’operazione fa capire che la vita stessa dello sciatore potrebbe essere in pericolo. La gamba, poi, si muove a fatica, nonostante gli sforzi di Hermann. La prima volta che gli cambiano i vestiti e la vede è un altro momento di shock. Tutto il suo corpo sta cambiando, tra dolori fortissimi, una semi-dipendenza da farmaci e una struttura muscolare, soprattutto nelle gambe, da ricostruire completamente.
Maier decide di non abbattersi, vuole avere voce in capitolo sul suo recupero, mentre Heini gli propone vari metodi con cui può iniziare ad allenarsi ancora sul letto di ospedale. Dopo sei giorni esce dalla terapia intensiva, e la sua nuova stanza singola diventa una succursale del training center olimpico. I suoi genitori e la sua ragazza Gudrun lo confortano e gli portano le lettere e i regali dei tantissimi fan, tra cui ci sono ben sette copie della biografia di Lance Armstrong (un altro atleta capace di rialzarsi, nel suo caso dal cancro, e tornare a vincere), il quale scriverà la prefazione della biografia dello stesso Hermann Maier. Arnold Schwarzenegger, invece, che gira voce sia stato battuto a braccio di ferro proprio dallo sciatore, gli invia degli infusi e dei succhi di frutta fatti in casa. Dieci giorni dopo l’incidente, accetta di essere intervistato da un giornalista dell’emittente austriaca Orf, mentre altri reporter seguono il colloquio in video conferenza. Per la prima volta, 800mila persone guardano in diretta, trattenendo a stento le lacrime, le pessime condizioni in cui versa il loro idolo, tre volte consecutive atleta dell’anno austriaco, e pure lui si rende conto di quanto grave sia la sua situazione. Nonostante questo, è talmente tanta la fiducia in questo supereroe armato di casco, bastoncini e sci, che alla domanda di un sondaggio Hermann Maier tornerà a fare delle gare di sci? il 93 per cento degli austriaci risponde: Sì. Lui ci mette del suo per alimentare la fiducia. A meno di due settimane dal volo in moto, ancora attaccato al catetere e legato a un letto di ospedale, inizia ad allenarsi con un ergometro particolare in cui a pedalare sono le braccia e non le gambe. Per anche solo pensare di tornare a competere ai massimi livelli ci vogliono sì genetica, fortuna e il supporto delle persone giuste, ma la forza d’animo di Hermann, il suo desiderio di spingersi ben oltre il limite, è qualcosa di eccezionale. Vincere per lui ora non significa più scendere al massimo e tagliare il traguardo con la luce verde, ma alzarsi in piedi e andare in bagno da solo per la prima volta, a tre settimane dall’intervento. Il dolore continua a essere insopportabile, tanto che una notte chiama Heini nel mezzo della notte. L’allenatore dell’austriaco si precipita in ospedale e decide che da quel giorno qualcuno dovrà dormire con lui. Gudrun si trasferisce nella sua stanza, restando sempre al suo fianco nei rimanenti giorni di ricovero.
Il 14 settembre 2001 Hermann Maier respira di nuovo all’aria aperta, mentre faticosamente esce dall’ospedale sulle sue gambe, come da lui fortemente voluto. È provato, soffre tantissimo, ma con i giornalisti che lo aspettano fuori fa buon viso a cattivo gioco: «Non potrei star meglio», dice, per non allarmare nessuno. La realtà è che uscire dall’ospedale, per quanto sia psicologicamente importante, non gli risolve di colpo i problemi, anzi la prima notte a casa è un incubo, tra fitte lancinanti e una fastidiosa reazione allergica. Al buio inizia a diventare claustrofobico, mentre quel corpo che fino a poco prima poteva schiantarsi sulle recinzioni delle piste da sci senza colpo ferire è diventato un involucro estraneo a Hermann.
Una volta, il 15 febbraio 2001, per evitare di entrare nel circolo del jet lag, aveva preso un volo per il Giappone, vinto lo slalom gigante di Shiga Kogen con 1,74 secondi di vantaggio sul secondo classificato ed era ripartito per l’Austria, dopo non aver trascorso nemmeno 24 ore in terra nipponica. «Skiing, eating, sleeping, repeating», questa era la vita di Maier negli ultimi anni, con poco tempo per dedicarsi ad altro, sempre in viaggio, in pista o sull’ergometro. La nuova routine è ancor più monotona, faticosa e soprattutto non ha nulla di adrenalinico o di divertente. Il suo giorno della marmotta, che continua a vivere all’infinito come Bill Murray nel film Ricomincio da capo, consiste in dodici ore al training center di Obertauern, tra esercizi, ergometro, walking class (scuola per ricominciare a camminare) fisioterapia e analisi delle prestazioni. Fino all’inverno, per lo meno, sposta la cyclette all’aperto, e pedala guardando le montagne e respirando l’aria di casa, ma con il freddo le quattro mura della palestra lo ingabbiano. Come i continui pensieri: «Riuscirò a entrare negli scarponi, a gareggiare, a vincere di nuovo?».
Due di questi tre obiettivi li ha raggiunti nel percorso verso quel 27 gennaio 2003, a Kitzbühel, ma gli manca il terzo, quello per cui ha lavorato nei cinquecento giorni precedenti: finire di nuovo una gara di Coppa del mondo davanti a tutti. L’ultima volta è successo il 10 marzo 2001 ad Are, in Svezia, in Gigante. Il 4 marzo aveva vinto il suo ultimo Super G a Kvitfjell, in Norvegia. È uno sciatore poliedrico, ma il Super G è sicuramente la sua gara, fatta su misura per le sue abilità, perché serve tecnica, quella che Maier si è costruito negli anni con uno studio quasi scientifico della disciplina, ma allo stesso tempo devi essere determinato a prenderti dei rischi, e lui è uno che difficilmente si spaventa davanti a qualcosa, a maggior ragione dopo quello che ha passato nell’ultimo anno e mezzo. Per questo, nonostante il brutto tempo, quell’insolito lunedì mattina di gara ha buone sensazioni; anzi, proprio il cielo sembra avergli dato una mano, perché la neve e la scarsa visibilità hanno obbligato gli organizzatori ad accorciare il Super G, una buona notizia, viste le sue condizioni fisiche ancora precarie. Non è la solita Kitzbühel, perché in molti se ne sono andati la domenica sera, e la neve ha scoraggiato alcuni di quelli rimasti; ma sono rimasti tutti i veri tifosi, quelli del Glücksschwein, i familiari e gli amici di Hermann, quelli che hanno sempre creduto in lui, sono rimasti, sempre, e anche quel 27 gennaio si fanno sentire.
Pettorale numero 21, Maier esce dal cancelletto con aggressività, ma sa di doversi gestire, di non poter più andare al cento per cento tutta la gara. Inizia bene, con linee perfette, veloci, poi, da metà in avanti, si procede a sensazioni, la visibilità è quasi a zero, le porte si avvicinano e sbagliare non è più consentito. Dentro il casco rimbomba la voce interiore di Hermann, che gli dice di tenere duro, perché oggi potrebbe essere un gran giorno. Dopo un minuto, venti secondi e quarantotto decimi di battaglia, dopo soprattutto cinquecentoventuno giorni di astinenza, dopo una vita spesa per essere lì, Hermann Maier taglia il traguardo con settantuno centesimi di vantaggio sul primo classificato: ha vinto. È tornato, come aveva promesso a tutti quando ancora non camminava nemmeno. Ha mantenuto la parola data.
Quando la vittoria viene ufficializzata, nella sua testa esplode una bomba i cui ingranaggi sono infiniti: l’incidente, gli allenamenti quando ancora era in ospedale, i volti di chi non ha mai smesso di supportarlo. Nella strada verso quella vittoria ci sono le sciate in famiglia quando aveva quattro, cinque anni. La fatica del cantiere e quella dell’allenamento. I viaggi a ritmi forsennati, i ritiri con i compagni di nazionale, le bravate, come quando in Colorado lui e Andi Schifferer, sbronzi dopo una festa, hanno rubato un trattore e sono stati ammanettati dalla polizia (ma poi Hermann, due mesi dopo, è tornato negli Stati Uniti, ha risarcito il proprietario del trattore e ha vinto l’oro mondiale sulla leggendaria Birds of Prey di Beaver Creek, sia in discesa libera che in Super G). La prima vittoria dopo l’incidente passa anche da quella volta a Dubai quando, fuggito lontano dall’Austria per non sentire parlare di sci, si accorge di non riuscire a muovere le gambe abbastanza velocemente per fare più di due-tre palleggi sulla spiaggia, lui che se non avesse sciato sarebbe potuto diventare un calciatore. Ci sono le prime volte in cui ha provato a rimettere gli scarponi, e ha pianto di dolore. La gioia indescrivibile, seppur dolorosa, della prima sciata in ghiacciaio, a Zermatt, un anno dopo l’incidente. Il viaggio in bicicletta in Toscana con gli amici, per tornare di nuovo a sentirsi un atleta. Le visite, gli antidolorifici, la fatica di doversi allenare il triplo per tornare a essere il migliore del mondo: ci riuscirà, perché nel 2004 si porterà a casa la quarta Coppa del mondo generale, gli anni successivi rivincerà sia a Sölden sia a Kitzbühel, davanti a migliaia di persone in festa, fino all’ultimo successo, a Lake Louise, in Canada, nel 2008, a 36 anni, dieci anni dopo il volo e le medaglie d’oro di Nagano e sette anni dopo l’incidente.
«È la mia più grande vittoria», dice ai giornalisti, in lacrime, prima di abbracciare sua mamma. Tutti aspettano il loro turno per congratularsi con lui, condividere la gioia della vittoria, perché il lunghissimo recupero è stato duro per Hermann, sì, ma è come se l’avessero vissuto anche tutti i suoi cari e i suoi tifosi che ora sono lì a festeggiare. Suona l’inno nazionale austriaco, e ancora una volta le lacrime rigano il volto dello sciatore. Vincere una gara di Coppa del mondo di sci era il suo sogno da ragazzino. Vincere di nuovo dopo l’incidente era il folle ma lucido desiderio di un uomo per cui i limiti non sono mai esistiti. Lo sciatore che visse due volte. Lo sciatore che vinse due volte. Hermann Maier.
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