Germania Anno Zero è una serie di contenuti attraverso i quali cercheremo di esplorare le grandi trasformazioni politiche, sociali e culturali in atto nel paese tedesco, a un anno di distanza dalle elezioni federali del 2021, che dovrebbero sancire il ritiro definitivo di Angela Merkel.
A oltre 30 anni dalla caduta del Muro di Berlino, la Germania è oggi una nazione molto più complessa e articolata di quanto venga invece usualmente proposto da una narrativa giornalistica e letteraria spesso stereotipata o centrata su una serie di concetti retorici di culto.
Il nostro sarà un viaggio che terminerà nel novembre del 2021, alla scoperta, in tempo reale,
della nuova Germania contemporanea.
Prima parte
La sede della Cancelleria federale tedesca a Berlino, in Willy-Brandt-Straße 1, si erge nella parte nordorientale del grande parco di Tiergarten, a ridosso di una delle tante anse che il corso del fiume Sprea disegna nel centro della città. È un edificio grandioso, in stile postmoderno, realizzato fra il 1997 e il 2001 e concepito dagli architetti tedeschi Charlotte Frank e Axel Schultes, quando Berlino si preparava a ritornare sede unica del governo tedesco post-riunificazione. A seicento metri di distanza, in Platz der Republik, si trova l’altrettanto maestoso palazzo del Reichstag, il parlamento.
In questo contesto, in una luminosa giornata quasi primaverile e con il cielo azzurro alle spalle a illuminare la famosa cupola di vetro progettata da Norman Foster, Angela Merkel, Cancelliera federale tedesca dal 2005, tiene per la prima volta nella sua vita un discorso alla nazione. È il tardo pomeriggio di mercoledì 8 marzo 2020, la Germania conta più di 10.000 contagiati al coronavirus. Lo storico discorso della Cancelliera, che dura poco più di dieci minuti, viene giudicato un capolavoro di gestione comunicativa della crisi. Bernhard Pörksen, che insegna scienze della comunicazione all’Università di Tubinga, pubblica il giorno seguente, su Die Zeit, un’analisi in cui afferma che «Angela Merkel finora non ha mai spiegato la propria azione politica in un modo così brillante».
Il discorso di Merkel è emozionale e coinvolgente, lucido e di enorme trasparenza, senza mai nascondere la preoccupazione per la drammaticità degli eventi. “Siamo una democrazia”, dice la Cancelliera, “non viviamo di coercizione, ma di conoscenza e partecipazione condivise. Questa è una sfida storica e la possiamo superare solo insieme. Che la supereremo sono assolutamente sicura, ma quante saranno le vittime? Quante care persone dovremo perdere? Dipende in gran parte da noi. Possiamo, adesso, reagire tutti insieme con determinazione. Possiamo accettare le temporanee limitazioni e aiutarci a vicenda (…) Non siamo condannati ad accettare passivamente la diffusione del virus. Abbiamo uno strumento a disposizione: dobbiamo, per il rispetto l’uno dell’altro, mantenerci a distanza”.
E dire che per Angela Merkel la comunicazione pubblica non è mai stata un punto di forza. “Diffida della retorica, non è brava in questo”, si può leggere su un lungo reportage dedicato alla Cancelliera, nel 2014, da George Packer sul New Yorker. In effetti, sono molti gli episodi nel passato politico di Merkel che ne dimostrano una certa avarizia oratoria e una resistenza a presentarsi davanti alle telecamere. Nel 2011, ad esempio, dopo l’incidente nucleare di Fukushima, in Giappone, cui seguì la scelta di chiudere definitivamente tutte le centrali in Germania, non venne data una spiegazione ufficiale alla sospensione della produzione di energia nucleare sul territorio tedesco. Lo stesso avvenne nel 2015, durante la crisi dei rifugiati, quando, in un contesto sociale profondamente polarizzato, ci si sarebbe aspettati un suo discorso pubblico, volto a rassicurare gli animi.
Forse anche a causa della sua poca dimestichezza con le platee, Merkel ha sempre diffidato degli abili oratori. Il rapporto con l’ex presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ad esempio, inizialmente stentò a decollare proprio per la coinvolgente maestria oratoria dell’ormai ex inquilino della Casa Bianca, considerata sospetta. Quando Obama venne in visita a Berlino nel luglio 2008, da candidato democratico alle presidenziali americane, voleva tenere il suo discorso alla Porta di Brandeburgo, luogo riservato agli eventi pubblici di presidenti e capi di governo. Merkel rifiutò seccamente la richiesta e osservò Obama parlare alla Colonna della Vittoria, davanti a una folla di 200.000 persone. Negli anni l’opinione della Cancelliera nei confronti del primo presidente nero nella storia degli Stati Uniti è cresciuta in modo inversamente proporzionale alla popolarità di quest’ultimo. Merkel ha scoperto come Obama fosse l’opposto di quei leader gradassi ed egocentrici che lei semplicemente non sopporta e che normalmente liquida nel giro di poche battute.
Angela Dorothea Kasner nasce il 17 luglio 1954 ad Amburgo, prima dei tre figli del pastore protestante berlinese Horst Kasner e dell’insegnante Herlind Jentzsch. Poche settimane dopo la sua nascita, il padre, contro il parere della moglie, accetta un incarico di pastore per conto della Chiesa evangelica di Berlino e del Brandeburgo e si trasferisce con la famiglia nella Repubblica democratica tedesca (in tedesco DDR), a Quitzow, un paesino che oggi è una frazione della città di Perleberg, nel Brandeburgo. In quell’anno, quasi 200mila persone fanno lo stesso tragitto, ma in direzione contraria. Secondo una battuta dell’epoca, chi si spostava dall’Ovest all’Est era un comunista o un idiota. Eppure Horst Kasner non era né l’uno né l’altro. Nella sua mente c’era l’idea di evangelizzare la parte orientale del Paese, dove la presenza di religiosi e di sacerdoti era scarsa. Con entusiasmo accetta quindi l’incarico conferitogli dal vescovo di Amburgo del tempo, Hans Otto Wolber, e si traferisce in Germania Est con tutta la famiglia. Appena tre anni dopo, nel 1957, i Kasner si spostano ancora più a Est, a Templin, nella regione dell’Uckermark, sempre in Brandeburgo. A Templin Horst Kasner contribuisce alla costruzione, anche in senso materiale, del Pastoralkolleg, il collegio dove studiavano i preti protestanti venturi e di cui sarà il responsabile nei successivi trent’anni. Il Waldhof, il seminario dove Horst Kasner insegnava teologia, si trovava in una delle numerose stanze di un grande edificio nelle vicinanze, che ospitava centinaia di disabili con problemi sia fisici che mentali: le autorità comuniste delegavano interamente alla Chiesa evangelica il compito di occuparsi di queste persone. L’intero complesso comprendeva una trentina di edifici ed è stato definito da Ulrich Schoeneich, l’ingegnere e direttore tecnico del Waldhof negli anni Ottanta, come un «posto tetro», con stanze dotate soltanto di brande in cui vivevano stipati anche sessanta pazienti. Pure l’alloggio dove vivono i cinque Kasner è piuttosto modesto ed angusto. Angela, con il fratello Markus e la sorella Irene, cresce in un ambiente dove impara presto cosa significa il rispetto per le diversità e la solidarietà verso i più sfortunati. «Crescere con un vicinato composto da persone disabili è stata un’esperienza importante per me. Ho imparato a trattarle in un modo molto normale», ha dichiarato Merkel al giornalista e scrittore tedesco Hugo Müller-Vogg in un libro-intervista uscito nel 2005 (Mein Weg, Amburgo, 2005).
L’atteggiamento “morbido” di Horst Kasner verso il regime comunista – mai in aperta contraddizione, discreto e attento a non urtare la suscettibilità dei capi del partito di Unità Socialista di Germania (SED) – consente al “pastore rosso”, come veniva chiamato, di poter far accedere i propri figli allo studio, fatto per nulla scontato per un religioso nella DDR. Angela conseguirà il diploma di maturità a Templin nel 1973 e nello stesso anno inizierà gli studi di fisica all’Università Karl Marx di Lipsia, distante il più possibile da Templin e dalla casa dei suoi genitori.
Dal punto di vista atletico, la giovane Angela è goffa e impacciata. A cinque anni, scrive George Packer, non riusciva a scendere da una collina senza cadere. «Quello che gli altri facevano spontaneamente, io dovevo prima raffigurarlo nella mia mente e dopo eseguire estenuanti esercizi fisici», ha raccontato la Cancelliera. Per poter proseguire gli studi nella DDR bisognava però dimostrare anche buoni risultati sportivi e correre i 100 metri in almeno 16 secondi. Superare questa prova comporta per Merkel ore e ore di allenamento. Secondo Erika Benn, sua insegnante di russo a Templin, da teenager Merkel era una specie di mosca bianca: non aveva interesse per i vestiti, indossava sempre abiti senza colori e soprattutto aveva un taglio di capelli “impossibile”. Molto graditi da Angela erano invece le riviste e i libri che riceveva dai parenti dell’Ovest, permesso straordinario di cui godeva la famiglia del pastore Kasner. A scuola Merkel era brillante e ferocemente motivata. Viene descritta come un’alunna intelligente, determinata, instancabile. In tre occasioni risulta la migliore studentessa di russo di tutta la DDR.
Vivere in uno stato comunista è determinante per la formazione di Angela Merkel, che nemmeno per un momento sente la DDR come la sua patria. Più volte, nelle centinaia di scritti vari che la riguardano, ha dichiarato che l’unico modo per condurre una vita serena nella DDR era quello di avere una doppia esistenza: rispettosa delle regole e obbediente ai principi del sistema comunista sul fronte pubblico; intellettualmente libera fra le mura domestiche. Presto impara a convivere con l’oppressione di essere sorvegliata. Le regole, che soprattutto la madre non si stancava mai di ripetere ai figli (è la signora Herlind, scomparsa nell’aprile 2019, la persona che in famiglia soffriva di più, frustrata dal non potere insegnare nelle scuole e gravata dalla figura del marito) erano quelle di tenere brevi conversazioni telefoniche, di non esporsi mai su questioni politiche e di fare attenzione alla cerchia di amici. «Sapevamo quello che potevamo dire e in quali circostanze. Di alcune situazioni si parlava durante le camminate nei boschi, se ad esempio un amico era nei guai o se si trattava di progetti di fuga», racconta Merkel a Hugo Müller-Vogg. In occasione della sua prima campagna per il cancellierato, sempre nel 2005, Angela Merkel non usa giri di parole per descrivere il suo stato d’animo ai tempi della DDR: «Avevo deciso che se il sistema fosse diventato troppo angosciante, avrei tentato la fuga. Ma se non fosse stato troppo opprimente, allora non avrei condotto la mia vita in opposizione al sistema, perché avevo troppa paura dei danni che mi avrebbe procurato».
I non pochi critici (in particolare gli autori della discussa biografia Das erste leben der Angela Merkel, uscita nel 2013) sostengono che Angela Merkel fosse in realtà molto conforme al sistema comunista e che la sua ambizione politica fosse presente già nella sua “prima vita”. Lo dimostrerebbe il fatto che nel 1968 Angela Kasner divenne membro attivo della Libera gioventù tedesca (FDJ), l’organizzazione giovanile del partito di governo (SED). Ulrich Schoeneich, che dopo la caduta del Muro di Berlino è diventato sindaco di Templin, ha affermato in diverse occasioni che, secondo lui, Angela Merkel ha potuto continuare a studiare solo grazie alla sua appartenenza alla SED. E il suo ruolo, accusano i detrattori, non era di secondo piano, bensì di membro della direzione di distretto della FDJ per la sezione agitazione e propaganda. Da parte sua Angela Merkel ha sempre dichiarato di essere stata soltanto delegata alla cultura (Kulturbeauftragte), all’interno dell’istituto dove lavorava come ricercatrice e che la sua partecipazione alla Libera gioventù tedesca è stata al 70% opportunismo. Ciò che desiderava fare era continuare a studiare e per farlo ha dovuto mettere in atto una sorta di “resistenza passiva”.
Dal punto di vista caratteriale, quello che colpisce di Angela Merkel è la naturale riservatezza. Ancora oggi, della vita privata della famiglia, così come di quella dei membri del suo staff, l’opinione pubblica sa poco o niente. Tutti i suoi collaboratori devono condividere l’importanza di tacere. Il silenzio, ha scritto Julia Schramm nel suo libro Fifty Shades of Merkel, uscito nel 2016, significa molto per la Cancelliera: pausa, riflessione, confidenza, punizione, provocazione, potere, rifiuto, ignoranza. Altrettanto singolare è il suo modo spontaneo di apparire una persona ordinaria. George Packer scrive che chi l’ha conosciuta, come la deputata e leader della coalizione dei Verdi Katrin Göring-Eckardt, ha detto che “la Merkel ha un carattere che la fa sembrare una di noi”. Una delle sue migliori qualità è stare ad ascoltare le opinioni di tutti i suoi interlocutori.
Dopo la laurea in fisica conseguita all’ateneo di Lipsia nel 1978, ben consapevole di non volere finire a lavorare in una qualche azienda chimica della DDR, Merkel cerca un posto come assistente universitario. Il primo tentativo, all’Università Tecnica di Ilmenau, nella regione della Turingia, risulta un fallimento. Per ottenere il posto occorre essere disposti a lavorare per la Stasi, i servizi segreti del Ministero per la Sicurezza, e lei rifiuta. Accetta quindi un dottorato presso il dipartimento di fisica dell’Accademia delle Scienze di Berlino Est, poco dopo avere sposato con rito religioso il fisico Ulrich Merkel: l’unione durerà soltanto fino al 1981 e la coppia si separerà definitivamente nel 1982. Tuttavia, da quel momento Angela Kasner prenderà il cognome del marito, e non lo lascerà più.
All’Accademia delle Scienze di Berlino-Adlersdorf si occupa di chimica quantistica. Gli studi di fisica, è lei stessa a dichiararlo a Hugo Müller-Vogg, costituiscono una sfida. Angela vuol comprendere la teoria della relatività e sapere cosa passava per la testa a Robert Oppenheimer, lo scienziato che aveva costruito la prima bomba atomica. L’affascinano le grandi teorie scientifiche e la filosofia che vi è alle spalle. Soprattutto, è attratta dalla sfida di misurarsi con qualcosa che a priori le risulti difficile: alle scuole superiori brillava in russo e in inglese, ma non in fisica.
Gli anni della sua attività come ricercatrice presso l’Accademia delle scienze sono quelli in cui impara ad approcciare i problemi con distacco scientifico e in maniera metodica. È l’unica donna nell’istituto e i suoi colleghi la descrivono come una fine e silenziosa osservatrice. Uno dei suoi compagni di lavoro, Michael Schindhelm, ha raccontato a Packer che mentre i suoi colleghi si adagiavano nelle loro nicchie di comando, lei restava concentrata sull’obiettivo, l’unica a cui importasse seriamente del lavoro, frustrata dal non poter avere accesso alle pubblicazioni scientifiche occidentali.
Poche settimane dopo la caduta del Muro di Berlino Angela Merkel si presenta nell’ufficio di Demokratischer Aufbruch (Risveglio Democratico), una nuova organizzazione politica liberale sorta nell’ottobre 1989 nell’ambito della “rivoluzione pacifica”, dicendo di voler dare una mano. Le chiedono se sia in grado di assemblare dei computer che erano stati donati dal governo tedesco occidentale. Merkel svolge le mansioni a modo suo, con solerzia e rigore, e da quel momento inizia a frequentare la sede del partito. Come le capiterà in seguito altre volte, la Cancelliera dimostra di sapersi trovare nel posto giusto al momento giusto. Nel marzo 1990 il leader di Risveglio Democratico, Wolfgang Schnur, è costretto alle dimissioni in seguito alle accuse di essere stato un collaboratore della Stasi. Secondo quanto racconta George Packer, i fatti si svolsero nella maniera seguente: la sera dell’episodio fu convocato un consiglio direttivo d’urgenza per la nomina del successore, che sarebbe stato Rainer Eppelmann, il parroco dissidente della DDR. A Merkel fu chiesto di gestire la chiassosa folla di giornalisti e reporter che era accorsa alla sede del partito. Lo fece con una tale calma e naturalezza che dopo le prime e uniche elezioni democratiche della DDR, tenutesi il 18 marzo 1990, fu scelta da Lothar de Maizière, leader della coalizione vincente, come vice portavoce. In Allianz für Deutschland, così si chiamava l’alleanza, confluirono tutte le formazioni politiche di centrodestra, sotto la supervisione e il sostegno dell’allora Presidente della CDU occidentale e Cancelliere federale Helmut Kohl.
Angela Merkel era diligente, capace e soprattutto non se la tirava. Con la sua gonna larga, i sandali da frate e i capelli corti, si guadagna presto la fiducia di de Maizière e inizia ad accompagnarlo in giro per le capitali europee: in queste occasioni ha l’opportunità di essere presente agli incontri con Margaret Thatcher e François Mitterand. L’esordio sul palcoscenico della politica avviene in occasione delle prime elezioni parlamentari della Germania unita, che si tengono il 2 dicembre 1990. Merkel è la candidata della CDU in una circoscrizione elettorale nel Mecklenburg-Vorpommern, estrema punta nordorientale del Paese. Ha la fortuna di essere l’unica candidata proveniente dall’Est e, grazie anche all’aiuto di ex militanti di Risveglio Democratico, riesce ad essere eletta nel proprio collegio, entrando così in Parlamento. Le elezioni politiche le vince l’Union (CDU/CSU), che conferma l’alleanza di governo con i liberali dell’FDP. Leader della coalizione è Helmut Kohl, al suo quarto mandato da Cancelliere federale, che il 18 gennaio 1991 nomina Angela Merkel ministro per le Donne e i Giovani. Nel dicembre dello stesso anno, subentrando a Lothar de Maizière (sospettato, anche lui, di avere avuto rapporti con la Stasi) Merkel viene eletta vicepresidente della CDU.
Dopo le elezioni politiche federali dell’ottobre 1994, dove vince ancora la coalizione di Union e FDP, per Angela Merkel si aprono le porte del ministero per la Tutela della Natura e della Sicurezza nucleare, dove mette in mostra per la prima volta le sue capacità politiche. Nella primavera del 1995 tocca infatti proprio a lei dover presiedere la prima conferenza mondiale sul tema dei cambiamenti climatici, organizzata a Berlino dalle Nazioni Unite e a cui partecipano ben 130 nazioni. L’incontro si conclude il 7 aprile con il Berliner Mandat, il trattato precursore del protocollo di Kyoto del 1997, che stabilisce il limite sulle emissioni di gas serra e CO2. Un articolo di Time Magazine dell’ottobre del 2007 (intitolato Heroes of the Environment: Angela Merkel) rammenta quale fu l’atteggiamento della Cancelliera in quell’occasione: “Angela Merkel è stata straordinaria nel suo desiderio di ottenere un risultato positivo (…) Senza di lei non ci sarebbe stata Kyoto”.
Merkel ha dovuto apprendere a 35 anni le regole del gioco della politica tedesca occidentale e lo ha fatto alla sua maniera, con garbo, calma, pazienza, ma anche con autodisciplina e forza di volontà. Sotto l’ala protettrice di Kohl, che in privato la chiamava mein Mädchen (la mia ragazza), brucia in fretta le tappe della sua carriera. Nei primi incontri di gabinetto resta appartata, parla raramente, ma è rispettata per la sua straordinaria capacità di assorbire le informazioni.
Le elezioni politiche del settembre 1998 si concludono per l’Union con una sonora sconfitta e per la prima volta nella storia tedesca un governo viene sostituito dalla parte politica diametralmente opposta. A guidare il Paese ci vanno socialdemocratici e verdi, guidati dall’allora governatore della Bassa Sassonia Gerhard Schröder e dal suo vice e ministro degli Esteri Joschka Fischer: già durante la nottata elettorale Helmut Kohl annunciò le sue dimissioni da presidente del partito, ruolo che copriva dal 1973. Suo successore viene nominato Wolfgang Schäuble. Ma non sono questi gli unici avvenimenti di rilievo nel 1998 per la vita politica e personale della Cancelliera, c’è dell’altro: il 7 novembre viene eletta segretario generale della CDU e il 30 dicembre si sposa con Joachim Sauer, suo professore di chimica ai tempi dell’Accademia delle Scienze di Berlino.
Fra i ritratti apologetici dedicati ad Angela Merkel, molti narrano di una sua adesione politica alla CDU, il partito cristiano democratico, come naturale conseguenza dei valori principali della sua educazione: libertà, famiglia e solidarietà verso i più deboli. In realtà le cose stanno in modo diverso. In primo luogo, è Merkel stessa a raccontare a Müller-Vogg di aver pensato, dopo il fallimento elettorale di Risveglio Democratico, di iscriversi all’SPD, il Partito socialdemocratico, ma che scelse poi di aderire alla CDU perché lo trovava un partito con meno pregiudizi, rispetto all’SPD, nei confronti dei cittadini dell’Est liberali. Con la struttura patriarcale del Partito cristiano democratico e con la sua tradizione cattolica, tipica delle regioni tedesche meridionali, Merkel ha però poco a che fare. «Non è mai diventata mentalmente parte della CDU, almeno fino ad oggi», scriveva nel 2014 Karl Feldmeyer, illustre giornalista del Frankfurter Allgemeine Zeitung (F.A.Z) e profondo conoscitore della politica e della struttura di CDU e CSU.
Al di là della forma esteriore, Merkel ha sempre cercato di procurarsi uno spazio di libertà all’interno del partito, professando una sorta di “non appartenenza”. Verso i temi cari alla base tradizionale della CDU (famiglia, donne, giovani, patria), così come nei confronti di questioni più trasversali (matrimoni gay, immigrazione, divorzio) nutre poco interesse. “Merkel è estranea a qualsiasi cosa nel partito. È solo una funzione per il suo potere, nient’altro”, scriveva Feldmeyer, scomparso nel 2016. La leader dei Verdi Katrin Göring-Eckardt racconta al New Yorker: «La libertà è molto importante per la Merkel; per il resto, tutto è negoziabile».
Verso la fine del 1999 scoppia lo scandalo delle donazioni illegali alla CDU, caso noto come Spendenaffäre e snodo cruciale della carriera di Angela Merkel. È il 5 novembre 1999 quando l’ex tesoriere della CDU, Walther Leisler Kiep, ricercato dalla procura di Augsburg con ordine d’arresto per evasione fiscale, si costituisce alla giustizia. Ai giudici racconterà di aver ricevuto in Svizzera, il 26 agosto 1991, una valigetta contenente un milione di marchi in contanti, soldi destinati come donazione alla CDU. A consegnargli il denaro era stato Karlheinz Schreiber, faccendiere e uomo d’affari tedesco-canadese. In seguito ad ulteriori indagini risultò poi che sia la CDU federale che la CDU dell’Assia (Hessen) avevano ricevuto per anni donazioni su conti segreti, violando la legge sul finanziamento ai partiti: eppure Helmut Kohl, intanto nominato presidente onorario della CDU, assicura di non sapere niente della donazione del 1991. Il 16 dicembre, durante un’intervista con la rete pubblica ZDF (il secondo canale tedesco), cambia però idea, ammettendo di aver accettato illegalmente, durante il periodo 1993-1998, offerte di denaro per un valore totale di circa due milioni di marchi. Ci tiene a precisare, inutilmente, di non essersi arricchito sul fronte personale.
Angela Merkel, racconta Packer, telefonò a Karl Feldmeyer, il giornalista del Frankfurter Allgemeine Zeitung: “Mi piacerebbe rilasciare alcune dichiarazioni al tuo giornale”, gli disse. Invece di fare un’intervista Feldmeyer le suggerì di scrivere un pezzo di opinione, che sarebbe arrivato cinque minuti dopo sul suo fax. Il giornalista, così come tutte le lettrici e i lettori dell’articolo che uscì sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung il 22 dicembre 1999, rimase sbalordito. La giovane segretaria della CDU invitava il partito a dire addio al presidente Kohl e a tagliare i ponti con il passato: «Il partito deve imparare a camminare sulle sue gambe e dovrà affrontare le future battaglie politiche senza i suoi vecchi soldati (…) Noi, che abbiamo adesso la responsabilità del partito, dovremo decidere il modo in cui affrontare la nuova Era». L’azione della Merkel venne efficacemente sintetizzata da Feldmeyer con le seguenti parole: «Lo ha accoltellato alla schiena e ha girato la lama due volte».
In quel momento Merkel è cosciente che la decisione di scrivere quel pezzo, senza nemmeno avvertire il presidente in carica della CDU, Wolfgang Schäuble, significava correre un rischio politico altissimo: poteva essere il capolinea della sua carriera. E invece accadde il contrario. Il 10 aprile 2000, al congresso di Essen, in Renania- Vestfalia, Angela Merkel diventa Presidente della CDU, una carica che manterrà sino al dicembre del 2018. “Volevo anzitutto riuscire a creare per me, per il partito e per il presidente una nuova libertà di azione”, spiegherà la Merkel nel 2003 a Müller-Vogg. “Potere”, dirà invece Helmut Kohl quando, anni dopo, gli verrà chiesto cosa voleva veramente la Cancelliera.
La nomina ufficiale di Angela Merkel per la candidatura alla Cancelleria federale avviene il 30 maggio 2005. Le elezioni si tengono in settembre e due mesi dopo, il 22 novembre, viene eletta Cancelliera, prima donna nella storia Germania a capo di un’altrettanto inedita e storica coalizione di governo fra CDU e SPD, la cosiddetta Große Koalition.
La capacità di manovrare senza imporre posizioni dogmatiche permette a Merkel di resistere per l’intera prima legislatura, riuscendo a gestire la coabitazione con i socialdemocratici. Grazie alle sue qualità di mediatrice tiene insieme le diverse anime dell’esecutivo: liberali, conservatori, cattolici e socialdemocratici. Il programma di governo, stipulato da un contratto (Koalitionsvertrag), dà continuità al pacchetto di riforme introdotto da Schröder nel 2003, la cosiddetta Agenda 2010, un programma che modifica radicalmente il sistema sociale e il mercato occupazionale tedeschi, rilanciando l’economia, offrendo ai datori di lavoro vantaggi in flessibilità, ma anche precarizzando migliaia di salariati.
Merkel si attiene il più possibile ai principi dell’economia sociale di mercato, la Soziale Marktwirtschaft, il sistema adottato dalla Germania fin dai tempi di Ludwig Erhardt, ministro del Tesoro dei primi governi tedeschi del secondo dopoguerra. La Cancelliera è sempre stata la maggiore sostenitrice del sistema economico sociale tedesco, convinta che il modello neoliberale anglosassone non riesca ad affrontare solo con le regole del mercato le sfide e le crisi prodotte dalla globalizzazione. L’economia sociale di mercato, che ha le sue origini teoriche nell’ordoliberalismo della scuola di Friburgo di Walter Eucken, prevede infatti che il ruolo dello Stato sia quello di guardiano della libera concorrenza. Lo Stato deve fornire e garantire la cornice generale di regole dentro la quale si svolge il libero mercato, avendo cura di mantenere una concorrenza funzionante e impedire la formazione di tendenze monopolistiche. Questo principio è assicurato dal mandato della Bundesbank (la Banca centrale tedesca) e da quello della BCE, il cui compito non è quello di fungere da prestatore di ultima istanza, ma di mantenere la stabilità dei prezzi.
L’obiettivo del pareggio di bilancio, il cosiddetto Schwarze Null, “lo zero nero”, è la stella polare della politica economica tedesca portata avanti da tutti i governi di Angela Merkel, sia in Germania che in Europa. Una misura che fomenta nella società tedesca la diffidenza e la rabbia nei confronti della BCE e dei Paesi meridionali europei, colpevoli di non seguire le “auree regole del risparmio”, ben incastonate a livello comunitario nel Patto di bilancio europeo, meglio noto come Fiscal compact, introdotto nell’ordinamento italiano con la modifica dell’articolo 81 della Costituzione.
E proprio sul pareggio di bilancio che si concentra Merkel nella sua prima esperienza di governo (2005-2009). Suoi alleati nell’imporre ai cittadini una vera e propria stangata fiscale sono gli esponenti dell’ala riformista della SPD, fra i quali il ministro degli Esteri Frank-Walter Steinmeier, attuale presidente della Repubblica federale. “Wir schaffen die Null” (pareggiamo i conti) è il motto. Una situazione molto diversa da quella odierna, in cui, causa pandemia, Olaf Scholz (SPD), ministro delle Finanze dell’attuale terza Große Koalition, ha emesso delle misure che permettono allo Stato tedesco di indebitarsi, nel 2020, per la somma record di 218,5 miliardi di euro.
Angela Merkel ha capito che è fondamentale per la Germania, nel pieno dell’attuale crisi economica creata dal coronavirus, sostenere le economie “deboli” del Sud Europa (non ultimo perché l’industria tedesca ha bisogno dei manufatti e della componentistica prodotti in Nord Italia). Tuttavia, sulla questione della mutualizzazione del debito (gli eurobond o i coronabond), la posizione della Cancelliera sembra di diniego assoluto: per Merkel gli ipotetici titoli di Stato europei, garantiti da tutti i Paesi dell’Unione, urtano contro i principi dei Trattati comunitari, che vietano esplicitamente il finanziamento del debito pubblico (articoli 123-125 del Tfue).
Di Merkel è stato detto che rappresenta, fra i leader tedeschi, una tripla anomalia: una donna (divorziata, risposata, senza figli), una scienziata e una Ossi (una persona proveniente dall’Est). Queste caratteristiche, sebbene la rendano un’outsider della politica tedesca, hanno contribuito alla sua straordinaria ascesa.
Angela Merkel è una maestra nell’ascoltare. “In una conversazione lei parla il venti percento e tu parli l’ottanta percento. Dà a tutti l’impressione che voglia stare lì a sentire quello che hai da dire. La verità è che nel giro di tre minuti si è già fatta un giudizio e magari pensa che gli altri minuti siano tempo perso”, scrive il reporter del New Yorker. E aggiunge: «È come un computer, velocissima a capire se quello che le sta proponendo il suo interlocutore appartiene al regno della fantasia o della realtà». Bernd Ulrich, vicecaporedattore di DIE ZEIT, sostiene che la ragione del successo di Merkel consiste nel fatto che è una persona molto difficile da conoscere: «Non è una donna dalle forti emozioni (…) Troppe emozioni disturbano la ragione».
Per l’ex ministro della Difesa Karl-Theodor zu Guttemberg il punto forte di Merkel consiste nel sapersi mantenere aperte le sue opzioni il più a lungo possibile e nascondere le sue decisioni dietro una nuvola di complessità. Questo le dà la possibilità di cambiare idea diverse volte, senza farsi notare. Proprio questa caratteristiche le procura, fra i suoi detrattori, la pessima fama di opportunista e l’etichetta di Cancelliera priva di senso strategico. Lo scrittore e giornalista Peter Schneider ha paragonato il comportamento della Cancelliera durante i mesi cruciali della crisi dell’Euro a quello di un automobilista nella nebbia: «Hai una visuale di cinque metri, non di cento, quindi è meglio essere molto cauti, non dire troppo, agire passo dopo passo. Nessuna visione», ha detto Schneider, solo uno zig-zag di mosse intelligenti. John Kornblum, un ex ambasciatore USA a Berlino, racconta a Packer di aver chiesto una volta a uno dei consiglieri del governo tedesco quanto ampia fosse la visione a lungo a termine della Cancelliera. “Circa due settimane”, fu la risposta.
Seconda parte
Come per il suo predecessore Helmut Kohl, anche per Angela Merkel c’è un evento storico che ne divide in due la storia politica. Per Kohl lo spartiacque fu la caduta del Muro e la riunificazione tedesca. Per Merkel furono il comportamento e le scelte politiche adottati durante la crisi migratoria del 2015/2016. Per molti in Germania, come il caporedattore della rivista di cultura politica Cicero Christoph Schwennicke, la Cancelliera da allora in poi non ha fatto altro che andare incontro alla sua triste fine politica. “Come Bundeskanzlerin Angela Merkel ha diviso in due non solo il proprio partito, ma anche la Germania e l’Europa. Da molto tempo ormai lei non è più la soluzione, ma il problema”, scriveva Schwennicke nel suo editoriale uscito nel numero di Cicero di marzo 2020.
All’indomani dei drammatici mesi della crisi dei rifugiati del 2015/2016, Angela Merkel e la CDU hanno infilato in effetti una debacle dopo l’altra, a partire dalla sconfitta nelle elezioni regionali in Assia nell’ottobre 2018 (dopo le quali la Merkel annunciò il suo proposito di abbandonare la politica alla fine dell’attuale mandato, nell’autunno 2021) per arrivare a quella forse più dolorosa di tutte: l’elezione a presidente della Turingia di Thomas Kemmerich, esponente dei liberali (FDP) ma eletto con i voti della CDU e quelli di Alternative für Deutschland (AfD), la forza reazionaria di destra. Questo accedeva il 5 febbraio 2020.
Come siano andate le cose è noto: da Pretoria, dove si trovava per una visita ufficiale al capo di Stato sudafricano Cyril Ramaphosa, Merkel prese le cose in mano e semplicemente annullò – con una dichiarazione in una conferenza stampa a 8.000 chilometri di distanza da Erfurt – l’elezione di Thomas Kemmerich. Il 10 febbraio 2020 Annegret Kramp-Karrenbauer, che era stata scelta da Angela Merkel come proprio successore, si dimise dalla carica di Presidente della CDU e abbandonò la candidatura al ruolo di Cancelliere.
«Ribellione contro Merkel», «Funerali per la Große Koalition», «Avanti senza forza», questi alcuni titoli del magazine della FAZ, die Woche, che hanno preannunciato in questi ultimi due anni la triste uscita di scena della Cancelliera, accompagnata dalle malinconiche immagini dei suoi sempre più incipienti tremolii. Poi, come sappiamo, è arrivato sulla scena globale il virus SARS-CoV-2 e le cose sono cambiate.
I mesi decisivi che segnano una svolta nella vita politica di Angela Merkel – e che cambieranno la struttura sociale di molte città tedesche – sono quindi quelli che vanno dal settembre 2015 al marzo 2016, quando da un’eccezionale, temporanea apertura del confine per alcune migliaia di profughi provenienti dall’Ungheria si venne a creare uno «stato d’eccezione» di sei mesi che permise a oltre un milione di persone in fuga dalla guerra di entrare in Germania. I fatti sono raccontati in modo avvincente da Alexander Robin nel suo libro del 2017 Die Getriebene (I sospinti), che narra dall’interno le vicende di quei mesi. Robin appartiene infatti dal 2010, come corrispondente per Die Welt, a quella stretta cerchia di giornalisti al seguito della Cancelliera nei suoi viaggi all’estero.
L’afflusso di centinaia di migliaia di profughi fu interrotto il 9 marzo 2016, quando la Macedonia chiuse i suoi confini su richiesta di Merkel, troncando quindi il flusso della rotta balcanica. Seguì a pochi giorni di distanza, il 18 marzo 2016, l’accordo fra Turchia e Unione Europea, con il quale si stabilisce che “tutti i nuovi migranti che arrivano nelle isole greche dopo il 20 marzo 2016 e che non presentano domanda di asilo o la cui domanda è respinta in quanto infondata o inammissibile, saranno rimpatriati in Turchia a spese dell’Unione Europea”.
Quella che sembra essere stata un’impresa grandiosa, frutto di un’azione pianificata, modello esemplare di efficienza e organizzazione tedesche, è in realtà l’esito di una politica confusa e approssimativa, fatta di espedienti, tentativi ed errori. Spinti dagli eventi, come recita il titolo del libro di Alexander Robin (da cui è stato tratto un film), i protagonisti delle vicende di quei mesi (Merkel, l’ex presidente della CSU Horst Seehofer, l’allora capo della SPD Sigmar Gabriel, il ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble, il direttore della Cancelleria Peter Altmeier e il ministro dell’Interno Thomas de Maizière) si ritrovano schiacciati fra scrupoli morali e gli eventi stessi, che ad un certo punto non sono più controllabili. Governare in Germania durante la crisi dei rifugiati, scrive Robin, significava dover prendere decisioni di enorme portata nel giro di pochissimo tempo, sotto una grande pressione e sulla base di informazioni incomplete: «Tutti gli attori politici di questa vicenda hanno qualche volta collaborato, spesso si sono scontrati con durezza e, sorprendentemente, hanno quasi sempre lavorato per ostacolarsi l’uno con l’altro».
Durante quei 180 giorni, da società quasi spoliticizzata, la Germania diventa un Paese diviso in due. Il politologo Herfried Münkler ha spiegato in un recente articolo (Stuttgarter-nachrichten.de, 9.8.2020) che “il 2015 ha fatto nascere una spaccatura che tuttora caratterizza la società tedesca: da una parte i sostenitori della Willkommenskultur; dall’altra coloro a cui l’immigrazione scatena paure irrazionali e sentimenti di odio razzista”. Molti temono il terrorismo islamico e pensano che la Merkel, nella sua ingenuità e ignorando il diritto, abbia messo a repentaglio la sovranità della Germania.
Per la strategia di Angela Merkel quello dei migranti è un tema politicamente perdente. Nella tarda estate del 2015 la Cancelliera è al suo decimo anno di governo e non ha ancora mai visitato un centro di accoglienza per rifugiati. Durante i suoi esecutivi precedenti il numero di persone che hanno inoltrato domanda di asilo e che sono riuscite a rimanere in Germania si è sempre mantenuto esiguo. Nel 2006, primo anno di governo, ci furono 30.000 domande, mai così poche dai tempi della riunificazione. Nel 2014, a causa della guerra civile in Siria le richieste sono più di 200mila e nel 2015, secondo i dati del BAMF (Bundesamt für Migration und Flüchtlinge, Ufficio federale per l’immigrazione e i rifugiati), si arriva a 800.000 richieste di asilo. I profughi devono aspettare mesi solo per poter inoltrare domanda. Gli amministratori comunali cercano disperatamente di offrire loro una sistemazione. A differenza di Merkel, il presidente della Repubblica Joachim Gauck non perde occasione per manifestare la sua solidarietà ai migranti, così come altri componenti del governo. Il giornale della sinistra liberale Süddeutsche Zeitung, già in un articolo dell’aprile 2015, invita la Cancelliera ad andare a visitare un centro di accoglienza per rifugiati. Ma Merkel tace e non prende posizione: “Come Cancelliera sono stata eletta per risolvere problemi. Se vado, devo avere una soluzione”, dice Merkel ai suoi confidenti.
Il punto principale della strategia di Angela Merkel sta nel voler evocare, nelle sue apparizioni pubbliche, associazioni positive, ma soprattutto vuole evitare quelle negative. Tenersi alla larga dai temi controversi, ma anche da quelli che lo potrebbero diventare, fa parte della sua strategia politica e comunicativa. Robin la chiama Asymmetrische Demobilisierung, demobilitazione asimmetrica. Un esempio calzante è quello delle forze armate, tema verso cui i tedeschi, a differenza di altre nazioni occidentali, sono piuttosto freddi. Nelle sue sporadiche apparizioni con il Bundeswehr, l’esercito, Merkel è sempre ripresa vicino a strumenti di altissima tecnologia o in mensa insiemi ai militari, ma mai nei pressi di carri armati, missili o eurofighter.
Con la stessa logica comunicativa è affrontata la crisi migratoria del 2015. Fino al 15 luglio 2015, quando la Cancelliera deve confrontarsi con una sorpresa. Ci stiamo riferendo alle famose immagini televisive, finite subito in rete, delle lacrime di Reem Sahwil, la quattordicenne nata in un campo profughi palestinese in Libano, cresciuta in Germania, ma senza cittadinanza tedesca. Il format televisivo della trasmissione è stato creato da Eva Christiansen, la collaboratrice storica della Cancelliera che faceva parte delle leggendarie “girls camp”, il riservatissimo gruppo di sole donne con cui Merkel lavorava nei primi anni del suo cancellierato. Il programma, che si chiama Bürgerdialog (Dialogo con i cittadini), cerca di mettere in contatto i cittadini con la politica, senza filtri, secondo una modalità nota come Nudging.
Quella sera la trasmissione itinerante è a Rostock, Germania Settentrionale, nella scuola Paul-Friedrich-Scheel. Di fronte alle telecamere accese la giovane Reem Sahwil racconta, in un tedesco perfetto, della sua situazione e della sua angoscia di non poter continuare a studiare in Germania. La Merkel risponde con la freddezza dei paragrafi dei trattati e la ragazza scoppia a piangere. Il tentativo della Cancelliera di consolare la ragazza dandole delle carezze sulle spalle rende la cosa ancora più imbarazzante. «Fredda», «insensibile», «di ghiaccio» sono i commenti meno taglienti. «Priva di emozioni», «incapace di empatia», «disumana» quelli più cattivi. Su Twitter nasce l’hashtag #merckelstreichelt (merkelaccarezza) e in quella settimana il giornale Stern titola Die Eiskönigin, la regina di ghiaccio.
Nel Paese intanto aumentano l’odio e l’ostilità verso i rifugiati. Nei primi sei mesi del 2015 il Bundeskriminalamt, l’ufficio federale della polizia criminale, registra 150 attacchi violenti ai centri di accoglienza. L’immagine di calma e sobrietà di Merkel sembra vacillare ogni giorno di più. Inizia a farsi incalzante l’idea che la Cancelliera non sappia prendere posizione.
Il silenzio di Angela Merkel diventa ancora più pesante dopo i cosiddetti fatti di Heidenau, cittadina sassone. Il 18 agosto 2015, il sindaco di Heidenau Jürgen Opitz (CDU) riceve l’ordine di organizzare nel più breve tempo possibile l’accoglienza di un gruppo di 700 persone richiedenti asilo perché il campo profughi di Chemnitz (l’altra città della Sassonia a circa cento chilometri di distanza) è sovraffollato. La popolazione di Heidenau non gradisce e, al grido di “Via gli stranieri”, si scontra violentemente con la polizia, per due giorni. L’episodio sciocca tutta la Germania e scatena un dibattito sul radicalismo di destra nella regione. Il più grande portale online tedesco, Spiegelonline, titola già al primo giorno di scontri: «Il fatale silenzio della Cancelliera». Sigmar Gabriel, il vice-Merkel, sente la necessità di mostrare al Paese che la politica non si piega alle proteste e annuncia che andrà in visita a Heidenau. La mossa di Gabriel costringe Angela Merkel a recarsi a sua volta nella cittadina.
Il 26 agosto 2015, quando intorno a mezzogiorno arriva finalmente ad Heidenau, Merkel non potrebbe trovare atmosfera più aggressiva e carica d’odio. Scende dall’auto e viene sommersa dai fischi. Davanti al centro di accoglienza ci sono solo i dimostranti ostili. Ciò che rimane di questa giornata sarà la frettolosa partenza della Cancelliera da Heidenau in mezzo ad una folla indiavolata che le grida dietro di tutto: “Puttana!”, “Baldracca!”, “Traditrice del popolo!” sono gli insulti più volgari.
“A volte ho bisogno di tempo e le decisioni arrivano tardi, ma arrivano” ha detto di sé stessa Merkel in occasione del discorso per il suo quarto mandato. E alla fine, anche sui fatti di Heidenau, Angela Merkel prende posizione e lo fa, fra le molte ragioni, anche per opporsi alla destra radicale e razzista. Prima di lasciare la cittadina sassone, si congeda dal sindaco con parole non previste e infervorate: «Ringrazio i cittadini che vivono qui dovendo sopportare l’odio (…) Non c’è nessuna tolleranza nei confronti di coloro che mettono in dubbio la dignità di altri esseri umani. Non c’è tolleranza per chi, nel momento del bisogno, non è pronto a offrire il suo sostegno legale e umano».
Secondo Alexander Robin, la volontà della Merkel di non lasciare l’ultima parola alla cattiveria e alla stupidità dei razzisti rappresenta una delle chiavi per capire la politica migratoria intrapresa dalla Germania in quei mesi. Del resto, la Cancelliera non è sola. A due settimane di distanza dagli incidenti di Heidenau, le emozionanti immagini della stazione di Monaco di Baviera invasa da una folla festante che grida «Refugees Welcome!» mostrano, afferma Robin, la risposta dei tedeschi dell’Ovest non tanto agli orrori di Aleppo, quanto all’orrore di Heidenau.
È superfluo aggiungere che all’interno del partito, la CDU, non tutti condividono il disprezzo che la Cancelliera nutre per i partiti della destra radicale. Wolfgang Schäuble, uno dei padri spirituali della CDU, ritiene che la lotta contro la destra radicale si faccia non insultando gli elettori, ma risolvendo i problemi. “Se i cittadini votano a destra vogliono dirci che dovremmo limitare gli ingressi. Se lo facciamo, non votano più a destra”.
Le giornate che entreranno nei libri di storia della Germania sono quelle del 4 e 5 settembre 2015. Venerdì 4, alle 8:30 come di regola, Merkel riunisce la sua stretta cerchia di collaboratori in una stanza al piano più alto della Cancelleria, che lei occupa allo stesso livello con la sua fedele segretaria Beate Baumann, la seconda donna più potente della Germania. La riunione viene aperta, come spesso accade, dal capo dell’ufficio stampa e portavoce di governo Steffen Seibert. Si discute di come debba comportarsi Angela Merkel nei confronti di Viktor Orbán. Da una settimana, infatti, migliaia di rifugiati sono accampati nella stazione Keleti di Budapest e quattro giorni prima Orbán ha spedito treni carichi di migranti verso le stazioni di Vienna e Monaco. Da anni il presidente ungherese sta cercando di proporsi come antagonista ufficiale alla politica europea di Merkel. Già durante l’Eurocrisi e dopo l’annessione russa della Crimea, i due avevano manifestato opposte visioni. Pochi giorni prima, a Bruxelles, il presidente ungherese ha dichiarato che riguardo ai profughi “il problema non è europeo, ma tedesco”.
Quando viene sciolto l’incontro, tutti i membri dello staff partono per gli impegni del fine settimana. Merkel ha nella sua agenda quattro appuntamenti per quella giornata. Alle 11.15 è in una scuola di un piccolo comune della Baviera, vicino a Monaco. Nei suoi spostamenti in auto e in aereo si informa sulla situazione in Ungheria. Viene a sapere che Orbán ha chiuso i confini e che da Budapest non partono più treni. Per i profughi l’unica alternativa è raggiungere il confine a piedi, con il rischio per la Cancelliera di dovere vedere gente morire nelle strade d’Europa.
All’inizio di quella giornata Angela Merkel non è ancora dell’idea di aprire il confine, ma è l’escalation degli eventi a portarla alla decisione di aprire le frontiere. Una scelta paragonabile, secondo Robin, a quella della Westbindung di Konrad Adenauer o alla Ostpolitik di Willy Brandt, presa dalla Cancelliera senza consultarsi nemmeno con i partner della coalizione. I suoi più stretti collaboratori, al momento della decisione, sono all’estero o malati, come il ministro dell’Interno Thomas de Maizière.
Fra un appuntamento e l’altro, nel corso della giornata, Merkel ha la possibilità di parlare al telefono con Viktor Orbán, ma rifiuta. Non lo degna neanche di una conversazione. Decide di non andare nemmeno a Monaco, per le celebrazioni del centesimo anniversario della nascita di Franz Josef Strauß e dove è stata ufficialmente invitata dal presidente della Baviera e della CSU Horst Seehofer, il quale considererà l’assenza della Cancelliera come un affronto.
L’appuntamento successivo è a Essen, nella zona della Ruhr, dove arriva con un aereo militare e poi si sposta in elicottero. Sulla strada la raggiungono le notizie sulla situazione in Ungheria. Le immagini riprese dall’elicottero mostrano colonne di migliaia di persone che marciano sotto il sole in autostrada in direzione dell’Austria, lasciate al loro destino. Merkel rimane sconvolta. Ad Essen, alle 16:30, è in programma un comizio elettorale a sostegno del candidato sindaco. Durante l’intervento, in una parte della platea, c’è un gruppo di siriani che sventola bandiere della Germania e che grida: «Grazie Germania! Grazie Merkel». Nel suo iPad la Cancelliera vede che alcune colonne di profughi in marcia sull’autostrada hanno bandiere con il cerchio stellato dell’Europa e reggono cartelli con la sua fotografia. Nonostante tutto, Angela Merkel continua con il suo programma, che prevede come tappa successiva la vicina Colonia (dove sono in programma le celebrazioni del settantesimo anniversario della CDU locale), ma è distratta. Si accende, scrive Robin, solo quando il dibattito arriva al tema dei rifugiati. Con voce flebile dice: «La dignità dell’uomo è intangibile. Sulla base della Convenzione di Ginevra sui rifugiati, della legge sul diritto di asilo nel nostro Paese e dell’articolo 1 della nostra Costituzione, abbiamo il dovere di aiutare chi fugge dalla guerra o dalla persecuzione politica».
Angela Merkel non ha mai detto così sinceramente in pubblico quello che pensa, come invece è capitato in queste giornate di cinque anni fa. Riguardo ai critici dell’Islam ritiene che siano dei codardi ignoranti fuori dalla storia, scrive Robin. Esemplare in questo senso un episodio accaduto il giorno precedente, il 3 settembre 2015. Merkel si trova in Svizzera, in visita ufficiale, a ritirare l’ennesima laurea ad honorem, questa volta dell’Università di Berna. Dopo le celebrazioni di rito inizia un dibattito, che all’insaputa della Merkel finisce in rete e viene visto nel giro di poche ore da decine di migliaia di persone su YouTube. Una ragazza prende la parola, dice di avere molta paura dell’islamizzazione dell’Europa e chiede alla Cancelliera: «Come intende proteggere l’Europa e la nostra cultura?». In un primo momento Merkel risponde, fredda, che la paura è sempre una cattiva consigliera, ma poi suggerisce alla donna di andare di più in chiesa e di attenersi maggiormente ai precetti della Bibbia. Quindi chiarisce il suo concetto con le seguenti parole: «Se lei fa scrivere un tema in Germania su cosa significa Pentecoste, beh, allora credo che con la conoscenza dell’Occidente cristiano non si faccia molta strada. E lamentare che i musulmani conoscono meglio il Corano lo trovo sinceramente ridicolo».
A pomeriggio avanzato, scrive Robin, Merkel non ha ancora preso la decisione di aprire i confini. Durante lo spostamento all’aeroporto di Colonia telefona al cancelliere austriaco Richard Faymann, che le dice che la Germania dovrebbe prendere la metà dei migranti. I numeri sono approssimativi, gli ungheresi parlano di mille profughi, l’Austria dice invece 3.000. In realtà il giorno seguente saranno 22.000 le persone che entreranno in Germania.
In volo verso Berlino, Merkel si mette in contatto con i componenti del governo. Il ministro degli Esteri Frank-Walter Steinmeier ritiene che l’apertura dei confini sia un segnale pericoloso e che sia possibile solo come evento eccezionale. Merkel è d’accordo. Steinmeier dirà in seguito che quando quella sera venne raggiunto dalla telefonata della Cancelliera, ha avuto la forte impressione che lei avesse già deciso e che lo avesse semplicemente messo al corrente. “La sua unica preoccupazione era il quadro giuridico e legislativo”.
La telefonata a Richard Feymann per comunicargli che è d’accordo sull’apertura del confine avviene fra le 23:30 e mezzanotte, nell’appartamento berlinese di fronte l’Isola dei Musei che Angela Merkel condivide con il marito Joachim Sauer. Merkel e Feymann spiegheranno che la loro decisione è stata presa sulla base di ragioni umanitarie. Secondo Robin, tuttavia, è stato il piano ben progettato e preparato con cura da Viktor Orbán a spingere i due alla scelta.
Il patto fra i cancellieri di dividersi i migranti da accogliere non diventa realtà: una volta raggiunta l’Austria, tutti i profughi vogliono continuare verso la Germania. Alla stazione di Monaco di Baviera, ogni ora del 5 settembre arriva un treno carico di profughi. Dalla stazione di Monaco colpiscono le immagini delle centinaia di bavaresi accorsi ad accogliere gli stremati viaggiatori con cibo, bevande e vestiti. La gente è inebriata, euforica: saluta, grida, gesticola.
È uno stato d’animo che presto si diffonde nelle stazioni di Francoforte e di Dortmund, prese d’assalto dalla società civile. Una sensazione, scrive Robin, paragonata dai più giovani al patriottismo calcistico dei mondiali del 2006 e dai più anziani a quelle del 1989.
La settimana che segue sarà quella in cui in Germania regna una confusione che fino a quel momento non si era mai vista: da Berlino hanno aperto i confini, ma hanno lasciato l’organizzazione dell’accoglienza e della ripartizione dei migranti ai funzionari distrettuali e ai sindaci delle città e dei comuni. Questi ultimi si ritrovano giorno e notte al telefono con i colleghi di tutto il Paese per pregarsi a vicenda di poter inviare autobus e treni carichi di profughi a causa del sovraffollamento delle rispettive strutture ricettive. In quei primi giorni il gigantesco smistamento dei migranti in tutta la Germania è organizzato e gestito dal Referat Asyl, la task force creata dal Ministero degli Affari Sociali bavarese. Alexander Robin scrive che “sono stati gli impreparati politici locali, i funzionari e i dipendenti delle amministrazioni comunali di tutto il Paese che hanno provveduto con magistrale improvvisazione al funzionamento dello Stato e che in questo fine settimana non si sia arrivati a una catastrofe”.
La domanda che tutti si pongono in Germania già a partire dal 5 settembre è: quando e come rientreranno in vigore le normali regole che valevano prima dell’eccezione, ovvero quelle stabilite dagli accordi di Dublino? Come era stato stabilito in una telefonata fra Merkel e Orbán, l’apertura del confine tedesco era infatti da considerare come “una decisione eccezionale presa sulla base dell’emergenza venutasi a creare al confine ungherese”. E la parola Ausnahme, eccezione, viene usata con cura davanti alle telecamere dal capo della Cancelleria Altmeier. L’ordine di chiudere il confine può venire solo dalla Cancelliera o dal ministro dell’Interno Thomas de Maizière. Ma la Merkel non comunica niente.
Nel frattempo, lungo la rotta balcanica dalla Grecia fino all’Austria, i profughi incontrano alle frontiere i poliziotti che gli fanno cenno con la mano di passare: ogni giorno migliaia di migranti attraversano il confine austriaco-bavarese. Dell’idea iniziale di avviare immediatamente, per ogni persona, un procedimento di richiesta di asilo non si parla più. Alla fine, la polizia tedesca capitola e smette pure di registrare nome e cognome dei nuovi arrivati, limitandosi a fare cenno ai migranti di continuare a camminare.
Tutti gli attori politici protagonisti della vicenda, scrive il Die Welt, sono d’accordo nel sostenere che l’errore non sia stata l’apertura del confine, un atto umanitario in fondo, ma il non avere dato subito dopo il segnale chiaro che la Germania non può accogliere chiunque. Anche una ferma dichiarazione televisiva della Cancelleria sarebbe stata sufficiente. Ma Angela Merkel non lancia nessun segnale. Sa che ordinando la chiusura del confine andrebbe contro i sentimenti della popolazione. Glielo dicono non solo le immagini provenienti dalle stazioni ferroviarie tedesche, ma soprattutto glielo confermano i risultati dei suoi costosissimi metodi scientifici di elaborazione e analisi dei dati. Sotto la sua gestione, scrive Robin, l’ufficio stampa della Cancelleria si è trasformato da struttura che informa i cittadini sull’operato del governo in organismo che studia per il governo quello che i cittadini pensano e sentono. Tutto ciò ha indotto Jürgen Habermas, uno dei massimi filosofi e sociologi viventi (non solo tedeschi), a definire la visione politica della Cancelliera come “un copione opportunistico di una pragmatica del potere guidata dalla demoscopia”. In quei giorni, le sue riservate indagini demoscopiche le dicono che il tema dei rifugiati interessa l’80% della popolazione. I sondaggi mostrano un clima finora mai visto nel Paese. Merkel crede che un cambiamento radicale e improvviso della sua politica causerebbe confusione e disorientamento in milioni di cittadini.
Nella rituale conferenza stampa estiva Angela Merkel fa capire che per lei il passato tedesco fa da sfondo alla sua politica migratoria: «Il mondo vede la Germania come un Paese della speranza e delle possibilità e non sempre è stato così». In quell’occasione pronuncia anche la famosa, storica frase Wir schaffen das (Ce la faremo), che diventa lo slogan della Willkommenskultur.
Sui media nazionali intanto si approfondisce il tema delle due Germanie: quella buia (dunkles Deutschland) e quella luminosa (helles Deutschland), argomenti già trattati dalla letteratura tedesca. Per molti analisti la crisi dei rifugiati è stata anche per i tedeschi l’occasione per confrontarsi e affrontare il proprio passato. Questo motivo emergerà, scrive Robin, più di una volta nelle parole di Merkel nel corso di queste giornate. Il 7 settembre viene chiesto alla Cancelliera cosa si prova a vedere striscioni con la propria foto e la scritta “Merkel, please help me!”. Angela Merkel in un primo momento dice che è contenta che la Germania sia diventato un Paese associato all’aiuto e alla solidarietà, ma poi aggiunge: «E questo è qualcosa di molto prezioso, se si dà uno sguardo all’indietro nella nostra storia. Beh, trovo che sia molto commovente».
Angela Merkel, proprio colei che è stata definita “la regina di ghiaccio”, che fino a qualche settimana addietro non si è fatta riprendere nelle vicinanze di un centro di accoglienza, posa ora guancia a guancia con i rifugiati. I famosi selfies con i migranti, che cambieranno per sempre e in tutto il mondo l’immagine della Cancelliera, sono del 10 settembre 2015, quando Merkel visita il centro di prima accoglienza per richiedenti asilo di Spandau, un distretto nella parte occidentale di Berlino. I selfies e le foto con gli immigrati fanno il giro del mondo e procurano alla Cancelliera la fama di «Mama Merkel» «Protettrice dei rifugiati», ma nello stesso tempo saranno anche una delle ragioni dell’aumento della destra populista in Germania e diventeranno motivo di dibattito sulle reali cause che hanno scatenato l’afflusso migratorio dalla Siria.
Merkel sa, scrive Robin, di aver fatto un grave errore. Da ora in poi, per il mondo intero è la Flüchtlingskanzlerin, la Cancelliera dei rifugiati, e ogni cambiamento della sua politica migratoria risulterebbe un fallimento. Per questo motivo si passa dalla temporanea apertura del confine del 5 settembre ad uno «stato d’eccezione» durato sei mesi.
Conclusione
Ad oggi, non crediamo che l’atteggiamento tenuto da Angela Merkel nel gestire la crisi economica causata dal coronavirus abbia indotto il direttore di Cicero Christoph Schwennicke a cambiare idea sull’operato della Cancelliera. Quello che sappiamo è che il modo di affrontare l’emergenza Covid da parte di Merkel (poche parole, tanti fatti: moltissimi tamponi e aiuti economici importanti per aziende e privati che sono arrivati nel giro di pochissimi giorni) ha fatto schizzare la sua popolarità. A fine ottobre 2020, i sondaggi dicono che l’Union (CDU/CSU) è di nuovo sopra al 36% delle preferenze e che Angela Merkel è di gran lunga la politica preferita dai tedeschi, anche più di Markus Söder, presidente della Baviera, leader della CSU e possibile futuro Cancelliere della Germania.
Angela Merkel dovrebbe uscire dalla scena politica nell’autunno del 2021, quando si terranno le elezioni per la ventesima legislatura della storia tedesca. Nella sua carriera Merkel ha visto passare tre presidenti americani (George W. Bush, Obama e Trump) e quattro francesi (Chirac, Sarkozy, Hollande e Macron), ha partecipato a 13 incontri internazionali fra G7 e G8 e a oltre 70 vertici UE. Solo Vladimir Putin, fra i leader mondiali, ha fatto qualcosa di analogo, ma non in una democrazia.
Stilare un bilancio dell’era Merkel non sarà così semplice per gli addetti ai lavori. In uno degli ultimi approfondimenti giornalistici dedicatole, apparso nel 2019 nel settimanale Der Spiegel (N°21), l’autore René Pfister afferma che la Cancelliera è rimasta «l’ultima paladina del mondo libero contro le incalzanti forze delle tenebre». Lei stessa ha definito «assurde» e «grottesche» certe definizioni e per quanto abbia sempre affermato di non pensare a quale sarà il suo posto nella storia, il tema di questa ultima fase dell’era Merkel, scrive Pfister, non è altro che la difesa dell’ordine mondiale liberale. Una situazione paradossale di cui la Cancelliera pare sappia approfittare al meglio per lavorare alla propria fama postuma.
In questa ultimissima fase Merkel ha compiuto un radicale cambiamento, difficile da cogliere, ma abbastanza evidente nei fatti. Nella sfera pubblica, scrive René Pfister, continua a parlare tranquilla, pacata come sempre, ma fra amici e confidenti, oramai da molto tempo, non nasconde più il suo pessimismo e la sua profonda preoccupazione. E ragioni per preoccuparsi non le mancano: Merkel ha visto la Turchia trasformarsi da giovane democrazia piena di speranze in regime autocratico. Ha scoperto che il principe ereditario saudita Mohammad bin Salmān non è un giovane riformatore ma un despota crudele. Di Vladimir Putin, da ex cittadina orientale, non si è mai fidata. Dopo un discorso del presidente russo al Bundestag tedesco, racconta George Packer, Merkel disse a un collega: «Tipico discorso da KGB. Non ti fidare mai di questo tipo». In più l’Europa, indebolita dalla Brexit e dai conflitti interni. E poi Trump. «La miccia arde, così la vede Merkel», scrive Pfister.
Alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco di Baviera del febbraio 2019, Merkel fece un intervento appassionato che riscosse molto successo e la sala si alzò ad applaudirla. Aveva appena parlato, con un misto di accorato monito e sobrietà scientifica, di Alexander von Humboldt e del suo sforzo di comprendere «il mondo nel suo complesso», così come del premio Nobel Paul Crutzen, lo scienziato che ha introdotto il termine «antropocene» per indicare quella fase della storia della terra in cui l’essere umano lascia tracce indelebili del suo passaggio sul pianeta attraverso test nucleari, la microplastica e l’emissione nell’atmosfera di gas nocivi per il clima.
Una delle preoccupazioni più grandi di Merkel in questi ultimi anni è certamente Donald Trump. L’attuale Presidente americano sembra essere stata la causa principale dell’attuale quarto mandato della Cancelliera. Nell’autunno 2016, infatti, Merkel aveva già rivelato ai confidenti più intimi il proposito di ritirarsi dalla vita politica. Era consapevole, a causa della sua politica migratoria, di aver polarizzato il Paese e di avere logorato la sua azione. Inoltre, non pensava che Hillary Clinton avrebbe perso le elezioni. E invece l’8 novembre 2016 vinse Trump. Otto giorni dopo, fu Barack Obama, giunto appositamente Berlino, a incoraggiare la Merkel a non abbandonare la politica.
Nel suo articolo per Der Spiegel René Pfister chiede a due storici cosa rimarrà, secondo loro, dell’era Merkel. Il primo è il professore berlinese Henning Köhler, che si è occupato in tutta la sua vita professionale dell’opera dei cancellieri tedeschi e che considera Adenauer e Kohl due grandi Cancellieri, ma non Merkel. «Di lei rimarrà che durante il suo governo un partito della destra populista è riuscito a entrare in parlamento», ha detto Köhler. Il secondo è Herfried Münkler, il già citato politologo che insegna all’Università Humboldt di Berlino, il quale con timidezza cita la fine del servizio militare e l’uscita dal nucleare ma poi ammette: «La politica per Merkel è sempre stata l’evitamento del falso e questo ha sempre fatto apparire incerta la sua azione. Inoltre, Merkel non è mai stata una grande oratrice». Il problema dei grandi oratori, di porsi essi stessi sotto pressione per infiammare gli animi delle folle, non ha mai riguardato Angela Merkel. Pfister conclude il suo articolo, scritto prima del divampare dell’epidemia di coronavirus, dicendo che magari un pizzico di passione in più non avrebbe fatto male alla Cancelliera in questi suoi ultimi mesi di attività politica.
Forse saranno i suoi appassionati discorsi sulla necessità di affrontare con serietà la pandemia del Covid-19 il tassello mancante alla costruzione della figura storica di Angela Merkel.
REDAZIONE
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