AVVERTENZA – Questo non è un articolo tecnico e qui non si leggeranno recensioni: chi scrive non è (e purtroppo mai sarà) un critico cinematografico.
La rapina nel cinema. Progettare un colpo, studiarlo nei minimi dettagli e poi metterlo a segno. Una banca, una gioielleria, il furgone portavalori che rientra con l’incasso di giornata. Composizioni perfette di momenti e fatti che si aggrovigliano. A volte tutto fila liscio, spesso, invece, qualcosa non torna. Un dettaglio banale, una sfumatura, due sguardi che tardano a incrociarsi: ogni elemento può spostare l’equilibrio. E noi lì, accatastati sul divano, fuori la notte e il silenzio, sognando atti criminali a colpi di piumone. Perché c’è rapina e rapina, ma bisogna conoscere il tempo e lo spazio, le proprie attitudini, il contesto.
6 film, 6 rapine. In ogni storia, un’inclinazione.
CRUEL GUN STORY (1964) – di Takumi Furukawa
Togawa è appena uscito di prigione. Piglia a sberle chiunque gli si avvicini e fai attenzione a nominare la sorella, perché se ti sente allora si arrabbia davvero, spacca la bottiglia e va a finire male, molto male. Ma Togawa non è cattivo. La verità è che è un uomo d’altri tempi, una persona seria, di quelle che rispettano i codici d’onore della malavita, che si pettinano sempre dallo stesso lato e portano gli occhiali da sole anche alle 2 di notte. Qui la rapina è per uomini veri, in pieno giorno, con spargimento di sangue, tradimenti e primi piani durissimi a incatenare gli occhi. L’ingiustizia vince. Sempre.
THIEF (1981) – di Michael Mann
Il cinema di Michael Mann, quando non era ancora Michael Mann, ma quasi. I tempi dilatati e le selvagge deflagrazioni di veemenza. Il buio a prenderti per mano e le strade fumose, l’asfalto bagnato, i caffè lunghi nelle tazze di coccio, le luci al neon a guardarti le spalle. James Caan ruba i gioielli e qui è al suo meglio. Cupo e impetuoso, con una fragilità nascosta da farti impazzire. L’esistenza buttata, o forse no. Una donna bellissima potrebbe salvarti. Ancora un colpo, l’ultimo, il tentativo di rimettere ogni cosa al suo posto. Ma nell’America degli anni’80 niente torna mai come prima: la notte a Chicago non finisce.
CRIMSON GOLD (2004) – di Jafar Panahi
Hussein è triste, solitario y final. Girovaga tranquillo con il suo motorino per le strade di Tehran. La vita immobile, gli amici, la ragazza, ma non è semplice. Si resta avvolti a guardare il momento che scorre ed è una crudezza bella, un aspro rigido, saldato. Il crescendo silenzioso di immagini a costruire uno scenario così duro che ci si chiede il perché, ma senza accorgersene mai davvero. Vorresti fermare tutto, entrare dentro la televisione e dire “Hussein, va tutto bene, se ti serve qualcosa io sono qua”. Ma Hussein è un eroe sperduto, e non lo prendi, non lo prendi mai.
RIFIFI (1955) – di Jules Dassin
Trenta minuti. Niente musica, nessun dialogo. Soltanto i rumori degli attrezzi che sfondano il pavimento, i quattro uomini alle prese con un colpo da 240 milioni di franchi a scambiarsi cenni e passaggi di occhi. Una scena storica e perfetta: per la prima volta il cinema mostra in ogni singolo dettaglio la costruzione di una rapina, istante dopo istante. Migliaia di ladri, quelli veri, studieranno le immagini di Dassin. Ma non finisce qui. Parigi è uggiosa e fosca, nuvole fatali la circondano. L’amicizia, quella vera, conta fino in fondo.
GETAWAY (1972) – di Sam Peckinpach
Steve McQueen ha in mano un fucile a pompa e guida come un pazzo scatenato. Steve McQueen è invincibile (forse), perché non importa quello che succederebbe a ognuno di noi se fosse circondato da pallottole in un motel di El Paso: la verità è che nessuno di noi è Steve McQueen. C’è anche Rudy, che è un uomo folle e cattivo e non gli interessa come finirà la storia, lui avrà la sua vendetta sulla vita. Poi c’è un amore romantico e moderno e un meraviglioso cowboy che ti parla e pensi “andrà tutto bene, qualunque cosa accada”. 122 minuti e non ci si schioda dal divano: nemmeno per andare in bagno.
BOB LE FLAMBEUR (1956) – di Jean-Pierre Melville
Diciamoci pure la verità: sino ad ora abbiamo scherzato. Qui c’è l’eleganza vera, quella che non si dimentica, quella naturale e innata, come il sinistro di Maradona in una punizione a giro, come le note di Miles Davis in Ascenseur pour l’échafaud (ma questa è un’altra storia). Immagini che ti accarezzano. Non importa se ha perso tutto a poker e sono le 4 di mattina e ha passato le ultime sei ore in un bar malfamato di Montmartre a sorseggiare pastis Ricard e sigarette nazionali: Bob torna a casa come se il tempo nemmeno lo sfiorasse. In ogni gesto c’è eleganza e decisione, perché è un perdente, certo, ma di gran classe. Non è poi così importante che il colpo vada a segno, ciò che conta è fare le cose con stile, sempre.
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