OST è una rubrica ideata e curata da Mattia Grigolo, apparsa inizialmente su Soundwall Magazine.
OST racconta i film attraverso le sue colonne sonore.
Credete che la follia sia contagiosa?
Prova ad immaginare un’isola immersa nella nebbia fitta, come fosse sotterrata in una palude stagnante. Quest’isola è strozzata da nuvole grevi e inzuppata dalla pioggia torrenziale. Al centro di questa sorge un istituto d’igiene mentale.
E’ il 1954 e, proprio oggi, due detective sbarcano scortati dalla polizia del luogo. Uno di questi ha una cravatta spudoratamente sgargiante, che contrasta con il paesaggio cupo. Indossa un cappello forse troppo largo, ha il volto di un adolescente, ma gli occhi feroci di chi si mangia ciò che guarda. Si chiama Teddy Daniels ed è il protagonista di questa storia.
Il focus è semplice, Teddy deve indagare sul caso di una paziente dell’Istituto, infanticida scomparsa nel nulla.
Questo è quello che sai, ciò che invece ti sfugge sono i lati oscuri del detective. E su questo, Martin Scorsese si gioca le sue carte, in un’opera che, a detta di alcuni, non ha la stessa forza delle precedenti, seppur tratteggiandone le caratteristiche registiche a cui il pubblico si è abituato, oppure più precisamente, si è innamorato. Perché stiamo parlando di un grande regista e non lo devo dire io, probabilmente non lo deve dire nessuno.
Dall’altra c’è Leonardo di Caprio, uno dei pochi attori che, lungo tutta una carriera, è riuscito a rivestire decine di ruoli diversi, ma soprattutto vestendo panni che lo vedono lontano anni luce da quelle che sono le sue vere attitudini.
Quindi ok, va bene, Shutter Island è un prodotto commerciale se accostato a diverse altre pellicole di Scorsese, ma chi lo ha visto attentamente sa che dentro e neppure troppo in fondo, c’è il tocco di un maestro. Cominciando dalla colonna sonora, ciò su cui mi soffermerò.
Provo a spiegarti il mio punto di vista.
Non c’è ordine morale puro come la tempesta
Dunque non celebrerò la colonna sonora, almeno non tanto quanto esalterò i rumori di fondo di questo film.
I rumori sono la cosa perfetta, sono il colpo di genio, i suoni di un film hanno la stessa importanza di quanta può averne la sua musica. Perché i suoni sono diversi dalla musica. I primi li senti, la seconda l’ascolti. Senza suoni e rumori la musica sarebbe perduta, fine a se stessa. Senza la musica i suoni e i rumori si sentirebbero soli.
In Shutter Island il colpo di genio sta nel riuscire a rendere perfetto il connubio fra i due, fra le scelte musicali e i rumori metallici, le eco polari dei corridoi e delle stanze dell’istituto mentale, lo scroscio potente delle onde sugli scogli, il portamento maestoso del temporale, il vento. Gli elementi divengono composizione e vanno a fondersi leggeri ma solidissimi con le musiche. Prendi On the Nature of Day Light di Max Richter che si abbraccia sconvolta, leggerissima e nostalgica, al suono del vento all’interno della stanza e di pezzi di carta bruciati che cadono come neve di pece a nascondere tutte le cose che ancora restano immacolate. Ancora –nella versione originale – a sorreggere, quasi portarsi sulle spalle il lamento e i sussurri di un detective perduto e di un immaginifico, agognato gesto d’amore, immenso ed estremo. John Cage che tortura un pianoforte, rimescolando le concezioni e creandosi lo spazio giusto per essere sia colonna sonora sia rumore sia suono. Stessa cosa vale per Nam June Paik e il suo omaggio al compositore e teorico americano.
La selezione dell’intera colonna sonora è affidata a Robbie Robertson, fidato di Scorsese, già sulla barca dai tempi di Toro Scatenato, il quale si affida soprattutto a composizioni di musica classica e contemporanea, o microtonale, come nel caso dell’italiano Giacinto Scelsi. Si capisce, allora, come il rumore di fondo riesca ad abbracciare in un modo tanto caldo la musica.
Non c’è un ordine, questo è il mio punto di vista. Non c’è nel soggetto, non c’è nei soggetti; personaggi infiniti ed infinitesimali, lanciati nell’oblio della mente umana. Tanto distanti da sembrare proiezioni inverosimili eppure chiare, rotonde. Come le accuse, i pentimenti, i rimorsi, l’accettazione che mai sarà scontata.
Chi vince? Nessuno.
La colonna sonora danza triste e macabra, un walzer scomposto e antico, abbracciato ad immagini che restano sospese dentro il suo ricercare una cometa d’interferenze. Le note si spostano come gambe di legno fissate ad un baratro, battendo fuori sincro, schiacciando e nascondendo i suoni soffici, quando ci sono, innalzando la follia, più spesso.
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