Quando guardo delle foto in bianco e nero arriva prepotente, come attivato da un clic, il senso della memoria: l’olfatto. Sento l’odore pungente e delicato di acido della camera oscura dove mio zio sviluppava le sue pellicole e in cui, da bambina, mi intrufolavo con il suo permesso.
La stanza era situata nel seminterrato del palazzo dove vive tuttora la mia famiglia. Era quasi sempre chiusa a chiave e io mi portavo dentro la curiosità di sapere cosa succedesse dietro quella porta. Finché non mi fu finalmente data l’occasione di scoprirlo. Quando ciò accadeva, assistevo al rito magico in silenzio, in cambio della promessa di non toccare niente e di non lasciare entrare nemmeno un briciolo di luce. L’unica illuminazione possibile, con la stampa in bianco e nero, era quella inattitica. Un chiarore rosso che ci separava dal buio e sembrava cullare nell’aria l’effluvio chimico a cui mi abituavo dopo pochi secondi. Il momento più bello, per i miei occhi frettolosi, era la scoperta delle immagini che si rivelavano poco a poco, stese come panni ad asciugare. Spesso vedevo materializzarsi volti a me familiari, i paesaggi dei nostri luoghi, schiere di alberi e di onde. Quando le foto erano scattate durante occasioni speciali, diventavano vere e proprie sequenze di racconti. Mio zio ha creato così molti dei miei ricordi e ha nutrito il mio interesse per l’arte fotografica e per chi ne fatto la sua storia.
Come Helmut Newton, che nella sua camera oscura diede vita a una rivoluzione.
Non appena metto piede nell’omonima Fondazione, nel quartiere di Schöneberg, sud-ovest di Berlino, mi accorgo che, alle spalle del desk, dove sono in fila per comprare il biglietto, c’è una scalinata vestita di rosso, sovrastata da alcuni dei famosi Big Nudes di Newton, gigantografie di modelle statuarie, nude e bellissime. È il sovvertimento del linguaggio della fotografia di moda: indossare il nudo. Mi mette un po’ di soggezione.
Superata la scalinata, entro nell’universo di Sumo, l’opera pubblicata nel 1999 dalla casa editrice Taschen, che contiene più di 400 scatti del fotografo berlinese. Si tratta della seconda edizione della mostra, a dieci anni dalla prima e a vent’anni dall’uscita del libro. Un libro di scatti per riviste di moda, i già citati Big Nudes e i ritratti di attori e artisti famosi, che mi preparo a sfogliare sulle pareti. Si dice che il soggetto di un’opera sia l’artista stesso, pertanto più che una raccolta fotografica, mi aspetto una vera e propria autobiografia. Sono lì per spiare il grande voyeur.
C’è troppa luce. Per vedere le foto più in alto devo allontanarmi un po’, non solo perché non supero il metro e sessanta, ma anche per il fastidioso riflesso che abbaglia il vetro delle cornici. Me ne faccio una ragione e indietreggio. La partenza non è delle migliori, anche perché manca un elemento che per me è fondamentale: il silenzio. Le parole, al cospetto dell’arte, devono essere sussurrate. Invece, c’è una coppia che litiga in russo per quella che non sembra sia una disputa intellettuale. Sono stupita e un po’ delusa, mi aspetto che qualcuno dei dipendenti del museo intervenga, anche soltanto con uno “shhh” di richiamo. E invece no, il siparietto sembra innervosire solo me. Per fortuna, i due vanno via dopo qualche minuto.
Nel frattempo, dai muri, le immagini mi guardano. Una modella in divisa da poliziotta fissa la camera attraverso grandi occhiali da sole. Si trova in strada. Le braccia le scivolano lungo i fianchi, a pochi millimetri dalla fondina della pistola e dal manganello. Le labbra serrate sembrano suggerire che abbia uno sguardo duro. La stessa donna è ritratta in una foto appesa accanto alla prima: questa volta non ha i pantaloni, non ha nemmeno le mutande. Svestita dalla vita alle caviglie. Stesse scarpe, stesso cappello, stessa camicia, stessi occhiali. E stesse armi. Nonostante l’espressione del viso sembri invariata, mi chiedo se sia cambiato qualcosa dietro le lenti, se la donna abbia avvertito un peso o un senso di leggerezza nello scatto semi-nudo. Mi fermo a riflettere sull’idea che non sia facile spogliarsi totalmente di una divisa, di un ruolo, ma interrompo il pensiero prima di cedere alla tentazione di indugiarvi, consapevole di essermi avvicinata a un limite pericoloso: quello che separa il sentire l’arte dal volerla a tutti i costi capire.
Un uomo sulla sessantina lancia sguardi alle modelle nude e ridacchia. Non posso fare a meno di roteare gli occhi e mi dico che non ho fretta, prima o poi andrà via anche lui. Ma all’ennesima risatina decido di guardare in faccia il disturbatore. Lo colgo in flagrante durante un ghigno e mi rendo conto che non è come credevo: sono urla di gioia mal trattenute. Mi viene da sorridere e comincio anche un po’ a invidiare quella strana versione della Sindrome di Stendhal.
Finalmente, ho il silenzio che aspettavo. Ne approfitto per tornare indietro e godere senza distrazioni di alcuni scatti già visti. Mi ripresento al cospetto del ritratto di David Bowie. Penso alla sua foto stesa ad asciugare nella camera oscura e poi in mano all’autore, che la contempla e la analizza. Questa immagine mi riporta a un’altra immagine, adocchiata sulla parete della stanza attigua.
In fila, accanto a scatti più celebri, che mi pare di conoscere da tempo, forse notati su qualche rivista o in un documentario, ritrovo l’opera che aveva catturato per prima la mia attenzione. Si tratta di una foto a colori, o meglio, di una foto a colori dentro una foto a colori. E’ il ritratto di una donna, molto bella, la pelle candida e i lunghi capelli scuri. Lo sguardo è languido, le labbra rosse espirano sensualità. L’immagine stampata è tenuta stretta dalla mano di un’altra donna, dalle unghie rosse simili ad artigli, e di cui non si vedono altre parti del corpo. L’altra mano è chiusa con forza attorno a un sigaro acceso, con cui sta trapassando il collo della musa del ritratto. “Nelle mie foto – dichiarava Newton – non c’è emozione. È tutto freddo, volutamente freddo”. Eppure, non posso fare a meno di immaginare che la donna, che brucia la foto trafiggendola, abbia uno sguardo pregno di odio e la bocca piegata in un sorriso compiaciuto. E immagino lo stesso sguardo e lo stesso sorriso dietro l’obiettivo.
Prima di visitare anche la collezione privata del fotografo e della moglie June e la mostra Three Boys From Pasadena, dedicata ai suoi assistenti, decido di sedermi. La luce che entra dalle finestre è più forte: sono quasi le due di pomeriggio e fuori ci sono 32 gradi senza nuvole. Dal centro della sala, mi godo la temperatura fresca del museo e guardo l’insieme di immagini, un ordinato vortice in bianco e nero con picchi di colore acceso: il verde di una tenda in una stanza d’albergo, il viola di un copripiumino e il blu di una piscina. In realtà, quello che sto guardando in quel vortice è la provocazione di Helmut: donne forti, sensuali, in bilico tra eleganza e volgarità. Quello che sto guardando è una rivoluzione.
Domenica Morabito nasce nel 1983 ai piedi dell’Aspromonte, con vista sul mare.
A 18 anni lascia la Calabria per Roma, con una breve incursione in Spagna, a cui rimane legata. Vive a Berlino da due anni.
Ha lavorato come collaboratrice giornalistica, cameriera, editor e operatrice di customer service. Sta ancora inseguendo il sogno di una vita: diventare una strega.
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