“Che cos’è quella specie di bandiera norvegese con i colori tedeschi che usano quelli di Pegida?” si domanda uno user su un forum online. I tedeschi che sanno rispondere con precisione alla domanda non sono tanti. Da almeno un paio d’anni, la bandiera compare alla testa dei cortei del movimento della nuova destra populista tedesca, i Patriottici Europei Contro l’Islamizzazione dell’Occidente (Patriotische Europäer gegen die Islamisierung des Abendlandes – Pegida).
Il design è quello di diverse bandiere scandinave: croce nordica nera con contorno dorato, su campo rosso. Una combinazione che, quindi, riprende i tre colori tedeschi.
Il fatto, però, è che l’uomo che inventò quella bandiera lo fece mentre partecipava a un piano per assassinare Adolf Hitler e, quando l’attentato non riuscì, il Führer lo fece impiccare con un fil di ferro. La Wirmer Flagge, questo il nome della bandiera, non sembra quindi il simbolo più indicato per una realtà in odore di estrema destra come Pegida, le cui relazioni con la galassia neonazista e post-nazista sono decisamente permeabili e spesso più che amichevoli.
La scelta della bandiera, tuttavia, ci dice molto sul tentativo di rebranding della nuova destra radicale tedesca, sempre più impegnata nello sviluppare un’immagine pubblica che sia finalmente libera dall’insostenibile peso della svastica.
Storia di una bandiera e di una rivolta fallita
La Wirmer Flagge porta il nome di Josef Wirmer, militante antinazista che partecipò alla congiura anti-hitleriana del 20 luglio 1944, quando il Conte Claus von Stauffenberg fu l’esecutore materiale di un piano di eliminazione del Führer. Wirmer era un giurista d’ispirazione cattolica e democratica e, in caso di successo del colpo di stato, sarebbe dovuto diventare il Ministro della Giustizia della nuova Germania liberata dal nazionalsocialismo.
Durante la preparazione del putsch, Wirmer creò anche quella che dovrà essere la nuova bandiera tedesca: la Wirmer Flagge. Ispirato dalla propria fede cattolica, con la scelta della croce nordica, Wirmer volle esplicitamente contrastare e superare l’imperante svastica, simbolo assoluto del regime hitleriano. L’ispirazione religiosa dei ribelli e dei congiurati del 20 luglio 1944, del resto, rimane uno degli aspetti fondamentali della nascita di un antinazismo conservatore, sviluppatosi all’interno delle istituzioni e dello stesso esercito tedesco, più su basi di indignazione morale che di militanza politica.
Come tanti sanno, però, per via di una mera coincidenza, la bomba che il colonnello von Stauffenberg piazzò nella Wolfsschanze, a pochi metri da Hitler, non uccise il bersaglio più importante. Il Führer rimase quasi incolume e, dopo poche ore di confusione nel paese, riprese le redini del potere. Il progetto dei dissidenti di abbattere il regime, e contrattare subito la pace con gli Alleati, fallì completamente. La repressione che seguì fu sanguinosa, coinvolgendo più di 5000 persone: oltre a centinaia di condanne a morte, si arrivò anche ad arrestare le famiglie dei congiurati, alcune delle quali furono internate nei campi di concentramento.
Claus von Stauffenberg venne fucilato poche ore dopo l’attentato, non prima di aver urlato ancora una volta “Viva la Germania Libera” contro il plotone di esecuzione.
Josef Wirmer, invece, venne arrestato e processato a Berlino, finendo di fronte al famigerato Roland Freisler, vero e proprio giudice-boia dello Stato Nazista. Per volere dello stesso Führer, il processo ai congiurati venne filmato, anche se le riprese furono distribuite unicamente a una ristretta cerchia di fedeli al regime, con scopi di propaganda interna.
Malgrado la tecnica del giudice Freisler fosse quella di non far parlare gli imputati, umiliandoli e insultandoli di fronte al pubblico di militari, Wirmer si fece valere più volte. Le parti in cui il giurista tenne testa al suo aguzzino furono immediatamente rimosse dalle riprese, ma sono oggi note grazie alle testimonianze dirette di chi era presente al processo.
In questo video originale della versione del regime, Josef Wirmer compare al minuto 9.11: lo vediamo discutere con Freisler, che cerca di denigrarlo, insistendo sul fatto che il giurista dissidente non avesse svolto il servizio militare.
Era l’8 settembre 1944. Due ore dopo aver lasciato il banco degli imputati, Josef Wirmer venne impiccato, assieme ad altri cinque congiurati, nella prigione berlinese di Plötzensee. L’uso di un cappio di fil di ferro fu stabilito per far soffrire maggiormente i condannati.
Tra le parti del dialogo che i nazisti rimossero dal video, è spesso riportata quella in cui, dopo che il giudice Freisler disse all’imputato che sarebbe “presto finito all’inferno”, Wirmer rispose:
“Signor Presidente, mi compiaccio del fatto che lei mi seguirà a breve”
“Es wird mir ein Vergnügen sein, wenn Sie bald nachkommen, Herr Präsident.“
Che sia finito o meno all’inferno, Roland Freisler morì cinque mesi dopo Wirmer, nei pressi dello stesso tribunale di Berlino, sotto le bombe di un violento attacco dell’aviazione americana.
La Wirmer Flagge: da potenziale bandiera nazionale all’oblio
La bandiera di Wirmer non venne immediatamente abbandonata con la morte del suo creatore. Nel 1948, infatti, i cristiano-democratici della CDU suggeriscono un’elaborazione della Wirmer Flagge come bandiera nazionale della nuova Germania dell’Ovest. L’idea arriva direttamente dal fratello di Wirmer, Ernst, membro del nuovo Parlamentarischer Rat. La proposta finale si orienterà su uno scambio delle posizioni dei colori nero e oro, oltre che su una croce dalla forma meno scandinava e più simile alla croce prussiana.
La proposta della destra democratica, tuttavia, non avrà successo. Il convegno di Herrenchiemsee, in cui viene fondata la struttura istituzionale e costituzionale della neonata Repubblica Federale Tedesca, decide anche che la nuova bandiera debba riprendere direttamente forme e disegno di quella della vecchia Repubblica di Weimar.
La croce di Wirmer, quindi, diventerà sempre meno rilevante nel tempo, pur venendo utilizzata per un altro ventennio, come simbolo dai cristiano-democratici. Un esempio è questo santino elettorale risalente al 1953, dove la croce compare sotto all’aquila, nei suoi colori originali.
L’appropriazione della Wirmer Flagge da parte dell’estrema destra
Non è chiaro quale dei gruppuscoli della galassia della destra identitaria abbia iniziato, a partire dal 2010, a utilizzare la bandiera di Wirmer nei propri cortei. Più chiaro è l’intento di questa scelta, poco importa se effettuata su basi meramente istintive o con scopi apertamente strategici.
L’obiettivo principale dell’uso della Wirmer Flagge da parte della destra radicale, infatti, è quello di appropriarsi di un’identità che sia conservatrice, cristiana e nazionale, riuscendo però, allo stesso tempo, ad aggirare l’ineliminabile questione della colpa del Terzo Reich. Una colpa che, com’è facile capire, non permette nessun tipo di elaborazione che non passi per il contrasto, la negazione, il rifiuto o, appunto, la rimozione simbolica.
Per decenni, nella politica tedesca, alla destra dei cristiano-democratici c’è sempre e solo stata l’irrilevanza politica. Il partito post-nazista NPD ha avuto, nel corso degli ultimi 50 anni, alcuni exploit elettorali, ma la discendenza diretta dal nazionalsocialismo l’ha sempre inchiodato all’assoluta emarginazione sociale, da cui non è mai stato capace di uscire.
Oggi, trovare un’identità di destra nazionalista che si sganci dal fardello del nazismo, è la sola possibilità che una destra populista tedesca abbia per affermarsi come movimento socialmente rilevante.
In questo scenario, e con questa formula comunicativa, stanno evolvendo realtà come Pegida, che è la più nota tra una serie di gruppi neo-identitari, capaci di inserirsi nelle complesse dinamiche degli attuali contrasti etnico-sociali in Europa.
Nata in nome del rifiuto del fondamentalismo islamico e della cosiddetta “islamizzazione della Germania”, Pegida si è presentata, fin da subito, rifacendosi a un tipico paradigma populista: il rifiuto formale dei convenzionali estremismi ideologici.
Il logo principale di Pegida rappresenta un omino stilizzato, che getta nella spazzatura la bandiera dell’Isis, quella del PKK curdo, il logo degli Antifa tedeschi e, anche, una svastica nazista.
Pegida è certamente distante dall’Isis, almeno nelle immediate fondamenta culturali, anche se potrebbe trovarsi paradossalmente d’accordo con lo Stato Islamico sul fatto che il solo Islam reale possa essere quello fondamentalista e terrorista.
Fa, invece, una certa impressione che nella stessa spazzatura dello Stato Islamico finisca anche il PKK, gruppo politico per anni inserito da molti stati europei nelle liste delle organizzazioni terroristiche, ma che, oggi, è una delle realtà che stanno combattendo proprio l’Isis in Medio Oriente.
La presenza del simbolo Antifa, invece, rispecchia quello che è uno scontro costante, e per certi versi quasi rituale nella presenza sul territorio, tra Pegida e la sinistra radicale tedesca.
Ovviamente, però, è nel momento in cui l’omino-Pegida getta nel cestino la svastica che viene messo in atto, essenzialmente, il tentativo di posizionamento post-ideologico del movimento populista tedesco. Ma, in questo caso, l’operazione è potentemente strumentale: Pegida non sarà forse direttamente nazionalsocialista, ma non ha mai buttato nella spazzatura nessuna svastica.
Le partecipazioni di estremisti di destra alle marce di Pegida sono costanti, così come non mancano gli interventi di esponenti negazionisti e apertamente neonazisti durante i rally vicini al movimento. I rapporti con la destra post-nazista sono continui, soprattutto su base locale. Nel 2015, del resto, una parte minoritaria della stessa Pegida si è scissa dall’organizzazione, per dissociarsi da quella che è stata definita come una deriva verso l’estrema desta.
Anton Wirmer: “Non usate la bandiera di mio padre”
Contro l’uso della Wirmer Flagge da parte di Pegida si è anche espresso, già lo scorso anno, uno dei figli di Josef Wirmer. Dopo mesi in cui la bandiera sventolava nei cortei del movimento, il settimanale Der Spiegel ha chiesto ad Anton Wirmer cosa pensasse di questo inaspettato revival di un simbolo così legato alla sua famiglia. L’uomo, che aveva quattro anni quando il padre fu impiccato, ha risposto esprimendo tutta la propria indignazione e aggiungendo che:
“La bandiera di Wirmer non rappresenta un concetto astratto e vago di resistenza, ma soprattutto una società libera e tollerante.”
Le parole di Anton Wirmer sottolineano un dettaglio importante: quello che sta avvenendo alla Wirmer Flagge è, volendo utilizzare un linguaggio del marketing, una sorta di renaming finalizzato al rebranding. Chiamare la bandiera di Wirmer con il semplice nome di “Bandiera della Resistenza Tedesca”, omettendo il dettaglio della natura antinazista dello specifico emblema, è, come già detto, funzionale a una destra radicale alla ricerca di un nuovo brand. Un brand che sia, formalmente e superficialmente, depurato dai rapporti culturali con l’ideologia nazista (tanto quella del 1944, quanto quella del 2016).
La semplice “Bandiera della Resistenza Tedesca” diventa così un simbolo di vaga e non vincolante “Resistenza Nazionale”, poco importa se contro l’islamismo radicale, contro tutti gli immigrati, contro il Governo tedesco, contro il sud d’Europa o contro chiunque altro potrà venire in mente, magari tra qualche anno. In un attimo, il simbolo antinazista è svuotato della sua valenza morale: la fede essenziale alla base della bandiera viene ritenuta irrilevante, velocemente trascurabile, intercambiabile e, in ultima analisi, capovolgibile.
Rebranding post-nazista
Se, oggi, osserviamo le vendite online della Wirmer Flagge, non possiamo solo vedere che l’offerta sembra soddisfare una domanda non trascurabile, ma anche come la questione della denominazione della bandiera sia davvero significativa e cruciale.
Se tanti rivenditori online, ad esempio su Amazon, chiamano la Wirmer Flagge con il suo nome, “Bandiera della Resistenza Tedesca – 20 luglio 1944” o “Bandiera della Resistenza Tedesca di Stauffenberg”, altri distributori vendono già la bandiera con la vaga denominazione di “Bandiera della Resistenza Tedesca” (“Flagge der Deutscher Widerstand”), eliminando l’identità fondamentale della Wirmer Flagge e seguendo le necessità di adeguarsi al più ampio e generico target di mercato.
Piaccia o meno, però, la bandiera di Wirmer è stata creata da un uomo assassinato perché voleva far saltare in aria Adolf Hitler e tutto il suo Stato Maggiore. Piaccia o meno, conta sempre moltissimo per cosa una donna o un uomo scelgano di lottare. E per Josef Wirmer, religioso, eretico, moderato ma ribelle, le motivazioni della lotta erano incredibilmente chiare, tanto da fargli mantenere una rara lucidità, fino alle ultime ore della sua vita. Dalle testimonianze su quell’8 settembre 1944, infatti, emerge che, al giudice nazista che aveva appena proclamato la sua condanna a morte, Wirmer rispose testualmente:
“Quando sarò impiccato, non sarò io ad avere paura, ma Lei.”
“Wenn ich hänge, habe nicht ich Angst, sondern Sie.”
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