C’è questo quartiere di Roma che suona familiare a molti ma che in pochi conoscono davvero. Si chiama Torpignattara, per la gente del posto Torpigna. Il nome deriva dal modo gergale di chiamare le anfore, “pignatte”, che decorano il mausoleo di Elena, madre dell’imperatore Costantino, che risale al quarto secolo dopo cristo e i cui resti si stagliano ancora su Via Casilina, a segnare il confine orientale del quartiere. La toponomastica tuttavia è un sapere riservato a pochi curiosi, per tutti gli altri il nome Torpignattara evoca grosso modo il folklore di una gretta periferia, qualcosa di romanaccio e sgangherato, come il rumore di una finestra rotta in una notte di vento.
Il trenino della Casilina, il tram urbano che da Termini arriva a Centocelle fendendo a metà il cuore di Torpignattara, non è un semplice treno, non è nemmeno solo un tram, e non si può ridurre neanche alla fredda categoria di “trasporto pubblico”.
Quello che ufficialmente si chiama Ferrovia a scartamento ridotto Roma-Giardinetti, e che molti romani riconoscono come “er trenino dell’indiani”, è un emblema della periferia del mondo, dello sviluppo metropolitano, di una contemporaneità promessa e mai realmente avvenuta.
Negli anni sessanta veniva chiamato lo “Spaccateste” o “Ammazzacristiani”, era il treno lento e dal sentiero tortuoso che da stazione Termini portava fino a fuori Roma, nelle province orientali della Ciociaria. Così chi abitava nelle campagne tra Roma e Frosinone lo usava per raggiungere l’urbe e tornare a casa, i romani ci salivano per andare a mangiare nelle osterie fuori porta nelle domeniche estive, mentre chi abitava in centro raggiungeva stazione termini e poi si imbarcava sullo Spaccateste per raggiungere una nonna, uno zio o un parente che abitava al Pigneto o a Centocelle. Il trenino, emblema del trasporto pubblico a Roma, è sempre stato un mezzo per poveri, sovraffollato e mal funzionante, oggi che la sua traiettoria è ridotta dentro i margini del raccordo anulare e che i convogli sono rimasti gli stessi di trent’anni fa, esprime nettamente una connotazione di classe. Da Termini a Centocelle, stipati dentro mezzi arrugginiti e stridenti, ci salgono i migranti che lavorano, gli studenti che tornano negli appartamenti condivisi a prezzi bassi e gli anziani che non hanno nessuno che li accompagni in auto. Il trenino ovviamente è anche luogo di attraversamento di eccentrica marginalità sociale: musicisti di strada, zingari felici, attori falliti che parlano da soli.
Francesco Pompeo nel suo lavoro etnografico sul Pigneto descrive il trenino della Casilina come “oggetto della memoria personale e cittadina, è oggi al contempo intimo ed estraneo, familiare e cosmopolita”.
Il mezzo che conduce a Torpignattara è un po’ anche l’anima del quartiere, lo spirito su rotaie che lo anticipa e lo supera per raccontare una storia più grande. Quando si sale al capolinea è come essere già a Torpignattara e allo stesso tempo in tanti altri posti del mondo, compresa la U7 di Berlino, città in cui risiedo da diversi anni. Le persone intorno a me cercano aria dai finestrini abbassati, ovviamente non c’è l’aria condizionata, e si guardano intorno accaldate senza neanche la forza di essere ostili o di stare con gli occhi sul monitor del cellulare. Il trenino si muove verso Porta Maggiore e poi Via Casilina con un lento cigolio, le sue lamiere sottili, bianche e gialle, catapultano in un viaggio nel tempo, sugli ingranaggi di un giocattolo dimenticato.
Torpignattara la conosco abbastanza bene, ci ho vissuto per un anno, abitavo sulla stessa via dove un uomo cinese e la sua bimba di pochi mesi vennero freddati da alcuni colpi di pistola nel corso di una rapina, qualche anno fa. Dai giornali in quei giorni emergevano due cose, che nel quartiere c’erano troppi cinesi e che ormai a Torpignattara era il Far West. Eppure non basta averci vissuto, conoscere, informarsi, ricordare. Per fotografare l’anima mutevole e sfuggente di un quartiere bisogna tornare, sempre. E cosi mi ritrovo in una domenica calda ai Laziali, nelle retrovie della stazione Termini, scendendo verso sud dove si costeggia Piazza Vittorio.
Parte della fama negativa di Torpignattara è semplicemente contenuta nella parola Torre. Chi ha frequentato Roma anche per poco tempo, sicuramente sa che di solito quando si tratta di Torri si va a finire sempre lontano, ai capolinea degli autobus, tra i palazzoni come alveari e le sopraelevate per gli svincoli autostradali. Le “Torri” sono nel senso comune anche la pancia sempre gravida della piccola criminalità capitolina: Tor Bella Monaca, Torre Maura, Tor Sapienza, Tor Di Quinto.
La Torpignattara distrattamente immaginata dai più, prende le sembianze da questo stereotipo di periferia romana e viene attualizzata dai numerosi articoli, servizi e inchieste che negli ultimi quindici anni sono stati prodotti su fatti di cronaca che coinvolgono il quartiere. Da un po’ di anni infatti Torpignattara compare sui media come il quartiere più multiculturale di Roma, la bomba a orologeria dell’integrazione fallita, il covo del terrorismo islamico e la perla del degrado. Tra le immagini delle borgate pasoliniane e le ronde anti-immigrato organizzate dai partiti xenofobi, si colloca da qualche parte lei, Torpigna, nei meandri della fantasia collettiva.
Torpignattara è difficile da raccontare. C’è sempre qualcosa di lei che trovi altrove e c’è sempre qualcosa in lei che parla d’altro. Molti dicono sia un quartiere di frontiera, ma il concetto di frontiera spinge a immaginare una linea, uno spazio in cui qualcosa finisce e qualcos’altro inizia, mentre a Torpignattara ci si sente più che altro confusi, sempre sia dentro che fuori le categorie del pensiero. Forse più che a una frontiera assomiglia a una spugna. Uno spazio ruvido, irregolare e poroso, che assorbe e rilascia allo stesso tempo.
Torpignattara si espande ai due lati della Via Casilina, dopo il Pigneto e prima di Centocelle. Venendo da Porta Maggiore, dove le casette basse del Pigneto da un lato e la sagoma dell’acquedotto del Mandrione dall’altro cominciano a sparire, si capisce di essere entrati nel quartiere. Via Filarete delimita il quadrante nord orientale arrampicandosi fino alla Certosa, piccolo altipiano limitrofo di Torpignattara che la sovrastata con un parco giochi e da Villa La Favorita, oggi adibita a convento di suore di Madre Teresa.
Alla fermata Filarete scendo, attraverso la strada e mi ritrovo all’incrocio tra Via Casilina e Via Filarete, al parcheggio di un supermarket.
Questo di Via Filarete non è un supermercato come gli altri, è uno dei primi che la Carrefour ha sperimentato a Roma con l’orario continuato. Sospinta dall’afa mi viene spontaneo entrarci per trovare rifugio anche se non devo comprare nulla. Cammino tra gli scaffali, faccio un giro dei banchi, ci lavorano molte persone. Vicino ai banchi frigo ci sono un uomo e una donna in divisa che stanno riempendo degli scaffali. Li saluto e chiedo informazioni sull’azienda per cui lavorano e sull’esperimento delle 24h. Mi dicono che il supermercato funziona, di notte lavorano poco ma comunque lavorano.
“Certo, c’è una clientela un po’ particolare” aggiunge lei. Gli chiedo se oltre a lavorare nel quartiere ci abitano.
“No, grazie a dio.” risponde la donna, mentre lui mi scruta diffidente senza parlare.
“Io sto a Cinecittà, mi trovo bene là”. Continua lei.
Li ringrazio ed esco ad affrontare di nuovo la calura che trasuda dall’asfalto.
Fuori dal supermercato siede, uno accanto all’altra in silenzio ad un tavolino con sedie di plastica, una coppia di anziani. Non sembra che stiano aspettando qualcuno o qualcosa, sono semplicemente seduti all’ombra e osservano la Casilina. Mi siedo al tavolo accanto con l’idea di attaccare bottone.
Inizio a parlare ed è la signora rispondermi, il marito ha problemi di udito e ogni tanto si avvicina con la testa alla sua spalla e le grida “che sta dicendo?”
“Niente niente, stamo a chiaccherà” lo liquida lei, che infatti ha voglia di parlare e così racconta.
È di origine toscana ma vive a Torpignattara da quando è bambina.
“Il quartiere è quello che è, ma un tempo era meglio, la chiamavano i Parioli di Roma sud, per le palazzine signorili costruite con il boom economico. Adesso è tutto diverso, il quartiere è abbandonato a se stesso e la gente è diversa, comunque è abbastanza ben servito, e poi Don Claudio della Chiesa di San Barnaba organizza delle attività, come la raccolta dei vestiti per i poveri”.
Le faccio notare che è strano che il quartiere sia abbandonato a se stesso, perché geograficamente parlando è molto vicino al centro.
“Torpigna è strana” mi dice “quando devi pagare le tasse sulla casa diventa zona semi-centrale, quando c’è da mettere l’immobile in vendita ti dicono che vale poco perché sta in periferia.”
In una sola frase la signora racchiude uno dei grandi dilemmi del quartiere: centro o periferia?
Torpignattara probabilmente si colloca nella metà esatta delle due categorie e come una spugna prende da una parte e dall’altra. È il quartiere più centrale del quinto municipio, si colloca a soli cinque chilometri dal Colosseo. Purtroppo, come mi fa notare la signora, la nuova linea della metro, finalmente inaugurata dopo decenni di lavori, non ci arriva. Il Bus 81 che arrivava vicino al quartiere, a piazza Malatesta, non è più in funzione, il Bus 105 passa poco, quindi l’unico vero collegamento di Torpignattara con il resto della città è il trenino che porta allo snodo di Termini.
Eppure è vicinissima a Porta Maggiore e attaccata al Pigneto, zona che negli ultimi anni ha subito una gentrificazione “alla romana”; dopo i primi atelier di artisti e bar alternativi, è stata portata a termine a colpi di speculazione edilizia, licenze per i locali date senza criterio, chiusura degli spazi autogestiti e militarizzazione in presunta funzione anti-degrado. Oggi nell’isola pedonale del Pigneto, a margine della schiera di barettini, si trova quasi sempre una camionetta della Polizia o dell’Esercito, con buona pace del fascino bohémien del quartiere. Ma questa è un’altra storia.
All’estremità opposta di Torpignattara invece, continuando su Via Casilina, la città si apre, da una parte c’è l’immensa zona verde del Parco archeologico di Centocelle di cui solo una piccola zona è accessibile e che versa di fatto in stato di abbandono, dall’altra c’è l’estremità orientale di Centocelle, dove il vivace quartiere va a diradarsi e dove spiccano tra i campi, come un innesto di fantascienza, i palazzoni del Casalino 23.
Torpignattara tra centro e periferia, ma non basta. La chiaccherata con gli anziani signori sta andando per le lunghe, lei è contenta di parlare e il marito ci guarda ancora in attesa di sapere chi sono e cosa stiamo dicendo.
Lei srotola una lista di pro e contro sul quartiere senza sbilanciarsi troppo, ma lasciando intendere. Il momento di massimo orgoglio lo raggiunge quando, sicura di colpirmi, dice “ma lo sa che qui c’abbiamo pure tanti murales”. Ridiamo entrambe, lo sapevo ma sentirlo dire da lei mi rallegra.
Da diversi anni a Torpignattara una virtuosa sinergia tra artisti, comitato di quartiere e proprietari di immobili ha prodotto la comparsa di grandi murales in diversi punti del quartiere, ad opera di artisti italiani ed internazionali, che vanno a colorare gli edifici spesso un po’ incartapecoriti della zona e che soprattutto provano ad aprire un dialogo con il passato e il presente del quartiere. Come quelli che raffigurano Pasolini e Anna Magnani in Via di Acqua Bullicante, oppure sempre sulla stessa strada quelli raffiguranti un uomo e una donna cinesi, un uomo del Bangladesh e una famiglia italiana, o come la gigantografia di una bambina che tiene tra le mani i suoi cari su Via Capua. Su Via di Tor Pignattara invece, un’intera palazzina dipinta dall’artista peruviano Carlos Atoche, raffigura un uomo in posa riflessiva dentro la cornice di un fondale marino.
Mi alzo e saluto i due anziani, con un lieve senso di colpa nel lasciarli così sospesi a fissare lo sporadico traffico domenicale nell’ombra del parcheggio del Carrefour.
Mi ricordo che quando vivevo qui la frase risuonava come un mantra tra i vecchi con la camicia inamidata del bar sotto casa: “il quartiere è cambiato”. Il quartiere cambia. E non smette di cambiare.
Il 18 Luglio del 1927 un decreto amministrativo sposta la cinta daziaria urbana oltre la Via dell’Aeroporto di Centocelle, ricomprendendo l’esiguo insieme di vie intorno a piazza della Marranella, nucleo originario di Torpignattara.
In Via della Marranella, nei primi del novecento, la presenza di un arrangiato ufficio postale e di un fosso, piccolo affluente in emersione del Tevere usato come abbeveratoio per i cavalli, crea un polo di attrazione importante per chi abitava l’esteso agro romano, la campagna. Le prime casupole e botteghe di artigianato iniziano a sorgere tutt’intorno, mano mano migliorate e rinsaldate fino a comporre un vero e proprio quartiere. Il processo di urbanizzazione di Torpignattara viene sostanziato fin da subito dal flusso migratorio, migliaia di persone spinte dalla povertà e alla ricerca di una vita migliore approdano dal sud Italia. In una conversazione con il giornalista Giuliano Santoro, autore del libro Al palo della morte, emerge che Torpignattara non è mai stata una zona di autoctoni. Lo sviluppo urbano ed economico del quartiere si è dato sulla spinta dell’immigrazione interna. Pugliesi, siciliani e calabresi in cerca di fortuna hanno messo in piedi prima delle baracche e botteghe di fortuna e poi, con il passare degli anni, delle casette e dei negozi. In quel quadrante di Roma erano attive dagli anni del fascismo anche alcune fabbriche dove molta di questa nuova manodopera migrante veniva impiegata, come la Pantanella e la Snia Viscosa, progressivamente abbandonate dopo gli anni cinquanta.
Durante la seconda guerra mondiale Torpigna fu quartiere della Resistenza, la sua posizione di frontiera, vicina al centro ma fuori dal radar dei rastrellamenti nazifascisti, e in collegamento con le direttrici statali su cui da sud arrivavano le truppe alleate, la rese una zona appetibile per molti partigiani che vi trovarono sostegno e rifugio, come racconta il libro Tor Pignattara. Fascismo e resistenza di un quartiere romano di Stefania Ficacci.
Questo elemento, unito alla composizione immigrata ed operaia, ha conferito al quartiere la reputazione di zona rossa, anche se oggi Torpignattara, soprattutto dal punto di vista politico, potrebbe dirsi multicolore. Negli anni sessanta ebbe il suo momento di massima fioritura, il benessere economico si tramutò nella riqualificazione edilizia della zona, e Via di Tor Pignattara, grazie ai piccoli medi negozi degli immigrati ormai di seconda generazione, divenne la via dello shopping più importante del quadrante di Roma sud-est.
Questa breve parentesi di prosperità commerciale è il luogo della memoria dove si nutrono i ricordi idilliaci del quartiere, quando nella frustrazione di un presente incomprensibile ci si rifugia nel rimpianto. “Torpigna non è più quella di un tempo” dicono gli over sessanta, pensando a un quartiere forse mai esistito veramente oppure ad una fase della propria vita che si vuole ricordare come felice. Già negli anni ottanta il quartiere subì una forte battuta d’arresto in termini economici e sociali. La proliferazione di negozi ed aree commerciali concentrate in altre zone di Roma causò la chiusura di molti piccoli esercizi della zona. La presenza di un’armeria a Via della Maranella e il fatto che ci abitasse un componente della Banda della Magliana, rendevano quelle vie quasi inaccessibili per le persone normali o per chi veniva da fuori. Il Pigneto e Torpignattara, negli anni settanta e ottanta, erano zone fortemente colpite dai ricatti della malavita romana e dall’arrivo nelle strade dell’eroina. Santoro, che arrivò per la prima volta nel quartiere nei primi novanta proprio mentre stava per cominciare il flusso, in particolare dall’Asia, che ha forgiato l’odierna reputazione multietnica della zona, racconta di un quartiere buio, in cui alle nove di sera era tutto spento, quando usciva da casa di amici verso le undici e andava alla fermata dell’autobus si guardava spesso indietro, con un senso se non di paura, quantomeno di allerta.
Oggi Torpignattara è uno dei quartieri più densamente popolati di Roma. Cinquantamila abitanti su un’estensione di circa tre chilometri quadrati. Quasi il 20% dei residenti è di origine straniera e di questi quasi la metà proviene dall’Asia, in particolare dal Bangladesh, dall’India e dalla Cina. Oggi si può essere critici su molti aspetti, ma di sicuro Torpignattara è una delle zone più vivaci della capitale.
I piccoli alimentari gestiti da bengalesi, e per questo chiamati dai romani “i bangla”, rimangono aperti fino a tardi, insieme ai kebabbari gestiti da egiziani. Alcuni ristoranti e locali notturni hanno aperto in zona sulla scia della gentrificazione del Pigneto, anche se di fatto la vera gentrificazione, qui a Torpignattara, ancora la stanno aspettando.
Durante il giorno una miriade di piccole attività commerciali, alimentari, bar e banchetti ambulanti, rendono il quartiere affollato e brulicante come una piccola Babilonia.
Dopo la grande ritirata dei capitali negli ottanta e fino ai primi novanta, i proprietari di attività commerciali fallite le hanno cedute di corsa ai primi offerenti, e i proprietari di case le hanno affittate a prezzi maggiorati a migranti disperati, chiudendo un occhio sul sovraffollamento al fine di ottenere guadagni del tutto insperati in una zona svalutata come Torpignattara. I nuovi arrivati, proprio come quelli del ciclo precedente, hanno iniziato ad aprire attività e radicarsi nel quartiere facendolo rivivere.
Così nel 2018 Torpignattara, o Banglatown o Chinatown o Babele, si trova lì, appena fuori dal centro, con i prezzi degli immobili ancora abbordabili, con la sua vita parallela di negozi e caffè, con la varietà estetica culturale e gastronomica che caratterizza molti quartieri delle grandi città europee e nordamericane. Un posto ideale per molte mie conoscenze, ma un posto difficile per molti con cui parlo nella mia passeggiata.
Dopo essere uscita dal Carrefour salgo su Via Filarete, che dal lato destro è sormontata dal Parco di Villa Certosa, un piccolo parco in una zona poco centrale del quartiere diventato però oggetto di discussioni a causa di diversi servizi giornalistici che in una narrazione da “i ragazzi dello zoo di Torpigna” ne raccontavano lo stato di degrado dovuto alla assidua frequentazione di tossicodipendenti.
“Il parchetto delle pere” ha suscitato molta indignazione negli abitanti e nell’opinione pubblica. Ci vado per vedere la situazione attuale e trovo un posto recintato ma in alcuni punti con la recinzione divelta, l’erba alta fino alle ginocchia.
Chiedo a una coppia di sportivi con pastore tedesco al guinzaglio come è la situazione del Parco di Villa Certosa.
“Come sempre. Il proprietario, dopo l’emersione dello scandalo sulle siringhe nel prato, ha fatto recintare il parco. Dopo poco le recinzioni sono state forzate in alcuni punti, adesso il parco è molto meno frequentato ma ci si vanno comunque a fare, li vedo dal balcone di casa.”
Temo stia partendo con la solfa del quartiere che prima era bello e ora degradato e invece sorridendo aggiunge “Qui a Filarete è sempre stato così, io ci abito da quarant’anni, dicono che è tornata l’eroina ma la verità è che non se ne è mai andata”.
Dalla zona Filarete mi sposto attraverso le viette interne che si diramano intorno a Via Laparelli. C’è una piazzetta con un mercato rionale coperto ormai da anni quasi vuoto. Nel 2017 la giunta Raggi ha annunciato lo stanziamento di 4 milioni di euro per il rilancio dei mercati rionali di Roma, da anni sempre in lotta con l’aumento dei canoni e le scarse politiche di valorizzazione dei quartieri, ma i finanziamenti sono stati dirottati sui singoli municipi dopo diversi mesi, e per poterne usufruire i municipi si sarebbero dovuti adoperare di bandi pubblici da chiudere entro dicembre dello stesso anno. Questo ha creato un’empasse burocratica per la quale, nonostante i fondi stanziati, ai mercati rionali non è arrivato nulla, e basta un rapido sguardo a quello di Torpignattara per averne la certezza.
Attraversando le vie interne del lato della Casilina, che fiancheggia, ancora più a sud est, l’appio tuscolano, vedo le famose casette basse di Torpignattara, alternate a qualche palazzo alto. Questa impronta urbana scompare e riappare e la collega spiritualmente al Pigneto e al Quadraro vecchio, fatto di case a due o tre piani, terrazzini in attesa di futuri innalzamenti e vie anguste. C’è dell’altro: una scia di immondizia pressoché ininterrotta a costeggiare i marciapiedi. Non mi sorprende, è una condizione diffusa in tantissime zone di Roma che da anni vive uno stato di disservizio per quanta riguarda la gestione rifiuti, tra le continue bancarotte dell’AMA (acronimo deriva dalla precedente Azienda Municipale Ambientale che oggi ha preso la forma di una società per azioni) e il ritardo strutturale nell’adeguarsi alle norme europee sulla raccolta differenziata.
Oltretutto, a Torpignattara c’è un ulteriore fattore di peggioramento dell’igiene urbano che Claudio Gnessi, responsabile della comunicazione del Comitato di Quartiere, mi ha spiegato quando l’ho incontrato: il fatto che AMA serve tutte le piccole attività commerciali della zona come se fossero delle case private.
Andando a tarare i volumi di immondizia raccolta solo sulla base della metratura dei posti e non facendo una precisa mappatura del tipo di luogo, moltissimi piccoli bar, negozietti, ristorantini di Torpignattara, sono serviti come se fossero case private, producendo ovviamente più rifiuti del ritmo a cui vengono ritirati e creando questa perenne sensazione di abbandono da un lato e di eccedenza umana dall’altro, che danno i cassonetti perennemente strabordanti di immondizia.
Passeggiando tra murales, cassonetti e internet point arrivo da una traversa laterale, Via Ciro da Urbino, su Via di Tor Pignattara, altro centro nevralgico del quartiere.
Procedo verso l’incrocio di Via Casilina, passando davanti a negozi di vestiti in poliestere e telefonia, barbieri, ristoranti cinesi, casalinghi, fiorai, sale slot, pizzerie al taglio.
Mi avvicino ad un uomo che dai tratti classifico come cinese e provo ad attaccare bottone.
“Salve, lei abita qui nel quartiere? Questo negozio accanto è suo?” mi guarda senza astio con un sorriso che mi sembra quasi ironico.
“Come?” dice.
Ripeto la domanda, a quel punto interviene il fioraio pakistano a dirmi “Lascia stare, se vuoi parlare entra nel negozio di casalinghi.”
Seguo la sua indicazione, sperando di trovarci qualcuno di origine cinese, ma più giovane e disposto al dialogo, invece dietro alla cassa c’è un ragazzo biondo con barba curata e tatuaggi.
“Ah, ma tu sei italiano” mi lascio sfuggire entrando.
“No no, se guardi bene sono cinese” ribatte lui intuendo il malinteso. Timide risate.
Mi dice che è il nipote del proprietario, sono italianissimi e “resistono” a Torpignattara da quarant’anni. Dice che sono venuti a chiedergli di acquistare il locale ma che loro non mollano, dice che i cinesi hanno aperto ovunque e fanno troppa concorrenza, e poi i bangla aperti fino a tardi vendono da bere alle persone che si ubriacano e poi danneggiano il quartiere.
Nessuna menzione però al Carrefour aperto h24.
In ogni caso il suo parere sul quartiere rimane equilibrato.
“Non è cosi male come dicono alcuni. Il commercio che c’era un tempo non c’è più, si lavora molto meno, però nessuno si è mai azzardato a venire qui a chiedere soldi. Mio zio d’altronde è uno che conosce un po’ tutti” aggiunge con fare allusivo.
Mi spiega che il tabaccaio di fronte, anche lui italiano, è proprietario di due altri negozi che vendono le sigarette dopo le 20. Negozi che ha dato in gestione a degli indiani.
“I soldi vanno comunque a lui”, specifica. Anche secondo le informazioni del comitato di quartiere e consultando i dati accessibili sul sito di Roma capitale,a Torpignattara le attività commerciali con proprietari italiani sono non solo la maggior parte, ma addirittura in aumento. Ma le città e i quartieri sono sempre un misto di verità e di percezioni, di leggende metropolitane e chiacchiere da bar, di ricordi idealizzati e paure del futuro. Esco dal negozio di casalinghi che sembra cinese ma in realtà è italiano ed attraverso la strada entrando nel primo bar che capita. Anche qui personale italianissimo.
Al momento di pagare chiedo al signore sulla sessantina che mi sta battendo lo scontrino “lei che ne pensa di Torpigna?”
“E che devo pensà, guardi chieda a sta signora, la professoressa, lei je sa dì tutto.”
La signora, anche lei attiva nel comitato di quartiere, ha i capelli corti e un completo di lino, mi dice un po’ di cose che già sapevo e altre nuove: il picco dell’intolleranza è stato toccato nel 2014, dice, con l’omicidio razziale di un ragazzo pakistano (vicenda tema del sopracitato libro “Al palo della morte”), da allora le cose sono andate un po’ migliorando, anche se contenere le spinte xenofobe in questa fase storica risulta ancora più complesso. Torpignattara vive alcune tensioni da prima che diventassero centrali nel discorso pubblico, sono tensioni dovute alla convivenza tra mondi e culture diverse in una zona dove il ristagno economico della capitale si fa sentire, dove non ci sono politiche pubbliche di mediazione culturale e nemmeno spazi o investimenti culturali per creare momenti di incontro.
Eppure qualche giorno prima sono stata a un bellissimo festival di gastronomia organizzato alla scuola elementare Carlo Pisacane, chiamato Taste De World. Nello spiazzo assolato della scuola si disponevano a cerchio dodici banchetti con cibi tipici di diversi paesi dal mondo, compresa la cucina romana. Nella palestra c’era allestito un piccolo mercatino, nei corridoi erano esposte le foto di Ibitocho Sehounbiatu, donna, fotografa, attivista per i diritti dei lavoratori migranti, scomparsa nel 2015 e prima immigrata irregolare in Italia la cui produzione artistica sia stata esposta in spazi ufficiali (nel suo caso la prima mostra è stata allestita negli spazi della Reggia di Caserta). La situazione nei cortili della scuola della Pisacane mi è apparsa idilliaca, con genitori impegnati nella cooperazione organizzativa dell’evento, bambini di tutte le origini che si rincorrevano come in una pubblicità della Benetton e visitatori esterni interessatissimi a scoprire culture diverse.
La scuola Pisacane è dall’altro lato della Casilina, su Via di Acqua Bullicante, lo stradone che connette la Casilina con la Prenestina. Divenne famosa ai tempi del sindaco Alemanno perché un suo assessore, di fronte al caso mediatico sollevato sulla percentuale troppo alta di bambini stranieri nella scuola, aveva dichiarato che bisognava mettere i tetti massimi sui migranti nelle classi.
Tra un cous cous e un burrito, in quel pomeriggio assolato, mi è capitato di chiacchierare con una maestra della scuola e di chiederle qualche informazione.
Fino al 2004/2005, mi spiega la gentilissima insegnante, alla Pisacane c’era il 97% di alunni stranieri. Le mamme ritiravano i loro figli dalla scuola con la paura che gli stranieri potessero rallentare i ritmi dell’insegnamento, “la Pisacane era diventata un ghetto quando arrivammo noi”.
Dopo le sparate mediatiche sulla scuola è caduto di nuovo il silenzio, ma una nuova generazione di maestre, giovani e consapevoli, si sono rimboccate le maniche.
“Sapevamo bene che la diversità era un grandissima risorsa e non un limite e per questo abbiamo iniziato a organizzare incontri di pedagogia, attività culturali pomeridiane, laboratori con bambini e genitori, fuori dall’orario di lavoro e con nemmeno un euro di supporto pubblico. In pochi anni la qualità dell’offerta della Pisacane è stata notata da molte mamme italiane che hanno cominciato a iscrivere i bambini, anche come scelta politica, e hanno dato vita a un gruppo di genitori decisamente attivi. La collaborazione tra noi e loro ha dato alla luce iniziative come il festival Taste de World, momento in cui la scuola è attraversata da tutto il quartiere. Il risultato è che oggi, dieci anni dopo, i bambini italiani sono di nuovo più del 50%”. La Pisacane è il fiore all’occhiello della Torpignattara dell’integrazione e della solidarietà, ma non è l’unica cosa che si muove sotto il cielo. Associazioni come Asinitas Onlus che lavora con le donne migranti, il già citato e attivissimo Comitato di Quartiere, l’Ecomuseo del Casilino, centro culturale e storico impegnato in diverse iniziative di valorizzazione del territorio, la Piccola Orchestra di Tor Pignattara, progetto di incontro tra sonorità classiche e moderne che coinvolge i migranti di seconda generazione del quartiere, il festival Karawan, rassegna cinematografica di grande qualità di film da tutto il mondo, la cui settima edizione ha avuto luogo tra i cortili del quartiere proprio nei giorni della mia permanenza.
Qual è allora la vera identità di Torpignattara, quartiere polveriera di tensioni xenofobe dove sembra che per gli abitanti la risposta sempre valida a ogni problema sia l’attribuzione delle responsabilità al diverso e allo straniero, o modello di integrazione multietnica dal basso. Torpigna è entrambe le cose: sempre sfuggente alle definizioni e punto di osservazione privilegiato per capire una realtà più estesa. Quello che emerge con chiarezza è un grosso vuoto politico e istituzionale. Come le voragini che ogni tanto si aprono minacciose per le strade del quartiere, quella di Via dei Savorgnan l’anno scorso, o più recentemente quella in Via dell’Acquedotto Alessandrino. Così gli interventi pubblici sono dei grandi buchi neri. Tutte le iniziative di mediazione culturale, valorizzazione del territorio e intrattenimento sono intraprese e finanziate dal basso, dai cittadini che si organizzano senza ricevere il minimo sostegno.
Camminando verso l’incrocio tra Via di Tor Pignattara e la Casilina, noto che all’angolo ha aperto un grande McDonald’s, che qualche anno fa non c’era. Lievemente indignata da questa invasione del global capital fuori tempo massimo decido comunque di entrarci.
Il posto è ampio, semi automatizzato (si fa l’ordinazione sulle macchinette touch screen e poi si ritira al banco) e con molto personale tutto italiano. Mi rendo conto che il McDonald’s di Torpignattara è un posto pubblico frequentato da tutto il quartiere. Mamme indiane con i sari colorati e circondate di bimbi ridenti, famiglie italiane, adolescenti cinesi, uomini soli con le cuffie alle orecchie, ragazzi pakistani con le polo color pastello. Accanto a me c’è un ragazzo rasato e tatuatissimo, in tuta acetata. Ha tra le braccia un neonato. Fisso la sua mano e sopra c’è scritto “Non è ricco chi possiede molto ma chi necessita poco”. Il McDonald’s racchiude efficacemente l’umanità di Torpignattara in quattro mura e allo stesso tempo ne esprime la sua grande tragedia. Il filosofo Marc Augè la racconta bene, quando parla della paradossale socialità delle solitudini metropolitane in cui “non smettiamo di sfiorare la storia degli altri […] senza mai incontrarla”. Così Torpignattara, ancora una volta, ci parla della vita oltre che di se stessa.
Che il McDonald’s sia l’unico vero spazio di incontro non stupisce molto. A Torpignattara mancano strutturalmente gli spazi. Fatta eccezione per il Teatro Studio Uno, non esiste un altro teatro, un cinema o una sala concerti. Il cinema in realtà c’era, ce ne erano addirittura due nei gloriosi anni del dopoguerra, entrambi chiusi negli anni settanta. Quello principale era il Cinema Impero a Via di Acqua Bullicante. Decido di andarci, attraversando la Casilina e proseguendo verso il terzo centro nevralgico del quartiere, che è anche il primo nucleo storico, e comprende le vie intorno a Via della Marranella e il confine simbolico con il Prenestino, più o meno a metà di Via di Acqua Bullicante.
Sulla via mi ritrovo accanto a un palazzo alto, semi ristrutturato. Al primo piano i muri sono decorati da quattro riquadri che ritraggono icone di Roma: Anna Magnani, Mario Monicelli, Franco e Sergio Citti, Pier Paolo Pasolini.
Alzando lo sguardo vedo l’insegna verticale un po’ scrostata “Cinema Impero”. Il posto è stato costruito durante il fascismo e per celebrare la grandezza imperiale italiana ne è stato costruito uno identico ad Asmara, in Eritrea. Ancora una volta un pezzo di Torpignattara va cercato altrove e parla di una storia collettiva. Dopo gli anni settanta il Cinema Impero è rimasto chiuso e in stato di abbandono. Recentemente è stato occupato da gruppi e comitati di cittadini che ne chiedevano il restauro e la possibilità di accesso vista l’assenza di spazi culturali nel quartiere. Nel 2014 le richieste sembrano essere state accolte ed è stato inaugurato, dopo una ristrutturazione quasi di lusso, il nuovo Ex Cinema Impero, con la partecipazione del presidente di Municipio e dei comitati di quartiere. Passandoci davanti oggi tuttavia il posto appare chiuso. Chiedo alle persone in fila alla pizzeria accanto. Scopro che lo spazio è utilizzato da una scuola privata di recitazione, molto costosa e prestigiosa.
“Ce vengono sempre i famosi qua dentro” dice l’uomo alto e sportivo mentre ritira il cartone di pizza. Chiedo se non ci siano anche attività aperte al pubblico, attraversabili dal quartiere.
“No c’è una sala congressi che si può affittare, ma costa, l’ho fatto una volta con l’azienda mia per farci un workshop”.
Chiedo ad altri se sanno di iniziative pubbliche culturali negli spazi dell’ex Cinema ma nessuno ne sa nulla.
Imbocco Via Bartolomeo Perestrello, la percorro attraversando anche Via della Marranella. Oggi questa è la zona più asiatica del quartiere, e sono soprattutto palazzoni, alternati a qualche casetta. In questa domenica di caldo anche gli edifici sembrano affaticati e le persone per strada appaiono più silenziose del solito, prese da una strana contemplazione. Dopo aver superato la traversa di Via della Marranella arrivo a Piazza Perestrello, una grande colata di cemento sulla strada. Ai lati un muretto con alcune persone sedute e dei bambini che giocano. L’unica traccia di verde è qualche sterpaglia incolta ai bordi del marciapiede. Mi siedo.
Guardo anche io lo spiazzo vuoto e troppo grande per avere una logica. Accanto a me un signore anziano. Mi dice che il senso di quello spiazzo era quello di essere un mercato, ma da anni il mercato non c’è più. Seduti sul perimetro del muretto personaggi tra i più disparati conferiscono una nota di surreale al pomeriggio che volge al termine.
Accanto a me ci sono un gruppo di ragazzi indiani inamidati e pettinatissimi, avranno diciotto anni. Mi rivolgo a uno di loro e senza mezzi termini gli dico che sto cercando informazioni sul quartiere per un articolo.
“Tu come ti trovi a Torpignattara?” Mi risponde in ottimo italiano.
“Bene, abbastanza. Io sono qui da cinque anni, frequento il quinto anno di liceo scientifico”.
Gli chiedo se ha amici italiani.
“Sì, sia italiani che indiani.”
Domando che ne pensa della difficile integrazione e convivenza del quartiere e lui ci pensa un attimo.
“Gli indiani e gli altri immigrati, tipo quelli che stanno qui su Via della Marranella, forse non dovrebbero vestirsi così. Andare in giro con vestiti tradizionali e ciabatte. Forse vederli così dà fastidio agli italiani, se si vestissero normali magari invece…” conclude con un lieve timido sorriso.
Accanto a noi un ragazzo con barba e capelli lunghi ha iniziato da qualche minuto a suonare una chitarra, non riconosco il pezzo ma il ritmo è melodico e cadenzato, con influssi tzigani. È il genere jazz manouche, uno stile meticcio che unisce lo swing con le sinfonie dei valzer francesi, avviluppati da ritmi gitani e da uno strano modo di suonare la chitarra.
Un genere nato da una storia forse simile alle mille un po’ disperate che si sfiorano ogni giorno tra il traffico di Torpignattara, quella di un gitano, approdato a Parigi dopo la prima guerra mondiale, che aveva perso da bambino due dita nell’incendio di una roulotte, tale Django “Three Fingers” Reinhardt.
I ragazzi indiani se ne vanno ridendo. Il signore anziano con la sua busta di plastica si avvia verso casa, mi fa un cenno di saluto. Il sole muore da qualche parte dietro i palazzi di Torpigna.
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