Passeggio lungomare, con lo zaino in spalla, in cerca di un alloggio per la notte. Dopo averne visti alcuni, scelgo Casa Miranda, una guesthouse a gestione familiare situata in mezzo a una piccola foresta di palme che dà sulla spiaggia. Costa poco, i proprietari sono simpatici, la stanza non puzza di morte, e nella hall c’è una backpacker dal forte accento francese che è una gran fica.
Dopo essermi sistemato, ancora madido di sudore, mi tuffo nel mare cristallino. Un pensiero va agli amici che ho lasciato a combattere il rigido inverno berlinese: sucassero. Mi sento un privilegiato ad essere dove sono, senza preoccupazioni se non quella di riuscire a spalmarmi la crema solare dove non arrivo con le mani.
Non so che aspettarmi da questo posto. Con settemila e rotte isole a disposizione, non è stato facile scegliere. Mi sono lasciato consigliare da chi è in viaggio da più tempo di me, e così sono finito a Siquijor, nella regione Visayas Centrale delle Filippine. Parlo con un po’ di gente di Casa Miranda, per capire cosa offre l’isola oltre alle cose da isola. Il senso di colpa latente che mi ha insinuato l’efficiente società tedesca, intollerante verso i perdigiorno, e che mi vuole produttivo sempre, non mi permette di limitarmi alle sole attività da spiaggia. La nonnina albergatrice dice che sono fortunato perché questo week-end, in corrispondenza della Settimana Santa, c’è l’Healing Festival, l’evento più importante dell’anno. Una tre giorni in cui degli sciamani, provenienti da ogni parte delle nazione, si riuniscono sulla montagna al centro dell’isola per dare dimostrazione delle loro arti curatrici.
L’Isla del Fuego, come fu chiamata dai conquistatori spagnoli per via del bagliore che emanavano gli sciami di lucciole che la popolavano, è famosa nelle Filippine per essere terra di incantesimi e sortilegi. È il campo di battaglia tra due diverse fazioni di maghi. Nel lato oscuro ci sono i mambabarang, stregoni capaci di lanciare potenti sortilegi in grado di far ammalare o addirittura uccidere la vittima designata. Tipo Masini con le sue canzoni.
Prendono il loro nome dal barang, la potente magia nera inizialmente usata contro gli oppressori ispanici, e ora al servizio di qualsiasi persona disposta a sborsare per il male altrui. Utilizzano bambole da trafiggere con spilli o bacherozzi che, soggiogati al volere dello stregone, si infilano nella casa della vittima prescelta per poi insinuarsi dentro il suo corpo dormiente, a depositare le uova che gli causeranno atroci dolori e le peggiori malattie. A combattere il male ci pensano i mananambal, sciamani dai grandi poteri curativi, gli stessi che potrò vedere con i miei occhi durante il festival. Tramite erbe, cortecce, fango, radici, insetti, e pietre magiche donate da Dio o qualche santo preparano pozioni e amuleti in grado di debellare qualsiasi fattura. A volte vengono interpellati per questioni più frivole quali la creazione di elisir d’amore. Wanna Marchi ci sguazzerebbe.
I filippini hanno la grande capacità di farti sentire a casa anche se sei dall’altra parte del mondo. Sono un popolo meraviglioso, seppur pieno di contraddizioni, ma chi non ne ha.
Questo sabato, che è il Black Saturday, il sabato in cui si celebra la morte di Gesù, i mananambal si radunano, davanti agli occhi di tutti i curiosi, per il pagluto, la miscelatura degli ingredienti raccolti durante i venerdì di Quaresima nei cinque luoghi sacri: i mari, le montagne, le grotte, i cimiteri, e le chiese. Gli elementi più importanti del pagluto, le ossa dei morti e le candele benedette, vengono prelevati solo l’ultimo venerdì della settimana santa, lo stesso giorno in cui gli stregoni, al riparo da sguardi indiscreti, si rifugiano nelle caverne per lanciare le loro maledizioni. Si pensa infatti che il Good Friday, così come il Black Saturday, sia un giorno favorevole alle pratiche esoteriche, grazie alle innumerevoli entità soprannaturali che in quel fine settimana vagano nell’isola spargendo il loro influsso magico. Gli artefatti creati durante il Sabato Santo verranno poi venduti nelle bancarelle del festival per circa 500 pesos. Con quei soldi, in Germania, si comprano giusto un paio di birre, ma per la gente del posto è una cifra ragguardevole, considerando inoltre che non c’è nessuna garanzia del loro funzionamento. Non si fanno rimborsi e, se la pozione non ha sortito il suo effetto, è solo colpa dell’acquirente che non ha avuto abbastanza fede da attivarne il potere.
L’Healing Festival promette bene. Decido quindi di fermarmi almeno una settimana e di noleggiare uno scooter per girare senza noie lungo i centodue chilometri di costa. Non ho la patente, non l’ho mai fatta, ma qui non pare essere un grosso problema.
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Lazi, con il convento di San Isidro Labrador, il più grande di tutta la nazione; le cascate di Cambugahay; la grotta di Cantabon; la spiaggia di Salagdoong; l’imponente albero di balete, vecchio di quattrocento anni e chiaramente magico; sono solo alcune delle attrazioni che l’isola regala e che decido di visitare in attesa del grande evento.
Vicino al villaggio di Lazi mi perdo nel cercare Kagusuan Beach. Ho seguito un cartello che diceva ‘per la spiaggia’ e a tutti gli effetti una spiaggia c’è, ma non è quella che mi aveva fatto vedere in foto la nonnina di Casa Miranda. Abbandono lo scooter quando la strada non si fa più praticabile e mi incammino lungo la spiaggia deserta, fino a che non vengo fermato da un gruppo di filippini seduti intorno a un tavolo, fuori da una casa in costruzione. Il mio sguardo da bambino che ha perso la mamma li spinge a domandarmi cosa sto cercando. Chiedo se questa è Kagusuan ma so già la risposta. Mi invitano a unirmi a loro allungandomi un bicchiere di birra Red Horse, seguito da uno shot di Tanduay, il rum nazionale, del quale ho già imparato ad apprezzarne l’ottimo rapporto qualità-prezzo.
– Benvenuto a China Town!
Appeso a delle travi di legno c’è un cartello che recita la stessa frase.
– China Town?
– Questa è casa di Pang, Pang è cinese quindi questa è China Town.
Non fa una piega.
A parlare è El Capitan, un omone con i baffi, il più carismatico del gruppo. Gli altri sono Josh, un chitarrista che vanta di fare parte della migliore band dell’isola, in quanto l’unica; Cop, lo sbirro, di nome e di fatto; Marino un professore di agraria, affabile e dai modi gentili, l’unico un po’ serio; e Pang, ovviamente. Il proprietario della casa è il solo a non parlare, ma i suoi sorrisi senza denti bastano a farmi empatizzare con lui. Sono tutti volontari nel servizio di sicurezza e monitoraggio di Siquijor, e questa spiaggia è l’area che devono sorvegliare. Tutti tranne Pang e, considerato che qui non viene mai nessuno, se non per errore, fondamentalmente è lui che devono tenere sotto controllo. Pescano, bevono, e di tanto in tanto dicono ‘tutto bene’ alla ricetrasmittente de El Capitan. Quando c’è bisogno tornano alle loro vere professioni ma non sembra che, a China Town, il lavoro occupi un gran ruolo. Invidio la loro mancanza di frenesia, anche se adattarmi a questi ritmi mi viene piuttosto naturale. Finisco con l’ubriacarmi, tra risate, aneddoti, e lezioni di Bisaya, il dialetto del posto. Prometto di tornare a trovarli e, dopo le dovute raccomandazioni sullo stare attento nel guidare ubriaco, li saluto e me ne vado.
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L’isola è quanto di meglio mi potessi aspettare. Ha la giuste dimensioni e la gente è affabile. Di malvagi stregoni pronti a lanciare anatemi ancora non ne ho visti. Non sembra che gli abitanti credano troppo alla magia, per quanto anche i più scettici ne facciano uso. Sembra piuttosto un bisogno nato dalla mancanza di strutture sanitarie soddisfacenti e dalla povertà ancora molto diffusa. Una ragazza che incontro in un bar mi racconta della volta in cui ha avuto un’infezione ad un orecchio e si è curata da uno sciamano con il rituale del bolo-bolo mentre in parallelo prendeva antibiotici. L’infezione le è sparita poco dopo, ma quando le chiedo se è stato merito della scienza o della magia, non sa darmi una risposta.
La stregoneria, la medicina, il cattolicesimo, qui tutto si mescola dando vita a credi pregni di incongruenze, che colpiscono indistintamente nuove e vecchie generazioni degli abitanti dell’isola. Nelle Filippine, ‘mandare qualcuno a Siquijor’ è l’equivalente del nostro ‘chiamare l’uomo nero’, quello che da bambino ti viene a rapire se non mangi tutte le verdure, ma ormai, a Siquijor, già ci sono e poi qui c’è solo della gran frutta.
Quello che si respira è un clima da festa popolare. Sembra la Sagra del Tortello del circolo anziani di San Lazzaro, senza tortello. Non mi aspettavo di vedere maghi lievitare o evocazioni di demoni, mi bastava giusto un po’ più di spiritualità, ma tant’è.
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Arriva il giorno del festival. Me la prendo comoda e in tarda mattinata mi avvio verso il Monte Bandilaan, il più alto dell’isola. La strada è lunga e quando il sole è al culmine mi fermo a mangiare e a rinfrescarmi in un baracchino sulla via principale. Due ragazze stanno cuocendo degli spiedini mentre, dietro di loro, sdraiato su una panchina all’ombra di un gazebo, c’è un vecchio in mutande che si destreggia nel bere la sua Red Horse muovendo il collo di quel che basta per non sbrodolarsi. Chiedo del cibo ma scopro che questa è casa loro, non un’attività commerciale. Mi accolgono comunque, stabilendo un prezzo forfettario a spiedino e a birra. Mi sistemo sull’unico grande tavolo in legno mentre altri membri della famiglia sopraggiungono per attaccar bottone con il pallido straniero. Ci perdiamo in chiacchiere e le ore passano senza che possa rendermene conto.
– L’ultima birra e poi vado.
Quando il sole è al tramonto mi ritrovo, ubriaco, disteso su una panca proprio come lo zio Emi, con dei nuovi amici, il mio vocabolario Bisaya arricchito, e tanta pace per il festival. Torno a Casa Miranda non prima di aver superato l’alcol test.
– Ce la fai a guidare?
– Sì.
– Fai attenzione.
– Sì.
Test passato.
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Ci riprovo. Oggi ho appuntamento con lo zio Emi e gli altri, per andare al festival. Ci son solo due scooter per sette persone, di cui due bambini. Il mio ne porta quattro. Tutto il tragitto è in salita, e devo stare con un pezzo di culo sulla punta della sella e il peso caricato sulle mani con le quali in teoria dovrei sterzare, frenare, e tutte quelle cose utili a non schiantarsi. Arriviamo all’Healing Festival che non sento più le braccia.
Di mistico c’è ben poco, giusto qualche banchetto con degli amuleti, oli e erbe dalle proprietà curative. Per il resto mercanti di cibo, un cieco che suona del blues, tatuatori, e turisti. Un delirio di turisti. Principalmente sono filippini, con i pranzi al sacco copiosi come quelli che si vedono a ferragosto nelle spiagge del sud Italia.
Una parte della grossa area boschiva in cui si svolge il festival è dedicata ai guaritori. Mi avvicino allo stand di una vecchia che sembra come tutte le altre vecchie, non fosse che è una mananambal. Sta preparando il necessario per curare, con il rituale del bolo-bolo, un ragazzo filippino che attende in silenzio su uno sgabello. La sciamana ha in mano un bicchiere pieno d’acqua dentro il quale butta una pietra nera, sicuramente magica. Si fa il segno della croce, poi con una cannuccia di bambù soffia dentro al bicchiere mentre lo strofina sul corpo del malato. Ogni tanto prende fiato, mormora qualcosa simile a una preghiera per poi tornare a creare bolle d’aria dentro l’acqua che magicamente si fa sempre più torbida. È il segno che il male si sta trasferendo dal ragazzo al liquido. Gira attorno al paziente, avendo cura di tenere il bicchiere sempre a contatto con il suo corpo. La vecchia cambia l’acqua, ormai marrone. Altri mantra, altri segni della croce. Il rituale viene ripetuto ancora due volte fino a che l’acqua, per quanto la vecchia possa soffiare, non prende più colore. Significa che il male è stato del tutto estirpato.
Rimango affascinato dal rituale, nonostante lo scetticismo non mi faccia godere appieno del miracolo al quale ho assistito. Ai miei nuovi amici filippini non gliene può fregare di meno. Sono già sistemati su uno spiazzo d’erba a mangiare le porcherie comprate in uno dei tanti baracchini. A parte qualche raro turista che cerca di autosuggestionarsi per entrare nello spirito mistico, quello che si respira è un clima da festa popolare. Sembra la Sagra del Tortello del circolo anziani di San Lazzaro, senza tortello. Non mi aspettavo di vedere maghi lievitare o evocazioni di demoni, mi bastava giusto un po’ più di spiritualità, ma tant’è. Vago un altro po’, con la speranza di incappare in qualche esorcismo, poi raggiungo i miei compagni. Non hanno avuto riguardo nel lasciarmi qualche avanzo, così vado a fare un ulteriore rifornimento di cibo e alcol. Maledetta Red Horse che costi così poco, mi porterai alla morte. Stiamo a ingozzarci fino a sera, ma con le birre questa volta mi trattengo. Oggi ho delle responsabilità.
Mi sveglio che mi sto grattando. La schiena prude come se mi avessero assalito le cimici del letto. Mi alzo e vado verso lo specchio per controllarmi. Mi hanno assalito le cimici del letto.
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Secondo quella bozza di programma che mi sono fatto, mi rimangono due giorni da passare a Siquijor. Questa mattina non mi va di andare all’Healing Festival, è troppo distante, così mi dirigo verso China Town come avevo promesso.
I ‘cinesi’ sono sorpresi di vedermi. Dicono che non credevano sarei tornato e, ai loro occhi, l’aver tenuto fede alla mia parola è qualcosa che mi dona un’aurea di magnificenza. Le due bottiglie di rum che ho comprato suggellano la definitiva accettazione nel gruppo, tanto che il prof Marino, per l’occasione, decide di preparare del sushi con dei tonni freschi pescati venti minuti prima. Resto con loro fino al tardo pomeriggio, banchettando come fosse Natale. Non capisco se mi hanno preso in simpatia solo perché ho avuto il merito di spezzare la loro routine, ad ogni modo sono a mio agio come se fossi con dei vecchi amici. I filippini hanno la grande capacità di farti sentire a casa anche se sei dall’altra parte del mondo. Sono un popolo meraviglioso, seppur pieno di contraddizioni, ma chi non ne ha.
È arrivato il momento degli addii e Cop, in segno di amicizia, propone uno scambio: la mia canotta blu senza maniche per la sua maglia, la divisa ufficiale della polizia. È di due taglie in meno, a maniche lunghe, di un tessuto refrattario alla vita, e per di più nera, così che il sole possa violentarla facilmente, ma non posso dire di no a questo enorme gesto di fratellanza. Inizio a sudare nel momento in cui la prendo in mano. Mi congedo, prima di svenire.
Lungo il ritorno mi fermo a Lazi, il paese più vicino a China Town, per fare rifornimento d’acqua. Ho tutti gli occhi addosso per via dell’enorme scritta ‘Polizia’ stampata sulla schiena. Chi l’avrebbe mai detto che avrei indossato i panni della legge. Spero solo di non venire assalito da qualche anarchico al grido di ‘Fuckdawhitepoliz’. Torno a Casa Miranda, incolume.
*
Mi sveglio che mi sto grattando. La schiena prude come se mi avessero assalito le cimici del letto. Mi alzo e vado verso lo specchio per controllarmi. Mi hanno assalito le cimici del letto. Non mi posso sbagliare: ho una decina di punture, grandi come noci, una vicina all’altra a formare la via della purulenza. È la terza volta che me le prendo in questo viaggio. Forse dovrei smetterla di andare negli ostelli più economici, anche perché i bubboni si espandono a vista d’occhio, il che mi fa pensare di avere un’allergia a quel tipo di puntura.
Nella hall di Casa Miranda, Nathan, il figlio del proprietario, sta bevendo un caffè.
– Ci sono le cimici nel mio materasso.
– Non è possibile.
Gli faccio vedere la schiena e a ribattere non ci prova nemmeno.
– Conosco un dottore molto bravo. Ti porto con lo scooter.
– Non c’è bisogno, mi è già successo. Due giorni e sparisce tutto.
– Non hai capito, lui fa i miracoli.
Restiamo un po’ a discutere, poi cedo alle sue pressioni.
Lungo il tragitto verso l’ambulatorio mi spiega che il dottore non chiede soldi, ma che va fatta una donazione.
L’ambulatorio non è un ambulatorio. L’ambulatorio è una catapecchia di legno, dimenticata da Dio, sulla cima di una montagna. Nathan bussa abbastanza forte da darmi l’impressione che la fragile struttura della casa possa crollare da un momento all’altro. Non c’è nessuno, ed è meglio così. Dico a Nathan di andarcene ma lui mi fa segno di aspettare. Un minuto dopo esce un vecchio che trasuda povertà: è senza denti, addosso ha solo un paio di mutande, ed è talmente magro che ho paura di spaccargli la mano quando gliela stringo.
Nathan gli parla in Bisaya, credo gli stia spiegando il mio problema. Il dottore torna dentro e, dopo un tempo infinito, rispunta con in mano una boccia di olio alle erbe. È un cazzo di mananambal. Mi fa sedere su un ceppo di legno, a schiena nuda. Con un pezzo di cotone pregno di olio mi tampona una delle punture. Poi comincia a recitare un mantra. Il rituale è partito. Immagino che a breve inizierò a girare la testa di trecentosessanta gradi spruzzando vomito a suon di madonne, ma non succede nulla di tutto questo. Delicatamente soffia sopra la puntura. Sarebbe quasi piacevole, se a farlo non fosse un vecchio che sembra uscito da un film di Romero. Poi si ferma. Rumina, ma non nel senso di rimuginare.
– Puuuh!
– Oh, Cristo.
È un attimo. Qualcosa di umido mi sta colando lungo la schiena e, no, non sta piovendo. Puntura per puntura ripete il rituale fino a che non mi ritrovo ricoperto di saliva. Ottimo: la scomparsa dei bubboni in cambio dell’ebola. Pieno di perché, resto impassibile sperando che il tutto finisca in fretta.
Lo sciamano mi parla mentre Nathan fa da traduttore. Dice che per tre giorni non devo assolutamente mangiare pollo e uova, che fa parte della cura. Lascio la donazione e ringrazio.
Lungo il viaggio di ritorno, nonostante non abbia fatto alcun commento, Nathan si sente in dovere di dirmi che quando sta male va sempre a farsi curare dallo sciamano, ma che bisogna crederci o non funziona. Vorrei tanto. Per tre giorni mi metto davvero a digiuno di polli e derivati e, sì, le punture spariscono. Qualche malpensante potrebbe dire che se ne sarebbero andate anche senza la dieta, l’olio, e gli sputi. La verità, per quanto possa sembrare ovvia, non mi è dato saperla.
Quello che so è che, anche a migliaia di chilometri da dove vivo, ci sono persone che hanno bisogno di credere in qualcosa, cose che a noi occidentali appaiono buffe solo perché diverse, ma, a pensarci, non sono meno assurde di uno zombie tripolare che combatte un serpente parlante.
Quello che so è che anche qui, come in ogni luogo, c’è bisogno di dare un nome al bene e uno al male.
Quello che so è di non sapere. Nel bene e nel male.
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