Capitolo primo
Coffee and Cigarettes
Ricordo con precisione quel giorno. Era una sera di novembre, era un’altra città. Una vita fa, ma lo stesso identico gelo di adesso. Il Filmpalette di Colonia si trovava poco distante dalla fermata di Hansaring e io ci andavo spesso, almeno una volta a settimana. Davano pellicole indipendenti in lingua originale, retrospettive, documentari. Per una ventenne appena partorita dalla provincia, un posto del genere in città aveva il suo fascino. Sale piccole e accoglienti, polverose quanto basta per sentirsi a casa, pubblico variegato, odore di pop corn allo zucchero e luci soffuse. In quel periodo uscivo con un ragazzo che abitava poco distante dal cinema. I suoi coinquilini erano studenti del conservatorio. Suonavano tutti la viola. Erano alti e biondi e strani e io li amavo perché in provincia non esistevano suonatori di viola. Quella sera portarono me e il mio cavaliere a vedere Blank City al Filmpalette ed io, ingenua com’ero, rimasi triplamente colpita: dal fatto che ad un gruppo di violisti barocchi interessasse un documentario sulla new wave newyorchese degli anni Ottanta; che esistesse la new wave anni Ottanta; infine, fui ammaliata dalla pettinatura di un signore dalla voce tenebrosa che si chiamava Jim e sembrava avere una nuvola in testa, nel film parlava di stanze in affitto, collettivi teatrali in edifici occupati ed era più strano del paradiso. “E quello chi sarebbe?”, chiesi piano e ostentando noncuranza. I violisti si voltarono di colpo e, attraverso il buio della sala, io sentii quelle loro dita dinoccolate rattrappirsi in un gesto di sgomento. “Jarmusch, Elena. Quello è Mister Jim Jarmusch”.
Ricordo con precisione quel giorno. Tornando a casa, dopo il film, mi fiondai davanti al computer. Quella notte vidi per la prima volta Coffee and Cigarettes, e fu l’inizio di qualcosa. Di un legame. Da allora la poesia di Jarmusch mi avrebbe accompagnato nei momenti più inaspettati. Mi avrebbe seguito per poi rivelarsi spesso e all’improvviso, come un bagliore fuggiasco sul vetro di una finestra. Ad ogni crocevia della mia vita da ventenne, Jarmusch sarebbe rimasto in agguato con i suoi William Blake, Ghost Dog o Helmut Grokenberger di turno, ad aspettare l’attimo propizio per uscire allo scoperto e trafiggermi, stordendomi di bellezza.
Capitolo secondo
Daunbailò
Come quando mi ha fatto innamorare in un bar di Schönleinstraße, ad esempio. O quasi. Sono le otto di una domenica mattina, credo, di quelle domeniche mattine che altro non sono se non la continuazione del sabato pomeriggio che le precede. Davanti al mio tavolo, oltre la fila di calici di birra vuoti ammassati a mò di monito per chiunque tenti di avvicinarsi, il mio sguardo si perde sulla risata strana di un ragazzo strano. Molte ore dopo, quando il buio serale si è ormai mangiato gli avanzi di quella domenica, nella cucina disordinata del ragazzo dal sorriso strano, con indosso solo una maglietta oversize dei Dead Kennedys e un paio di calzini, mi trovo ad osservare la locandina di Daunbailò appesa accanto alla finestra, cercando di fare mente locale nel mio database cinematografico mentale. “It’s Jarmusch, baby”, il ragazzo strano è dietro di me e mi porge una tazza di tè fumante.
Capitolo terzo
Broken Flowers
I volti dei passeggeri sembrano felici. Nessuna di queste persone, oggi, è andata a lavorare. E nemmeno io. È festa, e i palazzi a Wedding si stagliano con nitidezza sul cielo limpido invernale. Faccio molte foto, anche se so che poi ne cancellerò più della metà perché soffro di un grave disturbo compulsivo di autocensura. Per la prima volta dopo decine di settimane questa spensieratezza ingiustificata non mi fa provare sgomento. È difficile rimanere se stessi quando nella propria vita subentra la malattia. Lo diventa ancora di più se ad ammalarsi è una persona cara. Oggi però sono seduta in un vagone della U8 e sto tornando a casa dopo una gita fotografica. Le persone intorno a me sorridono. Come uno specchio, rifletto quello stato d’animo, compiaciuta. A Voltastraße sale un tizio sui cinquant’anni e si accomoda di fronte a me, stringendosi nel cappotto scuro. Per un attimo i nostri sguardi si incrociano. I suoi occhi sono ghiaccio puro. Si sistema comodamente guardando il proprio riflesso illuminato nel finestrino. Solo allora noto che con entrambe le mani, all’altezza delle ginocchia, regge un piccolo mazzo di fiori, uno di quelli che si comprano al supermercato per una manciata di euro. Non so dire di che varietà siano, so solo che sono incredibilmente rosa. Mi viene da ridere allo strambo pensiero che questo tizio in realtà sia Don, il protagonista di Broken Flowers, e stia cercando disperatamente qualcosa che difficilmente riuscirà a trovare. Penso che in fondo siamo tutti un po’ dei Don Johnston, a volte. In viaggio verso chissà dove in un pomeriggio d’inverno.
Capitolo quarto
Paterson
Sto aspettando Silvia davanti al Babylon di Dresdener Straße, sono estremamente in anticipo. Fa freddo, e a me non viene in mente di entrare nel foyer del cinema per non assiderare. Penso al quaderno nero abbandonato da troppo tempo sulla mia scrivania, a ridosso del muro. È spesso e stropicciato e mi somiglia. Contiene decine e decine di righe scritte a penna e a matita, sovrapposizioni, cancellature. Non vi scrivo nulla dal ventinove giugno duemilasedici. Ho paura di aver smesso di crederci, che la poesia sia quell’atto in grado di salvarmi dai mostri della mia vita. Silvia arriva trascinando i piedi sul marciapiede ghiacciato, un tentativo ben studiato per non scivolare a terra. “Quindi? Paterson?”, i suoi occhi sono due piccole perle scure e brillano sotto le luci gialle della biglietteria del cinema. Paterson, l’ultimo film di Jim Jarmusch, quello con Adam Driver. Un inno dichiarato alla Poesia della Mediocrità, dicono. E io ci credo, perché Jarmusch è un poeta (e non solo per la sua prima laurea in letteratura). “Due biglietti grazie”, lo dico rivolta al ragazzo dall’altra parte del bancone che ci osserva curioso e non capisce la misticità di quel momento. In sala, quando si spengono le luci e il brusio delle voci inizia a scemare, riesco a sentire le aspettative di tutti noi prendere forma e aleggiare sopra le nostre teste. Potrei quasi afferrarle, giocarci. Invece decido di mettermi comoda e lasciare che anche questa storia si faccia strada dentro di me, con tutti i pro e i contro che ciò potrebbe comportare. Ed ecco finalmente apparire sul grande schermo nero Paterson. È nato e cresciuto nella cittadina di Paterson, nel New Jersey, e ne porta il nome. Non a caso. Entrambi i Paterson, infatti, potrebbero essere descritti come occasioni mancate. L’uomo avrebbe potuto dedicare la propria intera esistenza alla poesia, ma sceglie piuttosto di condurre una vita entro gli schemi, da autista di autobus. La città invece somiglia ad un enorme mausoleo per il gran numero di personaggi famosi che vi hanno brevemente soggiornato, vissuto, che ne hanno scritto, ma che poi se ne sono andate. Come meteore, lasciandosi quella realtà, troppo angusta per le loro ambizioni, alle spalle. Paterson-uomo ha una compagna, Laura, dolcissima e inconcludente, che sfoga sull’arredamento della casa quella creatività che non riesce a incanalare in nessun progetto artistico concreto. Lui si fa schiacciare volentieri e con amorevole indulgenza dal suo entusiasmo, accontentandosi di uno stanzino nel seminterrato o di starsene seduto presso la cascata del Passaic River durante la pausa pranzo per scrivere i propri componimenti. Proprio come il suo poeta preferito, William Carlos Williams, il quale affermava No ideas, but in things (nessuna idea se non nelle cose), la poesia di Paterson si concentra sull’osservazione del mondo che lo circonda. Tutto, intorno a lui, è intriso di poesia. Una conversazione su Gaetano Bresci tra due giovani anarchici (interpretati, tra l’altro, dalla coppia di giovani attori protagonisti in Moonrise Kingdom di Wes Anderson) origliata per caso durante un turno a lavoro, le facciate dei palazzi di Main Street che si riflettono sugli enormi finestrini dell’autobus e sui volti assorti dei passeggeri. È la celebrazione della vita come poesia, della poesia come vita. A cosa servirebbe la monotonia, la mediocrità della quotidianità se non potesse essere osservata, descritta, cantata? Non occorre una vita al cardiopalma per sentirsi felici. Ciò di cui abbiamo bisogno si trova proprio sotto i nostri occhi, dobbiamo semplicemente avere il coraggio di rendercene conto. Accovacciata nella mia poltroncina inizio lentamente a realizzare il messaggio che Jarmusch lancia attraverso le scene del suo film, come la lenza di un pescatore, verso di me, verso tutti noi seduti là dentro nell’oscurità. Raccontando la storia di un uomo che altri non è se non l’incarnazione di uno stereotipo, Jarmusch ribalta completamente il significato di mediocrità, come se sollevasse dolcemente il coperchio di un vaso, permettendoci di sbirciare il grande tesoro che esso contiene: un’esistenza banale che cela attimi di straordinaria bellezza, poiché vissuta consapevolmente. Paterson è un uomo felice perché ha compreso le modalità per esserlo. Ha accettato e accolto la mediocrità della sua vita, l’ha stretta a sé nei propri componimenti, rendendola unica e personalissima, straordinaria, appunto. Trasformandola in autentica poesia.
Quando, dopo quasi due ore, esco nel gelo della notte di gennaio, mi sento frastornata e commossa, come non capitava da tempo. A Kottbusser Tor saluto Silvia, seguendola con lo sguardo fino alla scala che porta all’ingresso della metropolitana, e mi avvio verso casa con una domanda che continua a martellarmi in testa: come ci riesce? Come è possibile che ogni volta questo signore dai capelli a nuvola riesca a creare una storia che mi lascia costantemente stordita, senza parole? Dentro di me si fa strada una nuova consapevolezza. Una volta a casa mi dirigo immediatamente alla scrivania. Il quaderno è lì e mi osserva paziente da sotto un lieve strato di polvere. Ricambio lo sguardo. Mi siedo. Lo apro.
La fine di questa storia
Esistono immagini indelebili, che si imprimono nella mente con la stessa caparbietà della luce che attraversa l’obiettivo della macchina fotografica e finisce dritta sulla pellicola retrostante. Per me è il viso assorto della piccola Pearline mentre legge l’Hagakure, il codice del samurai, ereditato dall’amico Ghost Dog, nella scena finale dell’omonimo film. Pearline legge e dice: The end is important in all things. Come potrei non essere d’accordo? Ma la fine del mio viaggio è ancora lontana, così come l’esaurirsi della strana magia che mi lega a Jim Jarmusch e che provo immancabilmente ad ogni nuovo film. E allora non posso far altro che aspettare con trepidazione. Arrendermi, e farmi travolgere.
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In copertina Jim Jarmusch in “Sling Blade” – screenshot
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