Fa freddo, un vento sinistro spira da est ghiacciandole le dita e il naso, le guance divampano di un rosso papavero per l’incedere rapido e deciso di quella passeggiata mattutina in compagnia di suo fratello. È metà febbraio, Sophie e Hans camminano uno al fianco dell’altra diretti all’Università di Monaco, dove entrambi studiano.
Camminano silenziosi, curvando lievemente le spalle per proteggersi dal gelo.
Sono preoccupati e ansiosi, Sophie desidera ardentemente che il tragitto a piedi finisca il prima possibile, perché la valigia che regge con la mano destra è più pesante di quanto sembri, Hans prova a tenere a bada l’istinto di mettere una mano sulla spalla della sorella e dirle di tornare indietro. Entrambi resistono.
Arrivati in Università entrano da una porta laterale dell’edificio e percorrono i corridoi del dipartimento di Biologia, sentendo nient’altro che il rumore dei propri passi sul pavimento e un basso vibrato di sottofondo, dato dal pulsare del cuore nelle tempie.
L’Ateneo sembra semivuoto, la maggior parte degli studenti è in aula a fare lezione. È l’esatto e unico momento possibile per fare quello che deve: arrivare al terzo piano per lasciare il maggior numero di volantini di fronte alle aule più grandi e quelli avanzati gettarli dal ballatoio delle scale, dentro la voragine dell’atrio.
Salendo le scale incontrano prima due studenti conosciuti di vista, li salutano e liquidano con una scusa, poi un addetto alla sicurezza, questi gli domanda dove stiano andando. La risposta premeditata la notte prima, non basta a cancellare dal volto dell’uomo l’ombra del sospetto.
Sophie svuota la valigia di fronte alle prime aule, mentre Hans fa il palo. Dopo aver distribuito i volantini davanti alla maggior parte degli ingressi, i due svuotano la valigia nella tromba delle scale, una lenta pioggia di carta plana al piano di sotto. Suona il cambio dell’ora e gli studenti escono a piccoli gruppi dalle stanze, Sophie e Hans chiudono la valigia e si inseriscono nel flusso di persone che scendono le scale verso l’atrio.
Sophie sente una voce sovrastare il brusio ma non si ferma, continua a scendere uno scalino dopo l’altro, la voce si fa sempre più forte tanto da riuscire a costringerla a voltarsi. Un uomo, due scalini dietro loro, con il corpo e le braccia protese in avanti, cerca di ghermirli gridando.
I due fratelli si fermano come paralizzati e l’uomo li raggiunge. È lo stesso addetto alla sicurezza incontrato poco prima del cambio lezione. Li accusa di aver distribuito i volantini. Sophie e Hans negano, l’uomo afferra Hans per il bavero della giacca, bloccando la fuga di entrambi, poi li conduce negli uffici del rettorato. Da lì a poco i gendarmi della Gestapo prendono in mano il caso.
Nei brevi istanti in cui l’addetto alla sicurezza dell’Università li ferma sulle scale, ha inizio la seconda crisi di irreversibilità della vita di Sophie Scholl.
Il suo corpo pietrificato diviene docile agli eventi. Allo stesso tempo, qualcosa le dice di non scappare, perché lei, Sophie Scholl, è nel giusto.
Durante quei brevi secondi il destino di Sophie si scinde come in uno sliding doors, da un lato c’è il tentativo di fuga e la probabile successiva clandestinità, forse l’esilio, dall’altro c’è la convinzione di un destino da insubordinata, la perseveranza nel calvario esemplare che le si prospettava davanti: imputata di un apparato giudiziario corrotto, al servizio di un governo liberticida.
Non sappiamo se Sophie scelga di non scappare e affrontare le accuse a suo carico, o se è la paura ad inchiodarle le gambe sugli scalini di marmo dell’Università. Ma come in ogni crisi di irreversibilità, le motivazioni contano solo fin tanto che non avviene una scelta, poi il fiume del destino scorre nella sua nuova traiettoria, e quella di Sophie Scholl porta dritto in un ufficio della Gestapo.
Il giorno in cui Sophie Scholl e suo fratello Hans vengono fermati e denunciati alle autorità con l’accusa di aver distribuito volantini di propaganda sovversiva, è il 18 Febbraio del 1943. Sophie ha ventidue anni.
Sono in corso gli ultimi atti della Seconda Guerra Mondiale, la Germania di Adolf Hitler ha da poco subito la sua prima pesante sconfitta militare contro i Russi, a Stalingrado. Gli Alleati, Inghilterra, Francia e Stati Uniti, stanno organizzando, sul fronte occidentale, un attacco congiunto. Con l’Italia divisa, il governo di Mussolini allo sbando e il Giappone troppo lontano per fornire un sostegno militare concreto, i nazisti si trovano di fatto già assediati in territorio europeo. Tuttavia la fabbrica ideologica nazista, che ha ormai assunto dei tratti allucinatori, impone un’unica e inderogabile scelta: la “guerra totale”, cioè l’impiego di tutte le forze militari e civili nell’attacco ai nemici su tutti i fronti contemporaneamente.
In questo clima di isteria collettiva e terrore, la propaganda disseminata sul pavimento dell’Università di Monaco dai due fratelli Scholl, contiene idee pericolose verso gli scopi del Terzo Reich. Il volantino, firmato come Die Weiße Rose, La Rosa Bianca, si riferisce direttamente alla coscienza dei tedeschi, facendo leva su un presupposto che durante gli anni del nazismo nessuno osa ammettere e che, nelle ricostruzioni storiografiche successive, sarà oggetto di dibattito e di profondo e collettivo imbarazzo per i posteri del nazismo: i tedeschi sanno quello che sta accadendo, quello che è accaduto e quello che accadrà. Ma soprattutto sanno che è sbagliato.
Secondo i componenti del gruppo anonimo, prendere coscienza di quello che già si sa e agire di conseguenza, ciascuno a modo proprio, per una resistenza passiva al nazismo è l’unico modo per salvare la propria anima dalla colpa di aver tollerato per anni i misfatti di un regime omicida, oppressivo e soprattutto destinato alla sconfitta. Per fare questo non serve fare appello a nessuna convinzione politica, infatti gli unici ideali a cui la Rosa Bianca fa riferimento nel volantino, sono quelli universalmente condivisibili della libertà, della tolleranza e della pace. L’elefante nella stanza, la verità palese e taciuta sulla quale il nazismo ha basato la sua predatoria conquista dell’Europa e l’abominevole persecuzione nei confronti degli ebrei, è rivelato, in tutta la sua mostruosa semplicità, nelle parole accorate del volantino, il sesto e ultimo che il gruppo riuscirà a distribuire.
La compagine della Rosa Bianca ha delle caratteristiche che la rendono profondamente diversa da gran parte delle esperienze storiche di resistenza alle dittature, precedenti e successive: priva di una rete internazionale di contatti, priva di mezzi economici e militari, l’organizzazione è composta sostanzialmente da un gruppo di amici, che hanno condiviso la traumatica esperienza del fronte e che frequentavano l’Università di Monaco. Tedeschi, credenti, cresciuti nell’ombra del Terzo Reich, questi giovani partigiani non vantano affiliazioni alle correnti politiche imperanti, ma soprattutto non appartengono a nessuna delle numerose categorie di nemici perseguitati dal nazismo.
Nella cantina del palazzo in cui due di loro vivono è installato un rudimentale ciclostile con il quale, dal 1942, hanno deciso di stampare le copie dei loro volantini e distribuirli furtivamente per le strade o inviarli per posta anonima.
Sophie Scholl si iscrive all’Università di Monaco nella primavera del 1942. Vive con il fratello Hans, tornato indenne dal fronte russo e iscritto già da un anno alla facoltà di Medicina. Sophie si iscrive all’Università quasi un anno dopo aver concluso il liceo. Durante quell’anno è costretta a prestare servizio per il RAD, Reichsarbeitsdienst, un istituto statale creato e voluto dai vertici nazisti che, da prima della guerra, inserisce giovani maschi tedeschi in un programma di lavori socialmente utili, della durata di sei mesi, presso agenzie statali profondamente intrise di propaganda nazista. Il fine ufficiale di questo istituto è quello di arginare la disoccupazione in Germania, ma poiché questo periodo di servizio civile è propedeutico alla leva, il risultato ottenuto è quello di avere sei mesi di tempo per indottrinare i giovani tedeschi al nazismo, prima che imbraccino un fucile.
Durante la guerra, il RAD viene esteso anche alle donne, alle quali viene chiesto di prestare la loro manodopera in strutture militari ausiliarie con vari scopi e mansioni. Sophie Scholl, che alla fine dei suoi studi superiori ha già maturato il suo dissenso nei confronti di Hitler e del suo governo, si trova costretta, per avere accesso all’istruzione universitaria per la quale il servizio al RAD è un prerequisito necessario, a passare sei mesi della sua vita a Blumberg, al confine con la Svizzera, come infermiera e insegnante in un istituto statale.
In quei mesi, il contatto diretto con i metodi del nazismo, il fanatismo dei discorsi dei suoi superiori e la superficiale quanto ostentata adesione al regime delle sue colleghe, approfondiscono quell’insopportabile senso di ingiustizia che i crimini nazisti e il silenzio compiacente dei suoi compatrioti suscitano in Shopie.
La sua capacità di sopportare lo scempio è minata da questa esperienza, dalla quale Sophie esce con un senso di inconsolabile sconforto.
Giunta a Monaco si iscrive a Biologia e Filosofia, ma la sua sensazione non cambia, nonostante sia in qualche modo attenuata dalla presenza del fratello e di alcuni suoi amici fidati, anche loro critici verso la dittatura. Poi accade qualcosa.
Sophie si imbatte in un volantino trovato nel cortile dell’Università. Reca scritte le esatte parole che tormentano ogni notte la sua coscienza. È firmato La Rosa Bianca e Sophie lo infila nella tasca della giacca con un misto di paura e nuovo coraggio.
Tornando a casa, incuriosita e insospettita, Sophie fruga di nascosto nella scrivania del fratello Hans e scopre, leggendo tra le sue carte, che proprio lui, il suo amatissimo Hans, è coinvolto nell’attività clandestina della Rosa Bianca. Sophie chiede spiegazioni al fratello, il quale le rivela la neo nata esistenza del gruppo, composto da lui e alcuni dei loro amici in comune.
Di fronte a questa scoperta, Sophie rimane sconvolta. In quegli istanti, la ragazza sta attraversando la sua prima crisi di irreversibilità. Potrebbe decidere di far finta di niente, dimenticare quello che ha appena saputo sull’iniziativa del fratello e del gruppo, potrebbe continuare a coltivare in cuor suo un sincero disappunto per il corso politico preso dall’intero Paese, pur non esponendosi personalmente, potrebbe laurearsi, sposarsi e forse un giorno diventare insegnate d’asilo, come da sempre sogna.
Oppure potrebbe unirsi alla Rosa Bianca, e agire.
Le sliding doors si aprono per qualche istante nella tranquilla vita di Sophie Scholl, una ragazza normale, per richiudersi immediatamente dopo. Ha fatto la sue scelta, la ragazza si unisce al gruppo e da quel momento parteciperà attivamente alla produzione e distribuzione clandestina di propaganda contro il regime.
Dopo due crisi di irreversibilità, la vita di Sophie Scholl cambia radicalmente. Una ragazza normale, una vita placida come un ruscello dei boschi del Baden Wuttemberg, regione in cui nasce e cresce, una famiglia numerosa e cristiana, in cui vigono il rispetto per l’opinione altrui e la libertà di coscienza. Il padre di Sophie, Robert Scholl è stato un critico del nazismo della prima ora, eppure non ha mai impedito ai figli di partecipare attivamente alle organizzazioni della gioventù hitleriana. È anche a causa del modello etico della sua famiglia, oltre che delle sacche di resistenza cattolica al nazismo con cui è venuta a contatto una volta che la sua famiglia si trasferisce nella ex città libera di Ulm, che Sophie vive, gradualmente, prima il disincanto e successivamente l’indignazione personale nei confronti del Terzo Reich.
Sophie tuttavia è simile a migliaia di altre ragazze tedesche dell’epoca. Studiosa che vive in una piccola città di provincia, va in chiesa, ama i bambini e la natura.
Eppure in poco più di un anno, e dopo due crisi di irreversibilità, questa ragazza normale, si trova in un ufficio spazioso, con i mobili in ciliegio. Le tende tirate lasciano la stanza in una semi oscurità, tranne che per l’ovale di luce che illumina lo spazio della scrivania. Da un lato è seduta lei, mani raccolte in grembo e bocca serrata, dall’altro un uomo la scruta con uno sguardo carico di velenosa condanna.
Sophie Scholl si trova di fronte a un esperto di interrogatori della Gestapo, Robert Mohr, uomo che vanta una rapida carriera tra le fila delle SS e che sarà promosso di lì a breve per la sua ineccepibile condotta all’annientamento del gruppo sovversivo La Rosa Bianca. Dopo la fine della guerra, Mohr sarà un esempio perfetto del silenzioso, e forse inevitabile, riassorbimento nella società tedesca del personale politico e militare nazista, troverà un impiego regolare come segretario in un centro benessere e morirà di vecchiaia trent’anni dopo.
Ma nel febbraio del 1943 Robert Mohr siede nel suo ufficio e sta per interrogare Sophie Scholl. Come apparirà dagli atti del processo, Mohr usa tutte le tecniche di manipolazione classiche della dottrina investigativa, passando dall’umiliazione violenta, alla fredda richiesta di microscopici dettagli, fino alle improvvise aperture umane, tutto al fine di estorcere a Sophie Scholl non solo la confessione, ma persino il pentimento e l’abiura.
Il caso della Rosa Bianca, infatti, costituisce una seria minaccia alla tenuta psichica collettiva della società nazista, dato che non è facilmente riducibile alla retorica dei nemici della patria.
Il discredito nei confronti di Hitler e verso il suo governo viene, in questo caso, dal cuore della sana gioventù hitleriana, da ragazzi cresciuti in seno al nazismo, come emerge dalle parole sprezzanti del giudice che condurrà il processo, da voci interamente interne al Volk – il popolo etnicamente inteso – che costituisce la base ideologica del nazionalsocialismo.
Nella figura minuta e nel volto fiero di una ragazza come tante, che siede dal lato opposto della scrivania, c’è la temibile coscienza che la Germania nazista ha di se stessa e che, seppur sotterrata da una coltre di paura e indifferenza, è ancora lì, insopportabilmente viva.
Durante l’interrogatorio serrato, della durata di tre giorni, Sophie Scholl mostra una tenuta granitica e una coerenza sconcertante. Nel momento in cui comprende che le prove a carico suo e del fratello sono schiaccianti, decide di assumersi la piena responsabilità delle attività di sabotaggio nei confronti del governo. Una volta ammesso il suo diretto coinvolgimento nella scrittura e distribuzione dei volantini propagandistici della Rosa Bianca, a Sophie Scholl viene chiesto il pentimento.
Robert Mohr tenta di persuaderla a rinnegare le sue stesse parole, insinuando che data la giovane età e la sua ingenuità, ci sia la possibilità di convincere il giudice che lei è stata plagiata dal fratello, che non è consapevole delle sue azioni e si è lasciata trascinare per debolezza nelle trame sovversive del gruppo. Questa dichiarazione, che l’investigatore sosterrebbe in sede processuale, le risparmierebbe la vita.
Sophie Scholl non proferisce parola e viene ricondotta nella sua cella, per essere richiamata nell’ufficio di Mohr un’ora dopo. Durante la permanenza in cella, Sophie vive la terza e ultima crisi di irreversibilità della sua giovane vita.
Può accettare la proposta di Mohr, abiurare quelle che, come l’uomo le ha suggerito qualche momento prima, in fondo sono solo parole e continuare la sua quieta esistenza nella speranza che gli Alleati sconfiggano presto la Germania, che qualcun altro ancora, come lei, compia atti di resistenza. Nella speranza che l’umanità rinsavisca.
Oppure può portare le sue convinzioni fino in fondo, usare il processo come megafono per i suoi ideali e morire mostrando a coloro che ancora tacciono, e alla storia stessa, che c’è qualcosa di irriducibile oltre l’orrore, una briciola di purezza da cui poter ripartire.
Sophie Scholl torna nell’ufficio della Gestapo e rifiuta l’offerta di abiura.
Il 22 febbraio 1943, quattro giorni dopo il suo arresto, viene processata, insieme al fratello Hans e a un altro membro della Rosa Bianca, Christoph Probst. La sentenza del giudice è la condanna a morte.
I tre sono condotti, con effetto immediato dopo il processo, nella prigione di Stadelheim, adibita alle esecuzioni capitali.
Sophie viene portata in una stanza disadorna e dopo qualche minuto la sua testa rotola sul pavimento.
Durante l’interrogatorio, in uno sforzo parossistico, Robert Mohr prova ad incalzare Sophie chiedendole le ragioni vere del suo gesto. Perché proprio lei, figlia della Germania e del nazismo, alla quale il regime ha concesso di studiare e di vivere in un paese glorioso, perché proprio lei ha compiuto quell’atto di tradimento alla patria.
“Qualcuno doveva pur farlo” risponde Sophie Scholl, e in quella frase si legge tutta la potenza della sua storia, la storia di una ragazza normale.
Segui Shendi su Twitter
Immagine di copertina: wikicommons
REDAZIONE
Wale Café
Hobrechtstrasse 24, 12047 Berlin