Un estratto da “Un giorno triste così felice”, il libro edito da 66thand2nd
nel quale Lorenzo Iervolino ha ricostruito
la voce di «un uomo dal cuore grande come una sala da ballo»,
la storia di Sócrates Brasileiro Sampaio de Souza Vieira de Oliveira,
calciatore, medico, rivoluzionario.
La palla risplende come un piccolo sole, in attesa che tutte le altre stelle e i pianeti, grandi o piccoli che siano, le ruotino intorno. Ma al bambino che la fissa con occhi spalancati sembra che nulla ancora si muova di un solo passo: l’attaccante, infatti, protegge la sfera tra i piedi, come una chioccia col suo uovo. Finge di partire da un lato, poi dall’altro, la palla rimane immobile e lui finta di nuovo, stavolta sfiorandola appena con l’esterno del piede destro, senza spostarla. Ad ogni mossa dell’avversario, il difensore che gli si contrappone e pronto a lanciarsi a destra o a sinistra, ma anche i suoi movimenti sono solo accennati, una danza minima in cui rischia costantemente di perdere l’equilibrio e di cadere col sedere per terra. Alla fine l’attaccante inclina il busto verso la sua destra e lancia la palla dalla parte opposta, aggirando il difensore e recuperando il pallone, mettendosi poi a dribblare chiunque gli si pari davanti,invincibile, come l’eroe di tutte le favole.
≪Che guardi?≫ chiede Raimundo, costretto a gridare per superareil brusio di migliaia di tifosi attorno a loro.
≪Niente, pai, niente≫ risponde suo figlio, mentre guarda davanti a se, sorridendo, il campo vuoto. In quell’istante un signore corpulento, con una camicia gialla chiazzata di sudore e due folti baffi grigi, sbuca tra i corpi ordinatamente accalcati.
≪Ecco il mio posto!≫ dice, tamponandosi la fronte con un fazzoletto bianco e indicando la cadeira dov’e seduto il bambino.
≪Mi dispiace≫ aggiunge dopo qualche istante in cui ha respirato a bocca aperta. «Non si preoccupi,» interviene il padre del bambino «si metterà qui con me, è abituato». Poi, rivolto al figlio: «Espeto. Espetinho».
Ma «spiedino» non si gira, forse non vuole rischiare di perdere il momento cruciale dell’ingresso in campo dei giocatori. «Sócrates!»
dice più convinto Raimundo, poggiando le mani sulle spalle del bambino. «Vieni qua, lascia il posto al signore».
Raimundo Vieira, che di calcio non è affatto un appassionato (anzi, se fosse per lui, trascurerebbe proprio questa follia tutta brasiliana
che ha contagiato anche il suo primogenito), per far felice il bambino ha stretto con lui un patto: gli ha promesso di portarlo alle partite del suo calciatore preferito ogni qual volta questo sarebbe venuto in città per giocare contro una delle due squadre locali.
Il mese scorso, al Vila Tibério, hanno visto insieme il Botafogo compiere la storica impresa di battere il Santos per 2-0. Quella volta il piccolo Sócrates, che in realtà per i suoi dieci anni è già molto alto, si era perfino seduto come i grandi, visto che la cadeira vicina a quella del padre era rimasta vuota; ma sfortunatamente il suo idolo non giocava e la comodità non lo aveva accontentato a∂atto. Oggi però, 14 ottobre 1964, si è accertato che lui scenderà in campo, e allora preferisce di gran lunga stare in piedi, con le spalle appoggiate al petto del padre, o sedersi sulle sue ginocchia, ma non perdere neanche un passo del numero 10 in maglia bianca.
E mentre tutto il resto del Palma Travassos applaude ed esulta per i giocatori in maglia bianconera, ora disposti nella loro metà campo, Sócrates si lascia andare a un grido, come chi, dopo una navigazione di mesi, scorge per primo la terraferma
«Hai visto che bello stadio?» gli chiede Raimundo.
Sócrates sta di nuovo guardando il prato deserto, attraversato dall’abilità dei fantasmi che appaiono solo davanti agli occhi di certi sognatori.
«Bello? È una jóia de cimento armado!». A rispondere è il vicino coi baffi grigi, che ha smesso di asciugarsi il sudore e sta sfogliando un quotidiano della capitale, senza avere lo spazio per distendere entrambe le facciate del giornale. La battuta dell’uomo rimane senza risposta. Allora, dopo aver sbirciato tra le pagine, dice di nuovo: «Finalmente avremo un po’ di ordine, in questo paese».
Una frase che sembra pronunciata tra sé, anche se Raimundo ha la percezione che non sia così. Ancora una volta, però, sceglie di ignorare il suo vicino. Eppure, l’uomo continua a leggere ad alta voce, «“il nuovo governo mette fuori legge ogni forma di sciopero e avvia indagini e perquisizioni nei confronti dei suoi oppositori”», portando il giornale, ripiegato su sé stesso, molto vicino alla punta del naso.
«Che ne pensa?» chiede questa volta in maniera esplicita a Raimundo che, con il figlio in braccio, si sta domandando perché, tra tutti i tifosi radunati in quei pochi metri, quel tizio ce l’abbia proprio con lui.
«Sarà una partita molto combattuta» risponde, senza incrociare lo sguardo del suo interlocutore. «Siamo tutti e due molto concentrati… sulla partita» aggiunge, accorgendosi che il bambino si volta e sorride, mentre l’uomo dai baffi grigi rimane impassibile, con le sopracciglia arcuate e il labbro inferiore a forma di punto interrogativo.
«Intendevo cosa ne pensa del—».
«Pai!». Sócrates strattona il braccio di suo padre, mentre tutti si alzano in piedi e iniziano a fischiare e ad applaudire. Raimundo solleva suo figlio e il piccolo vede i giocatori emergere da un’apertura quadrata scavata direttamente a terra, qualche metro dietro la porta più lontana dalla loro visuale.
«Ecco Ditinho!» dice con entusiasmo un tifoso alle loro spalle, con una voce capace di tagliare l’euforia della massa, l’eccitazione per la partita inaugurale del nuovo stadio di Ribeirão Preto, intitolato all’ingegner Francisco de Palma Travassos, ma che in molti, fin dall’inizio dei lavori, hanno preso a chiamare il «gioiello di cemento armato».
I primi a emergere dal tunnel sotterraneo sono i giocatori con la maglia a strisce bianche e nere del Comercial di Ribeirão Preto, acclamati dalle due tribune semicircolari dove non è rimasto neanche un posto vuoto. Subito dopo si iniziano a vedere anche le divise bianche del Santos, ed è tra quelle che il piccolo Sócrates cerca con lo sguardo, spostando la testa per non avere la visuale coperta da braccia altrui, che si agitano inquiete come l’attesa del bambino, proiettata sui giocatori dalla pelle nera che corricchiano in direzione del rettangolo di gioco. Non sono molti, ma finché «spiedino» non vede il numero sulle maglie non può essere sicuro, non può puntare l’indice verso il suo idolo, ma deve aspettare finché il cuore non inizia ad agitarsi. E mentre tutto il resto del Palma Travassos applaude ed esulta per i giocatori in maglia bianconera, ora disposti nella loro metà campo, Sócrates si lascia andare a un grido, come chi, dopo una navigazione di mesi, scorge per primo la terraferma: «Pai! Eccolo, eccolo là!». Poi, in un silenzio più che religioso, pregusta ciò che lo aspetta: novanta magici minuti do «Rei», il re del calcio, il numero 10 santista, Edson Arantes do Nascimento, in arte Pelé.
Il pubblico si accomoda, l’arbitro fischia l’inizio. Sócrates si sporge in avanti verso la sfera bianca che vista da lì gli pare piccola come un insetto.
«E allora, come pensa che andrà a finire?» chiede l’uomo coi baffi, senza più il giornale tra le mani.
«Credo che le forze politiche democratiche cercheranno di compattarsi ed evitare che il Brasile cada in una nuova dittatura» risponde Raimundo tutto d’un fiato e badando che Sócrates sia abbastanza preso dalle prime azioni in campo da non prestare attenzione alle sue parole.
«Io, in realtà, mi riferivo alla partita» dice di rimando il vicino di posto, scandendo con calma le parole, non tanto per il chiasso prodotto dalle esclamazioni e i versi animaleschi degli altri tifosi che li circondano, ma per lo stupore della risposta ricevuta.
«Si riferiva alla partita?».
«Già».
«Beh, la partita finirà con una vittoria».
«E di chi?».
«Nostra» dice Raimundo con convinzione.
«Io non credo».
«Io invece sono sicuro che vinceremo noi. Prima o poi».
Nei dieci minuti trascorsi dal calcio d’inizio, il portiere di casa Rui è costretto a respingere ben due tiri scagliati da dentro l’area, uno proprio da Pelé – a Sócrates sembrava fatta, aveva già un urlo d’esultanza che gli risaliva dal petto a deformargli la bocca – e l’altro da Coutinho. Il Santos sta attaccando con molta più insistenza, ma il Comercial ha l’occasione di ripartire in contropiede, anche se non sembra convinto di distendersi e lasciare campo dietro i tre difensori. Al dodicesimo minuto la squadra di casa, però, riesce a sfondare per vie centrali, la sfera raggiunge Paulo Bim che si libera bene di due avversari in area e dall’altezza del dischetto scocca un gran diagonale che batte Gilmar. Per il gioiello di cemento armato è il battesimo del gol. Comercial 1 Santos 0.
«Hai visto? Bel tiro, no?» chiede Raimundo al figlio, non appena il caos del pubblico si calma un po’.
«No, pai. Niente di speciale» risponde l’unico, in quella tribuna, a non essere felice.
Il broncio del bambino dura anche per i minuti successivi, così l’uomo dai baffi grigi si sporge nuovamente verso Raimundo: «Ma abbiamo un piccolo santista, qua?» chiede divertito. Sócrates si volta appena, senza sorridere.
«Direi proprio di sì» risponde Raimundo Vieira. «Ma Sócrates è più che altro un torcedor brasileiro, un tifoso brasiliano».
«Per fortuna in famiglia ce n’è almeno uno» dice l’uomo a Raimundo, con una certa inaspettata durezza.
«Come dice? Non sento, c’è una gran confusione» mente il padre del bambino.
«Dico che vinceremo anche i prossimi mondiali in Inghilterra, così mostreremo al mondo di cosa è capace il nuovo Brasile!».
«Ah, certo. Anche mio figlio ne è convinto».
«E lei?» chiede l’uomo.
«Anch’io. Anch’io penso che il mondo si debba accorgere del nuovo Brasile. E molto in fretta».
Dopo il vantaggio del Comercial, inizia una partita nella partita. Pelé prova a segnare di testa, di destro da fuori area, di sinistro da dentro l’area, punta costantemente i difensori avversari con la palla attaccata ai piedi, smorzandola di petto o col ginocchio e poi toccandola d’anticipo e lasciandoli a rincorrere la sua ombra. Ad ogni dribbling e controllo di palla, Sócrates contrae le dita delle mani, scatta in piedi, si copre gli occhi vinto dall’emozione. Finché arriva il quarantesimo minuto: vertice sinistro dell’area grande, Pelé punta un avversario e lo salta, con la solita facilità felina; cerca di sfondare alla sua destra dove lo aspetta un raddoppio, ma quella mossa si rivela una finta, col piede destro infatti sposta la palla verso il lato opposto e nessuno fa in tempo a vedere il tiro con il sinistro, un fulmine che proietta la sfera direttamente alle spalle di Rui. Sócrates libera tutta la tensione trattenuta e stende le braccia magre al cielo, Raimundo lo solleva, e la scena strappa un sorriso ai vicini di posto che lo guardano divertiti, con le gambette ossute che scalciano l’aria.
Tra questi, anche l’uomo coi baffi, per la prima volta, sorride.
© 66thand2nd
Il libro “Un giorno triste così felice”, di Lorenzo Iervolino, è edito da 66thand2nd e può essere acquistato da qui.
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