Ulrich Seidl è un tipo particolarmente cinico, anche se a lui non piace essere definito così. Lui preferisce considerarsi un realista, soprattutto nel suo lavoro di regista cinematografico, dove per realismo s’intende, ad esempio, mostrare una scena in cui un’estremista cattolica, particolarmente ossessionata dal Signore, finisce per masturbarsi con un crocifisso e a autoflagellarsi in segno di penitenza.
I film di Ulrich Seidl sono riconosciuti per il forte impatto che sviluppano sulle persone, per i colori freddi e per le inquadrature fisse che, strutturate in un’architettura maniacale, sembrano durare in eterno. Seidl riesce a sostenere la tensione emotiva non solo attraverso le tecniche hitchcockiane della ripresa in piano sequenza, ma, più spesso, grazie ad un forzato voyeurismo imposto allo spettatore. L’inquadratura è bloccata su una scena che si compie, e noi non possiamo fare altro che guardare, e continuare a guardare, finché la scena non finisce. Cinico? Realistico? Di sicuro molto scomodo.
Ed è esattamente su questa scomodità che il viennese Ulrich costruisce la sua Paradies-Trilogie, inizialmente pensata come un unico lungometraggio. Paradise: Love; Paradise: Faith; Paradise: Hope.
Questi tre film (forse più i primi due piuttosto che il terzo) sono la nona sinfonia del cinema aguzzino, che ti obbliga a vedere quanto il nostro mondo sia costruito da svolgimenti che crediamo di conoscere, ma che in realtà ignoriamo. Sono film grotteschi, provocatori, dove la rabbia di Seidl verso i propri compatrioti austriaci, verso l’intera nostra società incoerente, bugiarda e disturbata, ci investe come un treno in pieno petto, per insegnarci quanto dura sia la verità.
Attraverso il suo occhio, Seidl ci mostra un’esistenza in cui il concetto di moralità rimane liquido, una società che lascia l’uomo “comune” alla mercè degli eventi: un luogo, il mondo, nel quale le idee di giusto e sbagliato si mischiano e noi non capiamo più da che parte stare.
Il primo dei tre film della trilogia, Paradise: Love, racconta la storia di Teresa, una donna di 50 anni, decisamente sovrappeso, insicura e sessualmente frustrata, che lascia la figlia in un campo estivo per ragazzini ciccioni e parte per una vacanza in Kenya con una sua conoscente. La sua è una di quelle vacanze organizzate all’interno di un enorme villaggio turistico sulla riva del mare. Il duo di amiche, alle quali poi sia aggiungeranno altre due turiste, ha scarsa autostima, ma è desideroso di una rivincita dalle vessazioni ricevute dai loro ex mariti, che le disprezzavano per i loro fisici abbondanti.
Queste donne, le così dette “Sugar Mamas” (donne caucasiche che “offrono supporto economico” in cambio di rapporti sessuali) scelgono di andare in Africa alla ricerca di soddisfazione fisica con i ragazzi del posto. Seidl ci mostra la sofferenza di queste donne, ci fa condividere il loro malessere. Pian piano, poco dopo l’arrivo delle donne in Africa, lontane dalla morale accusatoria che le colpisce nella natia Austria, l’approccio si ribalta, in modo basso e plastico.
Gli attori, professionisti e non, sembra siano parte di un documentario. Le ambientazioni, squadrate e geometriche al limite del sopportabile, sono in contrasto con il disfacimento morale dei personaggi che si compie lungo tutto il film. Le inquadrature, statiche, cozzano con il muoversi goffo dei turisti sovrappeso e con il caos dei giovani keniani che si sormontano uno sull’altro ogni qualvolta gli si propone la possibilità di poter vendere qualcosa alle turiste o, appunto, di vendere se stessi.
Percepiamo, anche grazie alle riprese immobili (ma soprattutto attraverso l’osservazione delle ambientazioni principali), un costante senso di claustrofobia. Da un lato abbiamo i confini del villaggio turistico, dove tutto è costruito per trattenere il villeggiante in un finto paradiso; dall’altro le piccole strade delle baraccopoli dei paesi limitrofi e le stanze minuscole dove gli uomini portano le loro “prede sborsa soldi”. Ma ciò che muove questa claustrofobia tra una scena e l’altra è soprattutto il corpo di Teresa, o meglio, dell’attrice Margaret Tiesel, la protagonista che, attraverso una recitazione talmente reale da farla sembrare visionaria, ci costringe a muoverci come si muove lei, a sentire il suo peso, la sua difficoltà.
All’inizio della vacanza vediamo una Teresa molto insicura, maniaca del controllo e della pulizia. Anche grazie alla disinvoltura della sua amica, riesce invece, pian piano, a lasciarsi andare, approcciando un giovane ragazzo keniano per provare l’esperienza del “sudore nero”, citato più volte dalla sua compagna di villeggiatura. Le cose non vanno però come vorrebbe Teresa. Il giovane, senza nome, preso da un eccitamento sessuale che fin da subito ci appare forzato, non riesce a trattenersi dal possederla, fino a diventare fastidioso ed invasivo. “Tu non mi ami davvero” continua a ribadire Teresa. “Sì sì io ti amo, vieni qua”, risponde il ragazzo mentre l’afferra dove può, in una camera da letto delle baraccopoli del posto. “Quante donne bianche hai portato qui prima di me?” continua Teresa. Queste ed altre insistenti domande, ripetute anche in altre scene del film, costituiscono degli elementi di tristezza dai quali è impossibile sfuggire. Una donna disposta a pagare per venire soddisfatta sessualmente, ma che in cambio richiede anche un sentimento di amore sincero. A Teresa non basta raggiungere il piacere carnale, lei vuole essere ammirata ed amata, vuole essere ascoltata, posta su un piedistallo: soprattutto, vuole essere la sola, l’unica. Un atteggiamento sgradevole, ma a tratti comprensibile, se preso nel contesto che ci viene fornito dal regista. Durante tutto il film siamo attanagliati da un senso che è allo stesso tempo di raggia e comprensione nei confronti sia della donna bianca che degli uomini con cui va a letto: non capiamo chi sia il mostro, chi venga sfruttato da chi.
Dopo il primo approccio andato male, Teresa incontra Munga, uno dei tanti ragazzi che cercano di vendere oggetti ai turisti lungo la spiaggia, e vede in lui un partner che pare capire le sue esigenze. Seguiamo la nostra protagonista mentre viene trasportata, un’altra volta, fuori dal villaggio turistico, catapultata nella realtà delle baraccopoli dove il lusso si valuta attraverso l’avere, o il non avere, una rete per proteggere il letto dalle zanzare portatrici di malaria. Una donna sovrappeso, bionda e bianca, leggermente rossastra, bassa e larga, che cammina con disinvoltura tra uomini e donne magrissimi ed alti, neri, con gli occhi arrossati dal sole e dalla disidratazione: ecco mostrarsi l’anima del film.
Forse sono questi gli unici contrasti che possiamo realmente ritrovare in Paradise:Love. Se è vero che durante tutta la durata del film cerchiamo nella donna austriaca un accenno di redenzione (ed in alcuni casi sembra quasi di intravederlo) a lungo andare ci accorgiamo che in verità si tratta solo di finto perbenismo, strumentalizzato al fine di curare le proprie ferite morali: finiremo per odiare Teresa.
La donna bianca e grassa che sembra stupirsi quando Munga l’ ”abbandona”, dopo che lei non gli ha dato abbastanza soldi.
La donna bianca e grassa che insegna le buone maniere, in ambito sessuale, al ragazzo nero.
La donna bianca e grassa che svilisce il ragazzo al bar e ride come una iena di fronte alla sua preda.
La donna bianca e grassa che disprezza ciò che compra: corpi di ragazzi poveri che, anche se a volte appaiono come degli approfittatori, come dei gigolò di basso borgo, in realtà sono dei disgraziati nati nel lato sbagliato del mondo, disposti ad una tacita prostituzione pur di campare. Una prostituzione peraltro velata, quasi gentile, così da non farla sembrare qualcosa di cui vergognarsi.
Alla fine della pellicola ci sembra di vedere sullo schermo delle scrofe accaldate, che si rotolano tra i loro stessi escrementi e che affamate si indignano se la loro vagina non viene presa d’assalto da qualche fallo nero. Perché mentre all’inizio la protagonista mantiene una sorta di rispetto per se stessa e per l’altro, nel tempo tutto si riduce a semplice carne, sudore e altrui sottomissione. Ce ne andiamo con l’immagine di Teresa sdraiata sul letto che prova a convincere l’ultimo ragazzino nero: “Do you wanna touch the white lady?”
Dopo Paradise: Love, esce Paradise: Faith, presentato alla 69a edizione del Festival del Cinema di Venezia e vincitore del “Leone d’argento ”. Il secondo capitolo della trilogia non poteva che essere presentato in Italia, visto il tema, e non poteva, chiaramente, non creare un classico scandalo tipico del ridicolo moralismo italiano.
La storia portata sullo schermo da Seidl è stavolta quella di Anna Maria, sorella di Teresa e fervente cattolica, disposta a tutto per soddisfare il volere del Signore. Il film si apre con un’inquadratura stativa di due minuti e mezzo che ci mostra Anna pregare in una stanza priva di ogni superfluo, per poi inginocchiarsi davanti ad un grande crocifisso di legno scuro, togliersi la camicia mostrando il seno e, con nella mano sinistra un rosario e nella destra un flagello, iniziare a flagellarsi la schiena, ringraziando il Signore. Non sarà l’unico gesto autolesionistico e penitente a cui Anna si sottoporrà nel corso del film: la vedremo, fra le altre cose, stringersi un cilicio attorno alla vita, percorrere tutta la casa (scale comprese) in ginocchio, prendersi a schiaffi e piangere per continui sensi di colpa.
È il pentimento a diventare il fulcro di tutto il girato. Per noi italiani, assuefatti di Cristianesimo, di bene e di male, di redenzione e contrizione, di sottomissione storica alle regole morali, il film assume i contorni del grottesco, quasi del comico. Anna, interpretata dall’attrice Maria Hofstätter, diventa la caricatura di ciò che sta mostrando, tanto è esagerato il suo credo. Questa donna perfezionista e maniacale, il viso deformato da una smorfia di falso conformismo ed un sorriso a tratti sadico, indossato in modo perfetto, ci stringe in una morsa claustrofobica, in una posa costante. Anna Maria è una donna disturbata dalla nudità, eppure lavora in ospedale come assistente ed è sempre a contatto con persone mezze nude; ha la casa piena di crocifissi e immagini sacre, prega in continuazione, suona l’organo e canta solo canzoni religiose, gira per strada con l’adesivo di “Radio Maria” attaccato sul retro della macchina, eppure è sposata con un vecchio signore mussulmano. È disturbata dalle coppie che hanno rapporti sessuali senza essere sposate, ma contemporaneamente la vediamo afferrare un grande crocifisso nero (forse un richiamo ai falli neri del capitolo precedente della Trilogia) e lentamente infilarlo sotto alle coperte, per masturbarsi. Anche solo immaginarlo ci fa quasi sorridere: proviamo una sorta di compassione per questa donna, vittima della propria religione e del proprio estremismo, ma pur sempre una donna con le proprie esigenze fisiche.
In realtà il vero compito di Anna Maria, oltre a pentirsi ed acconciarsi i capelli in modo ridicolo e perfetto, è quello di dedicare le sue vacanze a girare di casa in casa con una grande statua della Madonna, per provare a convertire le persone, per lo più migranti ed emarginati sociali, al Cristianesimo. È in questo frangente che i giochi si ribaltano. Prima vediamo Anna Maria che insegna ad una famiglia a pregare in ginocchio, poi la ritroviamo a fare la predica ad una coppia (senza alcun risultato, se non quello di essere derisa). Poi avviene un lieve cambiamento; durante una delle sue uscite incontra un uomo, un collezionista compulsivo, che usa il letto dov’è morta la madre come “armadio”. Ad un tratto Anna Maria prova a far inginocchiare l’uomo, per farlo pregare nel modo corretto. Lui è ben disposto a collaborare e prova a ricordarsi le parole delle preghiere, ma rifiuta di inginocchiarsi, perché gli fanno male le ginocchia. “Non siamo fatti per inginocchiarci”, dice ad Anna Maria.
È forse in questa frase che troviamo una chiave di lettura nuova per un film che più che di fede, parla di consenziente sottomissione. Più avanti rivedremo Anna Maria con una giovane alcolizzata proveniente dall’ex Unione Sovietica, la quale prova ad aggredirla e a toccarla sotto la gonna. La spintona, la palpa e, lottando per riavere la sua bottiglia di birra, riesce a spettinare quella sua chioma perfetta, presentandoci per la prima volta un lato umano di Anna, che non si spoglia solo per flagellarsi o lavarsi, ma si lascia togliere la maschera di falsa perfezione, pur di riuscire a salvare qualcuno da un problema reale come l’alcolismo. Sono queste le scene a cui Ulrich Seidl ha dedicato più tempo, passando giornate intere, lui stesso, a bussare di porta in porta per interrogare le persone sul concetto di fede e su come la fede, se già credenti, sia entrata a far parte delle loro vite.
Paradise: Faith assume pian piano l’aspetto di un’enorme predica per adolescenti.
L’immaginario comune (spesso reale) di suore, preti e ferventi cattolici che “predicano bene e razzolano male”, è una minestra fin troppo riscaldata. Seidl in un’intervista rivelerà di essere rimasto sorpreso dalla risposta del pubblico, dal fatto che in sala le persone ridessero in momenti che lui credeva drammatici. “Forse la fede è più facile da ridicolizzare dell’amore”. La predica sembra non finire mai.
Arrivati al terzo capitolo della trilogia, Paradise: Hope, probabilmente non ne possiamo più di sermoni e di questa raggrumata realtà, a tratti talmente basata sull’ignoranza da costringerci al razzismo intellettuale. La protagonista è Melanie, figlia di Teresa e nipote di Anna Maria; il che significa, per forza di cose, una tredicenne insicura, segnata da diversi traumi. Basti pensare che mentre la madre è in Kenya a pagare per del sesso, lei è costretta dentro ad un campus estivo per ragazzini sovrappeso.
L’immagine di questi ragazzi paffuti, con le guance rossicce, messi in riga, contati, pesati, misurati come maiali da macello, è forse la più cupa e desolata di tutto il film. Gli attori sono per lo più non professionisti, e lo si nota subito, scovando la timidezza sincera che mostrano nel mettere a nudo i propri difetti davanti ad una telecamera. Li vediamo alle prese con esercizi fisici come squat e capriole, con corse, piegamenti ed altri movimenti che gran parte delle persone che conosco non sarebbero in grado di sostenere.
Già il fatto che un ragazzino nella piena adolescenza debba perdere le sue vacanze a correre in tondo con altri “suoi simili”, costretto da istruttori intransigenti, peraltro neanche loro in una forma fisica invidiabile, fa venir voglia di trovare i genitori di questi ragazzini e, come dice Theo nel film “The Dreamers” di Bertolucci: “Voglio dire che non basta ignorarli. Dovrebbero essere tutti arrestati e messi sotto processo, costretti a confessare i loro reati, poi spediti in campagna per l’autocritica e poi…La rieducazione!”
Melanie e i suoi compagni di merenda sono segregati in un campus che ha tutto l’aspetto di un ospedale, fatto di lunghi corridoi freddi che sboccano su altri lunghi corridoi freddi e su altri lunghi corridoi freddi ancora. Le camere da letto sono piccole e anguste, come celle di una prigione, ed è soprattutto all’interno di queste camere che i ragazzini si sentono liberi di comportarsi, appunto, da ragazzini. Mentre la giornata si svolge principalmente all’interno della palestra o all’esterno dell’enorme edificio, lontano dal mondo, la sera viene passata in camera: è quello il momento in cui Melanie e le sue compagne riescono a confrontarsi e ad instaurare un rapporto di complice amicizia. Scopriamo che tutti questi ragazzini sono figli di genitori divorziati e tutti descrivono le madri come delle donne talmente desiderose di attenzione da non darne alle figlie. Vengono definite: “ delle adolescenti fuori tempo”. Melanie ha così la possibilità di conoscere delle ragazze con le sue stesse problematiche e di imbattersi in Verena, una ragazza più grande e più esperta che la guida attraverso il mondo della sessualità, qualcosa che Melanie ancora rifiuta, seppur giustamente incuriosita. È proprio questo lasciarsi andare alla curiosità che spinge Melanie nella trappola dell’innamoramento adolescenziale. Subito si infatua del medico del campus, un uomo adulto, il quale, in un modo scherzoso, ma che rivela una pedofilia velata e repressa, scherza con la ragazzina, scavando così il fossato di un equivoco senza sbocco.
La storia raccontata non ha un vero e proprio plot, sembra infatti che il compito del regista non sia tanto quello di raccontare un arco narrativo, quanto, semplicemente, di mostrare un fatto, senza seguire un vero filo drammaturgico. Finiamo per rimanere assuefatti dal grottesco. Capiamo, già dalla prima metà del film, dove la storia andrà a parare, sperando in una svolta: alla lunga ci annoiamo.
Paradise:Hope è la storia di Lolita al contrario. Un American Beauty versione documentario, che al posto della cheerleader provocante vede una ragazzina senza autostima. Nulla può scandalizzarci, perché quella che ci viene mostrata da Seidl è una realtà che tutti noi conosciamo già: lui vuole mostrarci “quello che noi ci rifiutiamo di vedere”. Questo concetto di tabù, che ritroviamo spesso nella cinematografia austriaca contemporanea, è in realtà qualcosa che abbiamo già sperimentato, già normalizzato.
Le brutalità della nostra società sono messe costantemente davanti ai nostri occhi, schiaffate su ogni schermo. Viviamo nell’era della videoinformazione, dove il dolore, la sofferenza e la distruzione altrui sono qualcosa di assolutamente “normale”. Nulla ci può scioccare, perché non siamo più capaci di sentire. E forse è proprio su questo che punta il regista viennese.
Guardare i film di Ulrich Seidl ci aiuta a comprendere la realtà in cui viviamo, mostrandoci, in modo matematico, gli avvenimenti, soffermandosi su realtà che difficilmente riusciamo a scorgere durante il nostro esistere quotidiano. Il cinema di Seidl diventa la finestra sul mondo, solo che al posto di guardare fuori dalle case, qui si guarda dentro. Immobilizzandoci attraverso le sue inquadrature, Seidl ci libera dalla paura di osservarle. Ci riesce in un modo sadico e forse troppo perentorio, ma che ci insegna non solo qualcosa sul mondo, ma soprattutto su una parte di noi stessi.
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