Rachel Monosov ha le palpebre leggermente contratte, come se la luce le entrasse negli occhi. Mi aspetta all’ingresso del suo atelier di Berlino; ha maglia e pantaloni neri, ed è sporca di pittura. È tinta degli stessi colori che macchiano qua e là la stanza in cui lavora, prevalentemente bianca, con la portafinestra su un cortile interno, dove impera una grossa fontana in marmo e cemento, realizzata dall’artista giapponese Reijiro Wada, con cui Rachel condivide lo studio.
Quando entro nella stanza è già tutto impacchettato; Rachel sta per partire per lo Zimbabwe, per un mese, per un progetto da lei curato insieme agli altri artisti del CTG Collective. Peccato, avrei voluto vedere come vive l’ordine o il disordine, i colori, i materiali, in quella piccola stanza. Ma ancora qualcosa si coglie in giro: mentre mi introduce un po’ al suo lavoro in studio, tira fuori da uno stampo in silicone una banana in argilla completamente colorata di verde, che impiastra anche le sue mani. A terra ce ne sono altre di queste banane, una rosa, una marrone; riportano una scritta in russo sul fianco: “la mia prima banana, 1991”. Appena sbarcata dalla nave che dalla Russia la portò in Israele all’età di cinque anni, mi racconta, le regalarono una banana, un frutto che all’epoca le era sconosciuto. Ognuno, mi dice, quando arriva in un nuovo posto, ha il suo primo frutto, il suo primo albero: un simbolo che ricordi il proprio spostamento, una nuova vita.
Rachel partì con sua madre da San Pietroburgo, imbarcandosi da Odessa per raggiungere la famiglia a Gerusalemme, attraccando ad Haifa. Era il 1991, e il nuovo piano di politiche migratorie dell’allora presidente dell’Unione Sovietica, Michail Gorbačëv, permetteva finalmente agli ebrei russi di valicare i confini dell’URSS. Il viaggio durò tre giorni, dovette essere estenuante e, in qualche modo, resta cicatrizzato nei ricordi di Rachel: la bambina che era allora ancora condivide le vivide immagini dell’esperienza con l’adulta che è adesso. E l’adulta che è adesso, compartisce ancora e ancora il suo racconto con chi vive oggi il suo stesso ruolo di migrante.
Durante la sua vita l’esperienza migratoria risulta centrale. Fino al 2012 Rachel vive in Israele, a Gerusalemme, dove conclude il suo master in fotografia. Poi si trasferisce a New York per tre anni; qui inizia a farsi strada nel mondo dell’arte. La sua determinazione, però, la spinge a nuovi confronti con altri media artistici, e nel 2016 si laurea in Film making e Fine Arts a Gent, in Belgio. Mantiene i contatti con New York, dove instaura un rapporto professionale e di amicizia con la sua gallerista, Catinca Tabacaru, ma già da un paio d’anni risiede a Berlino, dove porta avanti la sua attività artistica, nel suo atelier a Prenzlauerberg.
E’ il trenta di luglio, sono passate le venti, Rachel sta vivendo di corsa gli ultimi giorni prima della partenza; deve prepararsi per l’Africa e, allo stesso tempo, per la monografica intitolata The blind leader a New York già programmata per settembre – ora in corso.
Ha fame, mi dice. Il locale a lato del palazzo che ospita il suo studio è un ristorante spagnolo, con una musica fortissima, ma confortevole. Ci sediamo e, mentre aspettiamo che anche Rejiro si unisca alla nostra chiacchierata, beviamo del vino. È stanca, forse, fisicamente. Allo stesso tempo mi sembra piena di energie, nel raccontarsi e nel raccontare tutto ciò che la sua arte si porta dagli anni di formazione sino ad oggi.
Rachel è una viaggiatrice: nonostante sia per lei importante mantenere un dialogo con il suo retroterra, non sente di appartenere ad un posto in particolare. Trascina con sé tutti i suoi luoghi, tutti gli ambienti, i paesaggi, gli spazi che ha esplorato, vissuto, esperito. Li rende tangibili con la sua arte, connettendo terre che, solo dal punto di vista fisico, possono sembrare distanti, ma che, nell’unico habitat dei ricordi, così come nell’unico habitat dell’uomo-animale, sono concatenati, quasi sovrapposti.
Michel Foucault, filosofo e sociologo francese del secolo scorso, provvede, con il termine eterotopia a definire degli spazi che, rimandando ad altri spazi, ne modificano le caratteristiche. Il cinema o il teatro sono eterotopie, ma anche gli ospedali, i centri commerciali, i musei: tutti luoghi nei quali delle regole di comportamento definiscono i criteri creativi di uno spazio. Rachel è affascinata da questo concetto e lo esamina nella mostra The blind leader, aperta fino al 28 ottobre presso la Catinca Tabacaru Gallery di New York.
Mi mostra sullo smartphone le installazioni già montate. Un cilindro di rete metallica a maglie fine ed ampie è aperto in due metà appoggiate al muro bianco della galleria. Rachel è rannicchiata in una delle due parti, arginata e ostacolata nei movimenti dalla rete stessa. Vuole giocare sulle limitazioni che gli spazi creano, mi dice. Cambia fotografia: due piccoli cactus ancorati al muro sono disposti, tramite dei supporti, in modo che le punte, una all’ingiù e una all’insù, si guardino, senza però toccarsi. Una mano può passare tra i due cactus, mi spiega, ma non può spingersi troppo in alto o troppo in basso, perché rischia di pungersi.
Dietro alla possibilità/impossibilità di movimento, al desiderio di compiere un gesto, contrastato dalle restrizioni che lo impediscono, si disvela una fine dialettica: da un lato i bisogni del corpo del singolo che, entrando in una galleria, sperimenta i propri confini fisici. Dall’altra una morale più politica, che gela gli equilibri con le sue regole, nelle quali i confini, non più fisici, ma virtuali, impediscono la libertà di azione, fino a compromettere la dignità umana dei coinvolti.
La provocazione è evidentemente legata all’attuale tema della migrazione, e Rachel constata che tutti, alla soglia dei cambiamenti culturali e sociali che il tempo promuove, siamo, siamo stati, saremo migranti. Con le limitazioni che ne conseguono. Si legge nel flayer introduttivo della mostra: Each of us will stand as newcomer at this threshold between ages, and each of us will, in that sense, bear some imprint of the refugee experience. […] The Space In-Between creates a sense of the never ending balancing act that all who cross borders have with the sharp ends of authority.
Gli artisti devono occuparsi delle problematiche attuali, sostiene Rachel. Trova però che possa essere complesso, talvolta, esprimersi riguardo ad eventi che accadono in un paese che non è il proprio; allo stesso tempo ammira chi si espone in tal senso e riesce a trasmettere la propria opinione. Le chiedo cosa ne pensi della vicenda che coinvolge lo street artist napoletano Jorit Agoch, arrestato il ventotto luglio (e rilasciato un paio di giorni dopo dalle autorità israeliane) in Cisgiordania per aver rappresentato il volto di Ahed Tamimi, attivista palestinese, sul muro di separazione tra Israele e Palestina. Mi risponde che non conosce il caso specifico, ma che bisogna stare attenti a captare il confine tra la provocazione politica e l’immagine che diventa un brand. Ti dico qual è il mio problema con questa domanda: quando si parla di Medio Oriente non ho più la stessa percezione che potevo averne un tempo, vivendo ormai da diversi anni in Occidente. È invece importante, soprattutto nelle questioni delicate, essere sempre molto informati per dare un’opinione precisa, per rilasciare grandi dichiarazioni. Cioè credo che bisogna essere molto preparati su un argomento per poterne parlare a dovere, senza farlo per attirare attenzioni. Ma apprezzo gli artisti attivi nelle questioni politiche e sociali: molta arte che viene da Israele, ad esempio, è politica perché l’immersione nelle vicende sociali e politiche è piena e quotidiana; traspare nell’arte, per l’aria che si respira in casa, all’università, ovunque.
Se, generalmente, tutte le informazioni in cui ci imbattiamo, specialmente quando non ci riguardano in modo specifico, sono veicolate, in modo che crederci o non crederci dipenda esclusivamente da noi, di certo si può affermare che vivere uno spazio (un territorio, una nazione, un continente) non è come vivere il suo riflesso di informazioni, tornando in argomento eterotopie. Vero e falso non sembrano avere più un confine, sul piano della realtà.
Questa duplicità, sottoforma di costante dubbio e stimolo alla curiosità della domanda, è piuttosto presente nei lavori di Rachel, e forse emblematico è il progetto fotografico 1972, realizzato con l’artista zimbabwese Admire Kamudzengerere (con il quale partecipa alla scorsa edizione della Biennale di Venezia con la performance Transcultural Protocol).
Il progetto viene presentato a Chicago nel settembre del 2017: una serie di fotografie in bianco e nero ritraggono R. e A., (Rachel e Admire o, invece, due attori che si prestano a un ruolo?), una coppia sposata che vive ad Harare, in Rhodesia (l’attuale Zimbabwe), che tra il ’65 e il ’79 fu una colonia britannica. Le fotografie sono tutte datate 1972, e in quell’epoca i matrimoni interraziali erano illegali. R. e A. sorridono; nell’arco di un anno si svolge la loro vita insieme: fidanzamento, matrimonio, figli. Guardando le immagini tutto sembra a posto, tutto appare normale. Ma lo è? Una serie di domande scaturisce implicitamente: l’atto performativo dietro queste fotografie si mostra come arte o come realtà? Lo stato d’animo che traspare era reale in quel momento, o una finzione dettata dall’obiettivo? I due si trovavano veramente ad Harare o era tutto costruito, ancora una volta in un’eterotopia, nel set fotografico? In qualche modo in queste fotografie è lo stesso tempo a configurarsi come spazio, a creare un ponte tra il presente e il passato, tra l’effettività e la possibilità, nell’incastrarsi di più realtà l’una dentro l’altra.
Vero e falso, di nuovo, non conoscono i loro limiti, tanto che, nel corso della conversazione, resto nel dubbio che Rachel si sia sposata veramente con Admire durante la realizzazione del progetto. Ma al di là della veridicità delle loro nozze, la collaborazione tra i due artisti è attiva già da tre anni. E Harare continua ad accogliere i loro progetti, insieme a quelli del collettivo CTG, fondato da Rachel insieme alla gallerista Catinca Tabacaru e all’artista Justin Orvis Steimer nel 2015. Rachel mi dice che la recidency (un progetto open call in cui artisti, provenienti da tutto il mondo, possono partecipare confrontandosi e lavorando insieme) organizzata dal collettivo con cadenza annuale, la carica di una forte energia che incrementa la passione per il suo lavoro. Al momento dell’intervista mancano due giorni alla sua partenza per la residency in Zimbabwe.
È tardi, Rachel deve ancora terminare qualche lavoro nello studio. Ho trovato molto interessante e piacevole la nostra serata, ma comprendo la sua stanchezza e le chiedo solo un’ultima curiosità. È un po’ irriverente forse, ma dettata dalla mia estraneità al mercato dell’arte. Le domando quanto sia difficile “fare l’artista”, se sia possibile vivere esclusivamente della propria arte. Mi risponde che la situazione è paradossale: molto spesso gallerie, musei, e tutte le istituzioni che ospitano mostre, si preoccupano di finanziare la macchinazione dell’allestimento, provvedendo alla compensazione di tutti i membri della catena, tranne gli artisti. Cioè non soltanto gli artisti sono gli unici a non essere affatto pagati: devono anche provvedere da soli, senza sovvenzioni, alla realizzazione dei propri lavori. E la cosa più assurda, mi dice, è che molto spesso gli artisti economicamente non possono neanche permettersi quello che loro stessi producono.
A quanto pare, quindi, no, non è facile vivere facendo l’artista (o solo l’artista); le chiedo, forse per provocazione, se lei ci riesca: Io vivo al cento per cento della mia arte… Pazzesco.
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Immagine di copertina: Rachel Monosov, Waiting Room, metal fences, 100 x 160 cm, 2018
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