Illustrazioni di Juice Head
Quando mi sento sola accendo il computer e guardo le foto dei miei genitori. Le loro facce pixelate che sorridono piatte sul monitor mi danno conforto. L’ho detto a Stephan, l’altro giorno, e lui ha riso. “Cosa penserebbe la Mahler di te?”. Chi?, ho pensato mentre dissimulavo la mia ignoranza dietro un finto sorriso complice. Un attimo dopo ero su Wikipedia. Margaret Schönberger Mahler avrebbe compiuto 120 anni lo scorso 10 maggio, se non fosse morta trent’anni fa. Era una scienziata, una fisica, una psicoterapeuta e anche un po’ psicoanalista. È famosa per aver elaborato una teoria dello sviluppo infantile nota come processo di individuazione e separazione. Una rivoluzione nel campo della psicanalisi e delle teorie dello sviluppo a quei tempi. Mi piacciono le rivoluzioni, penso. Ancora di più se attuate da donne. Ma continuo a chiedermi cosa dovrebbe mai pensare la Margaret di me. Allora vado avanti a leggere.
Differenziazione
Mia madre fuma. Quando ci addormentiamo, di sera, avvicino il mio viso al suo cuscino per sentire quel fiato che sa di caramella sporca. Mi sveglio nel cuore della notte e lei non c’è. Non ho più sonno, perché anche se ho solo quattro anni non mi piace pensare a lei che entra nel Centododici freddo e mette in moto per andare a lavorare. Mia madre è così giovane che a malapena ricorda il significato dei cartelli stradali, ma io questo non lo so.
Il bambino comincia a differenziarsi dalla madre e sperimenta per la prima volta reazioni di angoscia quando lei lo lascia.
Mi alzo piano dal letto per non svegliare mio padre, che invece è già un adulto e ha il sonno stanco degli adulti. In cucina tutto è giallo sotto la luce della lampada. Mi arrampico sul tavolo e mi allungo verso il bottone nero e sporgente della televisione, che si accende con un fruscio elettrico, come quando mi spazzolano i capelli troppo a lungo. Nel cuore della notte, alla tv ci sono solo uomini con gli occhiali seduti su poltrone di velluto accanto a donne scollate e io non capisco i loro discorsi. Le loro voci sono una cantilena senza senso che, per quanto mi sforzi di credere il contrario, non ha lo stesso effetto della caramella sporca che mia madre tiene in bocca la sera e mi soffia piano sulla testa.
Sperimentazione
Sono sul divano e sto provando a leggere “Piccole Donne” per la quarta volta. Non ci posso fare niente se questo romanzo mi fa schifo. Mio padre è in bagno e si sta preparando per andare a lavoro. Indossa dei pantaloni scuri e il solito giubbotto di pile blu sul quale in alto a sinistra è cucito il simbolo verde e bianco delle Ferrovie dello Stato. Con la coda dell’occhio seguo ogni suo movimento e non capisco se sia lui a distrarmi dal libro o se sia io a voler cercare una scusa per non leggerlo. Ad ogni modo mi arrendo. Le mie compagne di scuola sono convinte che sia un romanzo bellissimo.
Le mie compagne l’altro giorno sono arrivate in classe stringendo tra le mani due pacchi di assorbenti che poi hanno nascosto dietro dei vecchi cartelloni arrotolati nell’armadio dei quaderni. “Non si sa mai quando può arrivarti il primo ciclo”, mi hanno spiegato. Io sono tornata a casa e mi sono fiondata in bagno, analizzando ogni millimetro delle mie mutande a motivo “coniglietti”, alla ricerca di macchie di sangue. Mia madre, vedendomi, ne ha riso e io mi sono sentita stupida.
Il bambino crea ora una distanza ottimale con il genitore e riesce a controllare la sua paura della separazione, esplorando e familiarizzando con ciò che lo circonda.
Mio padre si affaccia sulla porta del salotto e io lascio scivolare il libro accanto a me sul divano. “Vado!”, dice, e si sporge per baciarmi sulle labbra, come ha sempre fatto ogni giorno da dodici anni a questa parte. Di fronte a quella faccia immensa con i baffi curati che conosco a memoria mi rendo conto quanto poco di me stia cambiando, a differenza delle mie coetanee, e quanto questo mi faccia arrabbiare. Così respingo mio padre con una mano senza dire nulla. Lui si tira indietro e mi guarda in un modo che non riesco a decifrare, e io sento che qualcosa dentro di me è morto. E probabilmente anche in lui.
Riavvicinamento
La luce gialla dei lampioni entra nell’abitacolo della macchina a intervalli regolari, mentre procediamo ai sessanta all’ora sulla circonvallazione verso casa. C’è un silenzio di pietra. Il riscaldamento produce un ronzio continuo che divide me, sul sedile del passeggero, da mia madre, alla guida. Uscendo dalla palestra, qualche minuto prima, Giulia mi aveva dato una pacca di incoraggiamento sulla spalla: “Parlale, lo apprezzerà”. Lei a sua madre racconta tutto. Le ha detto di quella volta che si è fumata due canne di fila alla festa di Mauri e pure del pompino. La saluto con un gesto del capo e alcuni ciuffi di capelli bagnati mi scivolano dalla coda, ricadendo molli sulla felpa della tuta.
In seguito a una serie di processi di avvicinamento e allontanamento dal genitore, il bambino è ora capace di sopportare attese e frustrazioni.
Mia madre seduta dentro la macchina ad aspettarmi sembra lo sfondo di un quadro, una visione ovvia, come i movimenti automatici di certi muscoli involontari nascosti nei meandri del corpo. Quando ci rifletto mi sento male, perché mi sembra di darla per scontata. Penso a tutto quello che non posso condividere simultaneamente con lei. Ad esempio quando quel ragazzo più grande è venuto a parlarmi alla festa in piscina provocando da qualche parte dentro di me uno strano stridore, come due lastre di vetro che sfregano l’una contro l’altra senza però infrangersi. Facendomi desiderare all’infinito la ripetizione di quello scontro, ruvido e fluido allo stesso tempo. Salgo in macchina e mi sistemo sul sedile. Mia madre ingrana la prima e si volta a guardarmi. Le sto per raccontare della mia prima volta. Forse lei si commuoverà perché finalmente anche io sono una donna come lei. Non ci saranno più silenzi tra noi.
Costanza dell’oggetto
In questa ultima fase del processo di individuazione e separazione il bambino prende coscienza di sé come individuo e percepisce il genitore come identità a sua volta separata.
Sono diventata adulta una sera di aprile, al telefono con mia madre. È accaduto tutto alla svelta. Lei mi ha detto: “Ho un tumore”.
Da piccola credevo che prima o poi ci sarei riuscita, che sarei diventata invisibile per poter spiare gli altri indisturbata. Ora invece lo so, non si può ottenere sempre ciò che si vuole, nonostante lo si desideri tanto. Non ho potuto farmi carico del dolore di mia madre, ad esempio, perché non sono lei. Sono un essere umano autonomo, un ammasso di carne momentaneamente viva, e la mia esistenza prescinde da qualsiasi tipo di legame. L’ho capito osservando le teste glabre di decine di donne sedute nella sala d’aspetto di un istituto oncologico. Camminando di notte lungo le strade insolitamente silenziose della mia città, d’estate, quando il contrasto tra il male che mi inquinava dentro e la calma apparente della realtà circostante strideva al punto di farmi desiderare di non sentire più niente. Pensando alla morte mi sono sentita sopraffatta dal fatto di essere viva, come se non lo meritassi. Poi ho capito che avrei dovuto sfruttare questa consapevolezza. Estrapolare l’eccesso di vita che abbondava in me, donarlo a chi in quel momento ne deficitava. Credo sia stato quello il momento in cui è cambiato tutto, quando sono riuscita a sentirmi di nuovo vicina a mia madre, di nuovo utile. È stato così che ce l’abbiamo fatta, entrambe.
Leggo e rileggo tutto ciò che ho trovato in internet su Margaret Mahler. Se potessi tornare un po’ indietro nel tempo, a quel pomeriggio in fondo alla scalinata del museo, saprei cosa rispondere a Stephan e alla sua affermazione sprezzante. Che è una stronzata. Che tutti ci stacchiamo. Che tutti rimpiangiamo di non aver fatto questo o quello, o di non essere stati perfetti. Tutti, prima o poi, cresciamo. E nonostante questo non smetterò di guardare le foto dei miei genitori quando mi sentirò sola, che agli altri piaccia o no. So che Margaret sarebbe perfettamente d’accordo con me, mi darebbe una bella pacca sulla spalla e io mi sentirei, per una volta, una bambina assolutamente normale.
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Illustrazione di copertina: © Juice Head
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