A mia madre è stato diagnosticato un cancro nel febbraio del 2017. Il risultato di un gene mutato, il BRCA1, dagli effetti devastanti. È più diffuso di quanto si creda. Se siete stati testimoni, o avete conoscenza, di un numero sospetto di casi di tumore in famiglia, verificate. Ci sono degli istituti che offrono il test. Io, ad esempio, l’ho effettuato gratuitamente a Bolzano.
Mia madre ha passato i suoi ultimi giorni a casa sua, dal 30 giugno al 13 luglio, dove la sua famiglia l’ha assistita con amore e nel dolore. Lei avrebbe preferito buttarsi dal piano dell’ospedale in cui le hanno annunciato che non c’era più niente da fare, piuttosto di patire quello che ha patito, e di coinvolgere noi in tutto quel male. Lo ha detto chiaramente, più volte. Purtroppo, però, in Italia non viene riconosciuto il diritto di decidere della propria morte, anche in casi estremi. Per mia madre, la legge non ha avuto nessuna pietà.
Questi sono i pensieri che ho raccolto giorno per giorno mentre stavo con lei durante le sue ultime due settimane di vita, senza nessuna revisione. Rileggendoli mi è venuta la tentazione di cambiarli un po’, perché mi sembravano strani, ma non l’ho fatto. Non è possibile descrivere quello che abbiamo passato, è troppo complesso, è troppo stancante e straziante, ma questo ne è un piccolo squarcio. Spero faccia luce sulle conseguenze sulla vita vera di quelle scelte istituzionali che si prendono il diritto di giocare con la morale.
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Mia madre è un piccolo pesce vischioso. Dorme. Il suo cranio liscio e la sua manina stretta attorno ad un fazzoletto spuntano timidi dalle coperte. Ogni tanto mentre dorme singhiozza. Mi sembra di vedere una pinna che si dibatte piano sotto alle lenzuola.
Pensiero inopportuno n.1. I suoi occhiali da sole mi stavano bene. Presto potrò mettere i suoi occhiali da sole quindi non serve ne compri un paio.
Quando mi riconosce mi abbraccia. Sorride un poco, poi le si bagnano gli occhi, sono come coperti da squame. Lo vorrei liberare nel mare questo piccolo pesce, che qui sta solo aspettando di morire soffocato un poco per volta. Piango fino a quando non riesco più a vedere niente né a pensare a niente. Lei mi dice. Che brutto raffreddore. Mi prende in giro.
Per lo più, non parla. Fissa un punto lontano e piega la bocca all’ingiù. Fa no con la testa. Lo so cosa pensa. Pensa. Che vita di merda. Me l’ha detto tante volte nel corso degli anni, che la sua è stata proprio una vita di merda.
Pensiero inopportuno n. 2. È eccitante quello che sta succedendo. Io sono già non più io. Non c’è niente al mondo che mi potrà mai spaventare, dopo aver visto mia madre diventare un piccolo pesce e poi morire.
Sono assolutamente convinta che a nessun essere vivente dovrebbe essere permesso di soffrire in questo modo, e che a nessun essere vivente dovrebbe essere permesso di vedere qualcuno soffrire in questo modo.
Mia sorella dice. Non è possibile, non è possibile, ci vorrebbe un’overdose, ci pensavo prima, io non mi sono mai drogata, sai, ma non dev’essere affatto male morire per un’overdose, no, per niente male finire con un’overdose.
Ricordo n. 1. Cosa ti faccio da mangiare? Ti preparo tutto quello che vuoi.
Ricordo n. 2. Cosa ti serve? Ti mando tutto quello che vuoi.
Ricordo n. 3. Non mi racconti mai niente.
Ogni tanto vedo delle cose, allora un uomo invisibile corre all’impazzata verso di me attraverso la stanza e mi trafigge la gola con la sua lancia invisibile. Vedo la borsa da shopping di mia mamma appoggiata su una sedia, è una cosa costosa ed elaborata, come i vestiti che le piaceva mettere anche solo per andare a stendere i panni in terrazzo. Di rimando vedo quella borsa com’era quando pendeva dal suo braccio prima di uscire, la vedo che ciondola mentre facciamo il vialetto per andare a prendere la macchina, la vedo sistemata sul sedile dietro e sento lo sbattere della portiera, poi guardo nello specchietto retrovisore e vedo gli occhi di mia mamma, quando ancora non avevano le squame, e allora la mia gola inizia a sanguinare, sanguinare, sanguinare e mi chiedo come farò a vedere tutte le cose che le appartengono senza di lei a dargli uno scopo, e a non morire dissanguata.
Pensiero inopportuno n. 3. Quella cosa non è mia madre.
Sapere inopportuno n. 1. La psicologa mi dice che sono sempre stata così terrorizzata dalla morte di mia madre perché probabilmente durante l’infanzia ho percepito una fase di abbandono. La rabbia provata per quell’abbandono si è tradotta nel desiderio di uccidere mia madre. Ma un bambino non riesce ad accettare ed elaborare un pensiero simile, quindi per gestire il senso di colpa provato da quel desiderio, lo trasforma in un generico terrore di vedere morto il proprio genitore, che si porta dietro tutta la vita.
Ci vogliono due persone per portarla in bagno. Una che sostenga i suoi 38 chilogrammi di ossicini divorati dal cancro perché non cada e si sbricioli, e una che trascini in giro il sostegno per le flebo.
Ricordo n. 4. Va bene se vuoi andare a Berlino. L’importante è che non ti sposi e non fai figli.
Ricordo n. 5. Questo posto di merda, questa casa di merda. Ho lavorato tutta la vita per non avere niente, neanche un po’ di gratitudine.
L’infermiera mi spiega come si fa un’iniezione di morfina. Mi chiede se sono preoccupata. Le dico. No, io non mi agito mai. Di notte mi metto su un divano fuori dalla porta della sua camera. A volte sento. Margherita! Margherita! La prima volta che mi alzo la trovo sdraiata sul letto, senza coperte, con le gambe piegate e le braccia alzate verso il cielo che si dimenano in un movimento che vorrebbe essere veloce ma non ne ha la forza. Gli occhi sono un pozzo, sono talmente neri e profondi che sembrano risucchiare la forza di gravità, c’è tutta la sofferenza del genere umano condensata in quelle due gocce nere come il male. Non penso. Sono pronta a tutto e nello stesso momento non sono pronta a niente. Lei si gira e mi dice. Devo fare la pipì.
Pensiero inopportuno n. 4. Pur di tenerla qui con me accetterei soffrisse per sempre.
Mi guardo allo specchio e più lei se ne va, più mi sembra di assomigliarle.
Pensiero inopportuno n. 5. Vedo le persone più vecchie di mia madre camminare e stare bene e le odio.
Le chiedo a cosa pensi. Mi dice. Niente.
Mi dice. Ti sei lavata i capelli. Sei proprio bella.
Ci sono dei momenti in cui sono tranquilla. Vedo tutto in modo chiaro, mi allontano, allora io non sono più io, sono tutte le figlie esistite in ogni parte del mondo, e mia madre non è mia madre, è tutte le madri che hanno cresciuto una prole nel corso infinito del tempo, e la morte non è cattiva, non è ingiusta, è una creatura dolce, incompresa e maltrattata, che viene con buone intenzioni, solo per permettere a qualcosa di crearsi, a un ciclo di ripetersi, a una storia di finire di raccontarsi.
Mi sistemo in una stanza con uno di quei citofoni per sentire se i bambini piangono. La sento respirare. Non riesco a dormire perché ho paura che ogni respiro sia il suo ultimo, e rimango tutta la notte in sospeso.
Sapere inopportuno n. 2. La morte di mia madre è sempre stato uno dei miei incubi più grandi. Per questo ho iniziato a prepararmi ad essa quando ero una bambina. Tutte le notti facevo il conto di quanti anni avrei ragionevolmente avuto quando lei sarebbe morta, inserendo nel calcolo una dose di pessimismo per godere di qualche anno di sollievo in più, quando il tempo stimato sarebbe arrivato. Avevo stabilito se ne sarebbe andata quando io avrei avuto 38 anni. Anche pessimisticamente, ho sbagliato di sette anni. Un altro modo per prepararmi alla morte di mia madre, è stato il distacco emotivo. Non ho mai accettato il suo affetto, o almeno non tutto. Mi sono sempre dimostrata insofferente ad ogni dimostrazione fisica di amore e, quindi, non ho mai espresso fisicamente il mio. A dir la verità, non l’ho mai espresso né fisicamente né verbalmente. Questo meccanismo di difesa mi è divenuto manifesto solo un anno fa, prima il tutto avveniva in modo inconscio: mi stavo inconsapevolmente proteggendo dall’abbandono – fittizio o reale che sia stato – sperimentato durante l’infanzia. Così adesso ho un grumo d’amore grande come un pianeta dentro un’arteria che non sarà mai per nessuno, mentre avrebbe potuto rendere un po’ più felice lei.
La sento lamentarsi. È un lamento diverso, più sottile, più lungo, più acuto. Le chiedo se ha male. Mi dice. Sì. Le chiedo se ha male alla schiena. Mi dice. No, non è quel tipo di male. Le chiedo cosa la faccia stare male. Mi dice. Mi dispiace che vi sto creando disturbo, non volevo succedesse così.
Le infermiere vengono due volte al giorno, di mattina e di sera. Mio padre dice loro frasi altisonanti e strane come “Che Dio vi abbia in gloria per il lavoro che fate”. Poi tiene loro la mano per un tempo troppo lungo che le imbarazza.
Mio padre approfitta della situazione per fare le cose che non ha potuto fare durante gli ultimi trent’anni con mia madre, ad esempio. Sederle vicino. Parlarle. Ogni tanto toccarla.
Le chiedo se vuole parlare con uno psicologo. Mi dice. No, io non ci credo a quelle cose. Le chiedo se vuole parlare con un prete, allora. Ride.
Tutti mi sputano addosso non sollecitati consigli su cosa dovrei fare e su cosa dovrei dire, mi fanno morali sul rimorso e recitano sermoni sulla condivisione affettiva. Vorrei prendere le loro facce fra le mani e vomitargli violentemente in bocca.
Non riesce più a muoversi da sola. Ogni tanto si sveglia. Spalanca gli occhi. Trema. Dice. Aiuto, aiuto, che male, che male. Vorrei squartarmi la pelle, aprirmi a metà e mettermela dentro lo sterno, infilata fra una scapola e un polmone, tenermela là stretta, mentre io assorbo il suo dolore, tutto questo dolore inumano, e invece non posso fare niente, non c’è niente che possa più fare.
Non parla più. Probabilmente non sentirò più la sua voce.
Mia madre è il simbolo di una generazione che si è sacrificata. Che è cresciuta nella povertà, è stata giovane nell’impossibilità di scelta ed è diventata adulta massacrandosi di lavoro. Di una generazione che ha fatto tutto per i figli perché si è accorta che non avrebbe mai goduto la vita in prima persona, e quindi ha dato, ha dato, ha dato finché ha dimenticato come si fa a prendere indietro qualcosa. E mia madre non ha mai voluto niente di ritorno, dopo tutto quel dare, non ha mai chiesto niente, pensando di farci un favore, mentre invece si è tolta la possibilità di vivere meglio e ha tolto a noi la possibilità di restituirle qualcosa. Lo sta facendo anche nei suoi ultimi giorni. Ha deciso di non parlare, di dire il meno possibile, di chiedere aiuto solo quando strettamente necessario, di rispondere sempre “bene” quando le chiediamo come sta, di rispondere sempre “niente” quando le chiediamo di cosa ha bisogno. È stata la sua ultima scelta per proteggerci. Non permettere ai suoi figli di vedere i suoi pensieri, lasciarci sperare che sia troppo confusa per realizzare che cosa le sta succedendo. Ma noi la conosciamo, sappiamo che lei c’è ancora là dentro, e che non cambierà idea neanche durante l’ultimo secondo. Nel suo silenzio c’è tutta la ribellione verso una vita ingiusta e una morte miserabile. Né la vita né la morte la vedranno rompersi, la vedranno mai versare una lacrima. Lei ha deciso per loro di andarsene a suo modo, prima di aver avuto bisogno di essere sollevata per alzarsi, prima di aver richiesto aiuto per essere pulita e cambiata d’abito, molto prima che i polmoni collassino o che il cuore smetta di battere. Se avesse potuto, avrebbe scelto di morire l’esatto istante in cui le è stato detto che non c’era più niente da fare. Ma non era possibile farlo, e a noi non avrebbe mai chiesto di compiere un atto che ci avrebbe perseguitati per sempre. Allora ha deciso così. Il suo silenzio è il suo vaffanculo alla vita, alla morte, e al resto del mondo.
Dorme. L’infermiera dice. Probabilmente non si sveglierà più.
Pensiero inopportuno n. 6. Mi fa impressione toccarla.
Ho paura che questi giorni rovinino per sempre il ricordo che ho di lei.
Non si è più svegliata. Quando parlo di lei mi devo correggere all’ultimo perché è più forte di me parlarne al passato.
Mi sveglio e mi viene in mente una cosa che voglio assolutamente dire a mia madre. Mi sono dimenticata che lei non risponde più.
Mia madre è un filetto di alice. No, è una lisca di alice, è spigolosa ed asciutta, anche il colore della sua pelle ha preso un qualcosa di acquatico.
La persona che dorme nell’altra stanza non è più mia madre. È un essere umano di cui ci stiamo prendendo cura, ma mia madre non c’è più. O meglio, il mio non avere accesso a lei la ha depersonalizzata, e il suo non più essere in grado di esprimere coscienza la sta portando via ogni minuto più lontano, verso una morte che sarà prima mentale che di fatto.
Lei si sarebbe volentieri bruciata viva piuttosto di vedersi ridotta in questo stato.
Riesco a formulare solo piccoli pezzetti di pensieri, la mia memoria si esaurisce nell’arco di secondi. Non riesco a pensare a lei, alla totalità della sua persona, alle memorie condivise, alle speranze che ha lasciato, alle sofferenze che ha patito, non riesco a comporre l’immagine di una donna forte e complessa, con desideri e un’intelligenza pronta, con manie, nevrosi, peculiarità ed una propria storia. Il mio cervello funziona come una partita di tetris, completo la frase di una riga e quella automaticamente si cancella. La riflessione più articolata che riesco a formulare è. Mia madre (madre come entità astratta e bidimensionale) si è ammalata (malattia come generica forma di decadenza corporea che è naturale colpisca l’essere umano) e morirà nell’arco di poche ore (morte come concetto vago e superficiale come può essere inteso da un bambino).
È in stato comatoso da quattro giorni. C’è sempre qualcuno in camera seduto vicino a lei. La sua famiglia che la accompagna. C’è un coro che la circonda, un sabba, un rito non programmato di veglia per non abbandonarla. Ma la notte sono da sola. Il pensiero che muoia di notte quando sono da sola e non c’è nessuno al suo fianco mi dispera.
Il medico dice. Non capisco come resista ancora. L’infermiera ripete. Non capisco.
Pensiero inopportuno n. 7. Voglio i dettagli morbosi di quello che sta succedendo in quel corpo.
Ricordo n. 5. Io che non capisco tutto quel suo lavorare, l’ossessione per spaccarsi la schiena. Non li capisco e mi oppongo, non aiuto mia madre perché credo che lei ne possa fare a meno, che la sua sia una nevrosi assurda, una malattia, una mancanza mentale. A volte penso che lo faccia apposta per buttarcela in faccia, tutta la fatica che fa. Guardami, guardami come lavoro e lo faccio per te, mentre tu non mi dai niente in cambio, guardami mentre deperisco e mi lamento, senti la mia sofferenza, ascolta il mio essere infelice. Allora la schernisco perché sono offesa, perché voglio cambiarla invece di accettare quella che è, perché sono egoista e non ho compassione. E lei da parte sua non lo capisce che tutto quell’altruismo, quel sacrificarsi per gli altri senza rispettare se stessa è una forma di egoismo e di mancanza di compassione anch’essa, e contribuirà alla sua morte prematura nel dolore e nella miseria, in un letto ridotta ad uno scheletro, un giorno.
Sono seduta in cucina che bevo il caffè, è pomeriggio e c’è tanta gente, il sole batte sul terrazzo che sembra lo voglia ammazzare, di fuori i cuginetti giocano a pallone, dentro invece ci sono tutte le zie, le mie cugine, i miei fratelli e mio papà. Ci diamo il turno a stare in camera con la mamma, le facciamo sentire che siamo qui, anche se lei ormai gli occhi e la bocca non li apre da giorni. Gliel’abbiamo detto tutti oggi, che se vuole se ne può andare, che va bene se vuole andarsene, che noi siamo pronti e staremo tutti bene, con un pezzo in meno ma bene lo stesso. Tutti parlano e si offrono cibo – il cibo, il più grande surrogato dell’affetto dacché si abbia memoria – Sembriamo una di quelle famiglie veraci del sud ma senza i baci e gli abbracci, siamo talmente incapaci con i sentimenti che sembriamo le palline di una partita di biliardo, ci tocchiamo solo in fretta e poi rimbalziamo imbarazzati dall’altro lato della stanza girandoci di schiena. Sono in cucina che bevo il caffè e ho appena finito di dire a mia cugina che sono troppo stanca anche per essere triste, quando arriva una zia che inizia a parlarmi. Io penso che voglia offrirmi ancora del cibo, e invece no. La zia mi guarda senza espressione e mi dice. Non respira più. Allora io mi alzo e vado di là in camera, guardo mia madre e tutte quelle donne là raccolte che la curano ancora, non riescono più a fermarsi, curare mia madre morente è diventata una protesi della nostra essenza, l’unica cosa che ci dia un senso e ci ripari dal futuro. Ferma sulla porta verso tre lacrime. Le conto, sono tre calde e nitide lacrime che mi cadono pesantissime sulle guance. Poi basta. Poi sorrido.
Pensiero inopportuno n.8. Sono sollevata.
Pensiero inopportuno n. 9. Non esistono pensieri inopportuni.
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