‘Allora, ce l’hai un uomo a Londra?’
Mia nonna ha avuto la grazia di chiedermelo quando siamo solo io e lei, sedute sul divano, L’Espresso aperto sulle sue ginocchia. È il giorno prima del pranzo di Natale a cui parteciperanno anche tutti gli altri famigliari. Chi sa chi altro porrà l’annosa questione.
‘No,’ ho dovuto urlare, non per l’esasperazione, ma perché lei non ci sente più molto.
‘Bene così,’ mi dice.
Mi ricordo una volta a pranzo da lei, facevo ancora il liceo. Mio fratello si alzò da tavola per rispondere al cellulare, era la sua ragazza. Mia nonna si girò verso di me, che siedo sempre alla sua sinistra, e disse: ‘Più tardi ti fidanzi meglio è.’
Io ora sorrido complice e aggiungo:
‘Tutti gli uomini di cui sono innamorata sono o morti o personaggi inventati.’ E appoggio il dorso della mano sulla fronte con fare melodrammatico.
Lei anche sorride, ma so che in realtà non ha sentito. Fa niente, tanto è l’altro lato della famiglia che ha un senso dell’umorismo bizzarro. E comunque è una bugia. O meglio un’inesattezza. Esiste su questa Terra e in questo mondo una persona in carne ed ossa per cui io ho un’infatuazione prepuberale. Ho evitato di menzionarla non per pudore, ma perché sapevo che ne sarebbe derivato un dibattito politico. Mia nonna ha ottantanove anni e il quaranta per cento delle sue giornate è occupato dal leggere giornali e riviste di approfondimento. Io invece sono una capra, di attualità leggo poco e niente, ed ogni tanto mi vergogno a rendere evidente quanto poco mi interessi di questo aspetto della vita.
Comunque, che io mi tenga aggiornata o meno, l’uomo dei miei sogni è Barack Obama.
‘What?’ ha boccheggiato la mia coinquilina incredula, il giorno che dopo qualche bicchiere post-prandiale ci dicevamo cazzate. ‘Man, he’s so hot!’ Non c’era neanche bisogno di dirlo.
Quando ho visto la prima puntata di Fleabag, in cui la protagonista si masturba davanti ai discorsi dell’ormai ex presidente degli Stati Uniti, ho detto: ‘Fiu! Non sono l’unica!’ A pensare che sia un figo, intendo.
Mio zio, che è un americano serio, di quelli che gioca a golf, ascolta jazz e ti regala Comma 22 per Natale, e che, nonostante viva da trent’anni in Italia continua a temporeggiare con ‘I mean’ e ‘You know’ ogni volta che non trova la parola giusta, ne tesse le lodi, you know, di Barack.
Zadie Smith, che parlando di fighi cade a fagiuolo, ha scritto un saggio meraviglioso su di lui in Cambiare Idea. Dove ammira la sua abilità retorica nel sapere trovare la voce giusta con cui rivolgersi ad ogni persona. La sua scioltezza nel cambiare registro a seconda del pubblico.
E poi ora ha concesso una sorta di grazia a Chelsea Manning, di cui non ho seguito la vicenda approfonditamente, ma la notizia ha fatto venire gli occhi lucidi a tutte le mie amiche femministe militanti.
Non sono solo questi, e il recente discorso da sogno prima di abbandonare lo studio ovale, i motivi per cui vorrei essere nata Michelle LaVaughn Robinson Obama invece che Paola Moretti.
È soprattutto l’intervista che ha rilasciato lo scorso 16 Gennaio al New York Times. E parla di letteratura. Chiaro che sono andata in brodo di giuggiole solo leggendo il titolo.
All’inizio parla dei libri che ha regalato alle figlie e non mi sono soffermata molto perché dei flash di gelosia acuta mi impossibilitavano la lettura. Poi la redattrice della sezione di critica letteraria del giornale, Michiko Kakutani, gli chiede cosa lo ha fatto diventare uno scrittore e io ho inforcato gli occhiali e appiccicato il naso allo schermo del computer.
Risponde con la famosa storia del sentirsi un escluso, disorientato dai molteplici trasferimenti dovuti al lavoro del padre, e della fascinazione che i mondi racchiusi nei libri rappresentavano per lui. Sì, va bene, lo dice ogni scrittore, ma fa sempre presa.
‘Scrivere è stato un modo per trovare la tua identità?’ Lei gli chiede. E lui, sì, le dice. Che il fatto che molte persone lo considerino calmo, composto, è dovuto alla scrittura. Scrivere da giovane gli ha fornito la capacità di sviluppare una buona consapevolezza di se stesso e delle situazioni in cui si trova. Ma che non solo, leggere gli ha insegnato a mettersi nei panni degli altri, a immaginare cosa si prova a vivere la vita di qualcuno che non sei tu, e ciò si è rivelata una capacità vantaggiosa durante la presidenza.
Continua raccontando di cosa legge quando vuole spegnere il cervello – per lo più sci-fi – cosa legge in tempi di sconforto -Toni Morrison e Abraham Lincoln-, chi sono i suoi pilastri letterari – Shakespeare-. E poi – oh yes, talk all nerdy to me – loda la struttura narrativa di Gone Girl, parla di narrazione con molteplici punti di vista e io non so se è il caso che continui a leggere. Si dice sereno sul futuro della narrativa, la nostra è una specie di cantastorie, sostiene. Vorrebbe che i politici fossero cantastorie migliori, perché l’America non è un razza, non è una tribù, la popolazione non è arrivata lì tutta insieme. L’America è tenuta insieme dall’idea di America, dalla storia su chi sono gli americani e cosa è importante per loro. Iperventilo. Quando penso che meglio di così non potrebbe andare si mette a parlare di Jhumpa Lahiri e Junot Díaz.
Di Jhumpa Lahiri ho letto In Altre Parole un pomeriggio d’estate al mare. E ho pianto, tanto. Americana di origini indiane, racconta di come è cresciuta divisa tra due culture, tra due lingue e di come ne abbia poi adottata una terza, che non ha niente a che fare con lei. ‘In italiano scrivo senza stile, in un modo primitivo. Sono sempre insicura. Il mio unico intento, insieme ad una cieca e sincera fede, è quello di essere capita e di capire me stessa.’ Il libro più devastantemente onesto, umile e trasparente che abbia mai letto, credo.
Di Junot Dìaz ho finito qualche giorno fa This is how you lose her e mentre lo leggevo non facevo altro che pensare che lui fosse un genio. È una raccolta di racconti di amori e famiglie ispano-americane. La sua prosa infarcita di mami, mota, mierda, di culi grossi e chiome nere fluenti. Parla dell’America dei latinos, di povertà, di senso di appartenenza, di rabbia e confusione. E ho riso, tanto.
Lui della loro opera dice che rappresenta gli Stati Uniti contemporanei. Che le loro storie combinano il desiderio per un luogo migliore in cui vivere, un senso di dislocamento e un continuo indagare il passato, tracciare le origini che accomunano le esperienze personali di molti americani e sono di estrema importanza al giorno d’oggi.
Quando con il cursore sono andata più giù, così inebriata da quello che avevo appena letto – che se anche Obama avesse detto che il suo piatto preferito è la pizza hawaii avrei trovato il modo di perdonarlo – l’articolo finisce. Così, di botto, dopo tredicimila battute di disinvolta saggezza lui non risponde più a niente. Così come, dopo otto anni di presidenza, non presiede più niente. Peggio che essere abbandonati all’altare.
‘Oh signúr!’ Torno in me, alzo gli occhi e vedo che mia nonna ha appoggiati sul naso gli occhiali da lettura. ‘Chi sa cosa succede ora con quello lì al governo!’
‘Come?’ Le chiedo.
‘Trump!’ Lei urla, e batte il dito nodoso di artrite sulla pagina aperta de L’Espresso. Sospiro. Lei scuote la testa, borbotta il suo disappunto mentre continua a leggere. Io espiro ancora un paio di volte le mie pene fuori dalla cassa toracica. Poi riprendo in mano Gli amori difficili come unica consolazione. Almeno c’è un motivo valido per cui non posso avere Calvino.
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