Mentre taglio in bicicletta i viali di Tiergarten penso a quando avevo 11 anni e d’estate, a scuola ormai finita, ogni tanto facevo compagnia a mio padre a lavoro. Quando lui doveva allontanarsi per un appuntamento, mi mettevo a leggere la Gazzetta dello Sport, soprattutto la pagina delle trattative di mercato e lo schema sui “possibili acquisti”, oppure stavo ad ascoltare un po’ di musica. Se andavamo a Palermo, ci fermavamo a mangiare in un ristorante a Sant’Agata di Militello, che è un piccolo paese costiero sulla punta ovest della provincia messinese, come ce ne sono decine, tutti uguali e tutti immobili. Da Carletto, si chiama il ristorante: esiste ancora e continua a fare i maccheroncini alla norma, serviti nel tegame circolare di terracotta, e gli involtini di pesce spada, cotti sulla brace all’aperto, di fronte al mare. Mi viene in mente questo ricordo perché mio padre, quando ci mettevamo in viaggio, infilava nell’autoradio delle cassette di musica strana. “Musica classica” la chiamava lui, ma all’epoca io pensavo fosse, più che altro, “musica vecchia”. Sulle custodie dei nastri leggevo spesso un nome, che mio padre ripeteva ogni tanto, soprattutto quando con un suo amico romano si metteva a parlare di direttori d’orchestra. Quel nome era Riccardo Muti. Mi capitava di vederlo ogni tanto sui giornali, questo signore dal piglio elegante, i lunghi e ordinati capelli neri, la sguardo rigido, i movimenti intensi. A studiarlo con gli occhi acerbi del giovanotto che ero, mi sembrava un signore un po’ antipatico. Non sono mai riuscito a scoprirlo, se antipatico lo sia davvero.
Entro alla Philharmonie che sono le 18.15. Non ci venivo da tempo. Recupero i miei biglietti al botteghino e aspetto che arrivi la mia accompagnatrice: anche l’ultima volta che ero stato qui, a sentire un concerto della Royal Danish Orchestra, ormai più di un anno fa, c’era lei accanto a me. Leggo la biografia di un calciatore rivoluzionario che si chiamava Socrates, ma a cadenza regolare i miei occhi si distraggono, perdono prospettiva e puntano l’angolo accanto all’atrio dell’entrata principale. Vengo attirato da una locandina in cui campeggia, bacchetta in mano, un uomo sulla trentina, i capelli neri e ricci, l’espressione del viso distesa in un tratto gentile: si annuncia l’esibizione, ormai prossima, di Gustavo Dudamel. Pian piano si sta formando una fila sempre più consistente di fronte alla biglietteria. Il concerto di stasera è completamente esaurito. Intanto Amya arriva, ma da dove non la sto aspettando. Me ne accorgo quando ormai mi è praticamente accanto e ha accelerato il passo, sorridente, prima che ci si abbracci: non ci vediamo da tempo. Al concerto manca ancora un’ora e mezzo, che impieghiamo bevendo due spritz mignon da 5 euro e del vino, più consistente e a buon mercato, in un bar all’aperto, Estrade, di fronte alla Philarmonie e a pochi passi da Kulturforum e Gemaeldegalerie. C’è un bel sole tiepido, e forse anche per questo ci concentriamo solo in parte sul concerto cui fra poco assisteremo. Parliamo invece di vacanze, di mare e di un completo da calcio completamente giallo della squadra del Nantes.
Quando rientriamo alla Philarmonie sono ormai le 19.40. Non avevo mai visto così tanta gente nel salone d’entrata. Mi piacciono i momenti che precedono un concerto. Nell’aria si fa largo una sensazione vaporosa, felpata, che sa di liturgia. Quando entriamo nell’auditorium ci accorgiamo che i nostri posti sono vicinissimi all’orchestra: siamo in quinta fila e possiamo quasi toccarli, i violinisti. Siamo di gran lunga i più giovani del nostro settore, la cui età media supera abbondatemente il mezzo secolo. Prendo il programma della serata e mi dirigo verso il fondo delle pagine; voglio vedere se ci sono degli italiani fra i componenti dell’orchestra, la Berliner Philharmoniker. Mi sembra di trovarne uno, Daniele Damiano, al fagotto, ma non sono sicuro sia nella formazione di stasera. Ci siamo. I musicisti si sistemano e poi lo vedo, Riccardo Muti, lì ad aspettare, dietro l’oblò di vetro incastrato nella porticina che dà sulle quinte.
Non sono un esperto di musica classica. Non nel senso meccanico almeno. Conosco la musica, bene, ma non sono in grado di spingermi dentro l’analisi tecnica di un concerto. Però mi sono convinto, nel tempo, che non sia sempre necessario dominare tutti gli elementi a disposizione, nei loro minimi particolari, per poter giudicare ciò che si sta ascoltando. Quando si ha di fronte qualcosa di bello, ce ne si rende conto sempre. Penso sia importante, superare questa barriera intellettuale, perché altrimenti l’idea di cultura diventa ottusa e invalicabile: per vivere l’arte non bisogna essere dei professori, ma dei semplici esseri umani.
Il concerto inizia con la Sinfonia N.4, in Do Minore, di Franz Schubert, anche conosciuta come “La Tragica”. Dagli strumenti arriva un suono oscuro, quasi buio. Come sempre quando ascolto un concerto di musica classica dal vivo, vengo trasportato in altri luoghi, in altri momenti. Diventa tutto fluido, pulito. Mi concentro prima su Riccardo Muti, sui suoi movimenti, sui passaggi che i suoi piedi e le sue braccia compiono dalla pedana. Poi mi fermo a guardare le mani dei musicisti, queste mani che si muovono senza sosta e che, soprattutto quando si arriva al momento dell’ “Allegro Vivace”, mi sembra che quasi stiano provando a disegnare il tono cortese, garbato, della melodia.
Durante la pausa, prima della seconda parte di concerto, andiamo in terrazza a prendere un po’ di vento tiepido, a fumare una sigaretta quasi obbligata, di circostanza. Siamo d’accordo, io ed Amya, sul tono del concerto: Schubert non ci ha preso il cuore. Non ci è nemmeno dispiaciuto, ma non riusciamo a dire davvero “che bellezza”. Però siamo contenti, anche soltanto di essere lì ad ascoltare la Berliner Philarmoniker diretta da Riccardo Muti: potrebbero suonare una composizione per soli triangoli, a noi andrebbe bene lo stesso.
Suona la campanella, come a scuola, e ritorniamo ai nostri posti. Ci aspetta la seconda parte del concerto, con la Sinfonia N.4, in Fa Minore, di Piotr Ilyich Tchaikovsky. Il tono, adesso, è completamente diverso. Stavolta sono subito travolto dalla forza del suono, da quello che viene definito “Moderato con anima”, che sembra una potenza di desideri e rimpianti, con gli archi e gli ottoni che si fanno via via più gravi. Pian piano si ha come la sensazione di una tempesta e questa volta mi concentro sugli strumenti, sul momento in cui ho la sensazione i clarinetti torneranno a suonare, sui timpani, sul pizzicato dei violini. Ecco, adesso sono un po’ dentro l’orchestra anch’io, mi sento parte della musica: l’ascolto è diventato tridimensionale, dentro la mia testa. Passano 40 minuti, e quasi non me sono accorto. Il finale è travolgente, rapido, un chiasso vissuto che non lascia rimpianti. Dopo tre giri di applausi Amya mi fa notare che il nostro vicino di posto batte le sue mani, piccolissime, in maniera strana, completamente fuori ritmo. Riccardo Muti intanto lascia dei fiori a quella che, dai nostri posti, sembra essere una delle componenti più giovani dell’orchestra. Salutandola le accarezza lieve il viso, poi ringrazia ancora, con le braccia si dirige verso il pubblico abbozzando un rapido inchino. Quindi scende le scale e viene inghiottito dentro il rettangolo disegnato dalla piccola porta di legno. Anche i musicisti adesso possono lasciare i loro posti. Con lentezza si disegna il silenzio, l’auditorium resta vuoto. È tutto finito.
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