Ciudad Juàrez, la città della morte. Dal confine riesci a scorgere la sua gemella buona, El Paso. La città santa.
Una terribile etichetta è pinzata sul petto di tutti gli juarensi: condannati ad essere considerati gli abitanti del luogo più pericoloso al mondo, anche se non è vero. Non lo è più, ma lo è stata per diversi anni. Colpa delle pandillas – le bande armate di narcotrafficanti – e di quel fiume talvolta invalicabile che segna il confine.
La colpa è degli Stati Uniti.
Messico, il cesso d’America.
A febbraio del 2012 viene pubblicato, dal Texas Observer, un reportage a firma della giornalista investigativa Melissa del Bosque; ‘The Deadliest Place In Mexico’ è finalista agli Ellie Awards del 2013. L’articolo è corredato dalle fotografie di Julian Cardona, che ha seguito la reporter durante la sua inchiesta a Ciudad Juàrez.
Il fotografo di Juàrez.
Quando ho contattato via mail la Del Bosque, erano le tre del mattino di un mese fa. Mi ha risposto dopo dieci minuti. Il fuso orario. Le ho detto che ero interessato ad intervistare Cardona, ma non avevo trovato nessun contatto sul web. Mi ha girato la sua mail personale e mi ha augurato buona fortuna.
Ho scritto immediatamente e, mentre lo facevo, mi sono reso conto di quanto fossimo lontani, io e questo fotografo; una distanza abissale, non solo temporale e chilometrica, ma anche culturale ed esperienziale. Mi ha risposto il giorno dopo, mentre a Berlino finiva il giorno e Juàrez sfiorava il tardo pomeriggio correndo verso il tramonto. Da quel momento è cominciato il nostro scambio epistolare telematico, durato un paio di settimane, diviso da sei ore di fuso e un giorno della settimana, di tanto in tanto, sbagliato per un soffio.
Cardona è nato a Zacatecas nel 1960 e si è trasferito, con la famiglia, a Ciudad Juàrez dopo soli tre mesi, dove ha speso, mi dice, gran parte della sua vita e del suo lavoro
“Sono cresciuto in una famiglia cattolica, proveniente da un piccolo villaggio nelle campagne del Messico centrale. Sono arrivato alla fotografia attraverso l’arte e puoi immaginare che, per i miei genitori, non fosse un argomento del quale avessero mai avuto un’idea molto precisa. Ho dovuto aspettare di andare a scuola e di avere in mano i primi libri.”
Mi scrive che ha scoperto Beethoven e la sua storia e poi Van Gogh, Picasso e Le Corbusier. La nostra distanza si dimezza. Immagino un bambino di dieci anni, seduto ad un banco di una scuola elementare nel Messico degli anni settanta. Il piccolo Julian con davanti il suo libro. Fuori l’aria è secca, la polvere portata dal deserto e dalle montagne si deposita sui vetri delle finestre. Lui è lì che impara perché quel loro fiume viene chiamato Rio Bravo da una parte e Rio Grande dall’altra. Immagino i suoi lineamenti indigeni, la pelle ambrata e liscia, i capelli crespi e nerissimi come il volto cattivo della luna. Esce da scuola e corre verso casa, scheletrici cani randagi gli tengono il passo, fino a quando non capiscono che non c’è nulla da mangiare per loro e allora Julian può rallentare, con quei suoi libri sotto il braccio, avvolti da una cinghia oppure conservati in una borsa di cuoio smangiato. Lo immagino così, Julian Cardona, mentre si prende la vita innamorandosi dell’arte e di quelli che ne hanno scritto la storia. Sono così lontani da lui: sono in Europa, sono in Olanda, in Germania, Spagna, Francia, forse anche in Italia.
“Il primo fotografo che catturò la mia attenzione fu Ernst Haas.”
Austriaco, un reporter, ma soprattutto uno sperimentatore. Membro e Presidente, nel 1959, della più importante agenzia fotografica del mondo; Magnum Photos.
In Messico, nessuna organizzazione criminale sarebbe in grado di operare senza la protezione e il sostegno di ufficiali statali, municipali, federali o militari.
“Immediatamente dopo mi sono concentrato sulla fotografia. Durante i miei vent’anni, ho lavorato in una delle fabbriche della General Motors, come attrezzista e stampista. Così nel 1980 sono riuscito a comprarmi la mia prima 35 mm, una Ricoh KR5, macchina fotografica a buon mercato, poi una KR10 e infine, finalmente, una fotocamera come si deve: una Pentax LX con obiettivi professionali.
Intorno ai trent’anni ho deciso di lasciarmi alle spalle l’olio e l’acciaio della fabbrica e cominciare a fare sul serio. Ho iniziato a lavorare come fotoreporter nel 1993. Con la Pentax in mano sentivo di avere, ed effettivamente avevo, le chiavi d’accesso per guardare da vicino, vicinissimo, quello che era il contesto sociale della mia città; la migrazione, il traffico di droga e la violenza.”
Ecco che la distanza cresce, vedo le nostre vite disperdersi, destrutturarsi, scomporsi in un caleidoscopio. Nel labirinto di colori ipnotici il fotografo si allontana. Perché io non posso immaginare cosa vuol dire essere un trentenne in una città come Juàrez, un reporter buttato nella brutale arena della vita vera. L’arte che Julian ha rincorso da bambino, non è quella cosa. Nel mirino della LX vengono inquadrate immagini brutali, di morte. Quella è la consapevolezza. Immagino il ragazzo che regola il respiro e l’emozione e forse il terrore. L’adrenalina.
Io ho l’età che può aver avuto lui durante quegli anni ed ho un figlio neonato. Lo guardo, ora, che dorme, al mio fianco mentre scrivo. Le braccia larghe, le mani minuscole con i palmi rivolti verso il soffitto. Allora glielo chiedo se ha dei figli, se ha una famiglia.
“No. Sono single e non mi sono mai sposato.”
Durante il 1993, mentre Julian decide di fare sul serio, Ciudad Juàrez diventa teatro di una tra le più atroci pagine di cronaca planetaria: in più di dieci anni vengono ritrovati nel deserto circa 400 corpi di giovani donne ammazzate dopo essere state torturate e stuprate. Migliaia di altre donne restano desaparecidas. Ragazze del popolo, contadine o impiegate nelle maquiladoras, gli stabilimenti che i gringos hanno scaricato in Messico al fine di avere manodopera a basso costo. Immagino il fotografo ragazzo che si getta alle spalle una vecchia vita, per andarsene a prendere un’altra più dura e più atroce.
“Ho lavorato in un giornale per molti anni, dal 93 al 2000. Non mi limitavo a coprire i pattugliamenti della Polizia, facevo ogni cosa mi assegnassero. È così che ho capito che ciò che stavo vedendo per strada ogni giorno era una storia molto più importante di una news quotidiana. Non potevo fermarmi a quello, così è nato ‘Juarez: the Laboratory of our Future’.”
‘Juarez: the Laboratory of our Future’ è un libro scritto da Charles Bowden, saggista americano che ha dedicato gran parte dei suoi studi e della sua carriera a favore dei problemi legati al confine USA-Messico e alla lotta al narcotraffico. Bowden e Cardona, insieme a diversi altri fotoreporter di Juàrez, hanno collaborato alla parte fotografica del volume. Gli domando se è mai stato minacciato e mi risponde di no, secco. Non so se è vero, se non vuole dirmelo oppure se non può. Lui sa dove voglio arrivare, ma non me lo regala, aspetta che io ci arrivi nel modo più banale, forse perché è giusto così, probabilmente perché sa anche che il nostro divario deve restare una voragine. Ed è quello che faccio. Gli chiedo cosa vuol dire essere un Narcos, nel modo più banale e, forse, più stupido.
“Narcos è un termine generale per riferirsi ai trafficanti di droga. In un’accezione più ampia, si riferisce ad un crimine organizzato spogliato della sua componente auto-organizzata. In Messico, nessuna organizzazione criminale sarebbe in grado di operare senza la protezione e il sostegno di ufficiali statali, municipali, federali o militari.
Fine. Eccola. Semplice.
Continuo e gli metto davanti la sua condanna, faccio in modo che quell’etichetta che ha pinzata sul petto torni a pesargli addosso, quest’uomo che ce l’ha messo davanti al naso, attraverso i suoi scatti, il motivo di quel marchio: Juàrez, la città della morte. Gli racconto l’altra cosa, quella che si aspettava da me fin dal principio, la domanda che si aspetta sempre e per sempre si aspetterà.
Gli dico che Ciudad Juàrez, dal 2008 al 2010, ha avuto il più alto tasso di omicidi del mondo. Gli chiedo come si è salvata e cos’è oggi, la sua città.
“Per tre anni consecutivi Juàrez ha avuto il più alto tasso di omicidi del mondo: 2008, 2009, con picco massimo nel 2010, anno in cui sono stati registrati 3.622 esecuzioni, con un media di 9,9 omicidi al giorno, 274 su 100.000 residenti. Estorsioni, rapimenti e omicidi erano incontrollabili. A settembre 2016 il tasso si è abbassato a due esecuzioni al giorno. Quando nel 2008 è esplosa la violenza, io e Charles Bowden abbiamo deciso di dedicarci ad un nuovo progetto, il libro ‘Murder City’. Trovammo un ospedale psichiatrico, occupato da persone che avevano perso la ragione a causa delle droghe e della violenza. Il filmmaker Mark Aitken vide, all’interno del libro, una foto di uno dei ricoverati che catturò la sua attenzione. Decise di fare un film. Dead When I Got There tratta la storia di uno di quei ragazzi, arrivato in ospedale in fin di vita. Quella anima dannata oggi aiuta il Pastore José Antonio Galvàn – fondatore del centro – a dirigere il posto.”
Mi invia un link youtube; è il trailer del film. Le immagini sono forti, ti si spaccano addosso, percorrendo un filo sottile e nascosto, ma denso.
Come elettricità corre bruciando, arrivando fino a me, allo schermo del laptop, le mie iridi e poi dentro.
Parliamo di Peña Nieto, l’attuale Presidente del Messico, membro del PRI, il Partito Rivoluzionario Istituzionale, successore di Calderón. Nieto è stato più volte accusato di corruzione e favoritismi. Ricordo a Cardona lo scandalo legato al massacro di Ayotzinapa, nell’ottobre del 2014, in cui 43 studenti morirono per mano dei federali. Il Presidente si è ritrovato sotto accusa da parte dell’opinione pubblica.
“Felipe Calderón iniziò a militarizzare diverse specifiche regioni del Messico. È la grossa differenza che sta nella logica che giustifica le sue azioni. Chiamò alle armi chiunque, ma soprattutto presunti criminali, scarafaggi. Narcos. Quando sentii il Presidente delle Filippine, Rodrigo Duterte, riferirsi ai tossicodipendenti e agli spacciatori come esseri senza umanità e quando riporto alla mente i numerosi omicidi avvenuti dopo che lui prese il comando, non posso non pensare che la guerra di Calderon fosse, in realtà, nient’altro che un’organizzazione criminale. Non dimentichiamoci che in ogni regione dove è stato inviato l’esercito del Presidente, gli omicidi hanno avuto un incremento esponenziale (cinque volte tanto a Juàrez, solo il primo anno). Peña Nieto si liberò della retorica di Calderón, o almeno ci provò. I messicani smisero di vedere alla tv le conferenze stampa giornaliere riguardo la guerra alla droga, ma il suo programma militare continuò. I familiari dei 43 studenti massacrati a Ayotzinapa hanno dichiarato, immediatamente, “Fue el Stato”, e direi che non c’è nient’altro da aggiungere. È limpido. Bene, è accaduto innumerevoli volte che Calderón ha spedito piccoli gruppi di militari e poliziotti federali a Juàrez e Chihuahua, durante la sua gestione.
Parlando di corruzione, il 7 agosto del 2010, 475 ufficiali della Polizia Federale marciarono contro i comandanti e rivelarono alla stampa come i loro capi facessero una montagna di soldi tramite accordi che stipulavano in compagnia dei criminali locali. Calderón, ovviamente, era a conoscenza di questo genere di affari.”
Le conseguenze della violenza toccano entrambi i lati del confine: famiglie separate e una generazione di ragazzi traumatizzati. Ma ci sono anche vecchie questioni.
Mi fermo e cerco di catturare la difficoltà che deve avere la gente come Cardona. Nascere in un posto dove la corruzione abbraccia ogni singolo angolo della legge. Con quale coraggio continuano ad uscire di casa e a lavorare? A votare chi li deve governare, per poi scoprire che sono gli stessi che li stanno ammazzando e che alimentano i Cartelli?
Il fotografo parla di un altro massacro, quello di Villas de Salvárcar, il 31 gennaio 2010. Durante una festa di compleanno di un diciottenne, quindici giovani studenti sono stati ammazzati durante un raid dei sicarios del Cartello di Juàrez, più comunemente conosciuto come La Lìnea.
“Diversi mesi prima della marcia degli ufficiali federali, nel febbraio dello stesso anno, durante una riunione sul massacro di Villas de Salvárcar, un uomo si alzò e mi si mise faccia a faccia, dicendomi che i ‘loro federales’ erano stati rapiti. La gente di Juàrez sapeva che dietro gli omicidi e le estorsioni c’erano i militari e la polizia federale corrotta, inviata dai piani alti. Io non so quanti soldi sono finiti nelle loro tasche, ma secondo una storia del Proceso Magazine, datata 14 marzo 2010, Calderón si ripagò in un solo anno un debito bancario che aveva da vent’anni. Ripeto: in un solo anno, da maggio 2008 a maggio 2009, molto di più di ciò che il suo salario gli consentisse.
Il Presidente mise le sue nuove proprietà sotto il nome di sua moglie, Margarita Zavala, oggi candidata per le elezioni presidenziali del 2018. Sia Calderón che Peña Nieto promisero di migliorare l’economia del Messico, cosa che non accadde mai.
Anche Cardona, come Charles Bowden, ha speso molte delle sue energie ‘a cavallo’ del muro d’acciaio che divide le due sorellastre; Juàrez ed El Paso. Gli domando se ha voglia di parlarne.
“Prima che uscisse ‘Juarez: the Laboratory of our Future’, qualcuno – come il politologo Francis Fukuyama – sosteneva che la globalizzazione avrebbe potuto essere un’ottima cosa per l’umanità.
Io vivevo in questa città pre-globalizzata da una vita intera e sapevo qual era la verità. Le maquiladoras avevano iniziato a funzionare a metà degli anni sessanta. L’accordo per il libero scambio, il NAFTA, era stato approvato dagli Stati Uniti, Messico e Canada, prendendo ufficialmente effetto nel 1994. I presidenti dicevano che, grazie all’accordo, il problema dell’immigrazione sarebbe cessato. Ma sai cosa c’è? C’è che io ero appena stato nei campi e ne avevo visti a milioni di campesinos, mentre scappavano, disperati, da questo ‘prosperoso’ Messico. L’esodo è stato il naturale processo evolutivo che ha seguito il libro. È durato parecchi anni ed io sono stato in oltre trenta posti di confine, tra Messico e USA. Da quando ho lasciato il giornale ed ho iniziato a lavorare per me stesso, le cose sono cambiate molto, per me.”
Immagino questo uomo di mezza età che ha dedicato la vita ad un progetto coraggioso e per farlo si è affidato all’unica cosa in grado di renderlo al pari di chi non avrebbe mai potuto raggiungere: la fotografia. Lo immagino dietro la tastiera di un laptop, nella sua casa silenziosa e dignitosa, mentre digita e ricorda, rispondendo alle mie domande. Probabilmente se fosse qui, seduto davanti a me, mi risulterebbe più semplice capire, attraverso la sua mimica facciale, oppure dall’inflessione della sua voce, se davvero ci crede ancora e ancora lotta. Gli domando cosa intende quando dice che le cose cambiarono molto dal momento in cui iniziò a lavorare in proprio.
“Il cambiamento principale – per breve tempo prima che uscissi dal giornale – fu che iniziai a lavorare su un progetto a lungo termine, non più singoli incarichi giornalieri. Come ti ho detto, sentivo che ciò che vedevo per strada doveva occupare molto di più di una semplice news giornaliera. Comunque, anche il giornale era cambiato. Prima si sosteneva con la pubblicità e la distribuzione, come anche attraverso dei sostegni governativi. Provando ad ampliare la mia copertura, nel 2000 mi sono trasferito a Città del Messico, lavorando come photo editor per un magazine i cui editori dicevano di essere interessati più al publishing che alla fotografia standard. Ho lavorato per un po’, fino a quando non mi hanno spostato ad occuparmi delle celebrità, allora sono tornato al confine. Il mio posto. Era il 2003.
Da Juàrez ho continuato ad occuparmi dei miei progetti sull’immigrazione e da allora sono un freelance.”
Resto sul confine anch’io, ancora. Gli chiedo quali sono oggi i problemi tra Messico e Stati Uniti. Mi risponde scrivendo una sola parola: le conseguenze.
Poi continua.
“Le conseguenze della violenza toccano entrambi i lati del confine: famiglie separate e una generazione di ragazzi traumatizzati. Ma ci sono anche vecchie questioni. I paesi più poveri degli Stati Uniti sono situati lungo il confine, molti in Texas. La stessa cosa si può dire per le città messicane dall’altra parte della barricata. Le conseguenze del’inquinamento delle maquiladoras, generato da rifiuti pericolosi e dallo spreco delle risorse d’acqua, che si affiancano agli stipendi bassi e alle condizioni faticose della manodopera. La carenza di sindacati, la speculazione di terreni, un improponibile costo sociale sotto forma di droghe come alternativa al mercato e all’economia, che si chiude, ancora, nel circolo della violenza. E ancora, la frammentazione dell’ecosistema del deserto, a causa del muro con il confine americano, citato dal BioScience Oxford Journals, in un articolo firmato da Brian Segee il quale, nel 2007, scrive che quel muro potrebbe minare la salvaguardia di qualsiasi animale della zona, in grado di ‘camminare, gattonare o strisciare’. Infine, nel futuro ogni attività petrolifera e mineraria potrebbe essere l’ennesima causa di inquinamento.”
M’immagino ancora quel bambino di dieci anni interessato all’arte e alla vita, mentre cresce aumentando la distanza fra di noi e probabilmente fra tutti. Lui che mi lascia qui, nuovamente, a quest’ora della notte, dopo avermi mandato delle foto per l’articolo e avermi augurato un buon lavoro. Trovo il tempo per un’ultima mail e un’ultima domanda.
Gli chiedo cosa farà quando smetterà di fotografare.
“Ho fatto reporting per Reuters dal 2009 e ho fatto un libro insieme ad un artista, Alice Briggs, s’intitola Abecedario de Juàrez. Da allora sto facendo davvero poche fotografie.”
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