«Invece racconto quelle che qualcuno definirebbe bugie»
Joan Didion
Da un mese a questa parte i giorni si ripetono.
Anche adesso, in questo preciso istante, sto facendo quello che stavo facendo ieri a quest’ora. Tengo lo sguardo fisso davanti a me.
Ieri dal letto, oggi dalla Stabi di Potsdamer Platz.
Ieri fissavo una parete bianca, oggi la Gemäldegalerie.
Sono qui per fare qualcosa e nel tempo che mi rimane cerco di finire il mio romanzo.
Loro mi scrivono.
Madre mi chiede come sto, Amica1 pure.
«Come ieri», rispondo. Solo che oggi non sono in pigiama e non intendo procurarmi piaghe da decubito.
Madre replica: «Capisco, basta che stai tranquilla».
Chiudo la chat in fretta, la cancello.
Amica1 mi manda la scena di Forrest Gump in cui Forrest arriva sulla portantina, porge un cono gelato al tenente Dan e dice: «Tenente Dan, le ho portato il gelato alla crema. Tenente Daaan, gelato alla creeeema». Sorrido, sposto lo guardo sulla Philharmonie, alla mia sinistra.
Mi sento come il tenente: sono senza gambe, mi stanno offrendo un gelato. Noto anche una certa affinità fra la sua espressione affranta e il selfie con una mela in mano scattato ieri dal letto, in un momento imprecisato della giornata, e inviato a Amica2 per rassicurarla sul fatto che stessi mangiando.
Le mie amiche hanno questa cosa che bisogna mangiare anche nella disperazione.
«Come stai oggi?»
«Sto».
«Hai mangiato?», mi chiedono tutte.
«No».
«Ti devi sforzare».
«Certo».
Amica2 mi scrive che vuole la foto dei manicaretti che mi cucinerò. Follia pura. Alla fine di questo scambio imposto la foto di Tilda Swinton in versione vampiro che succhia un ghiacciolo al sangue come salvaschermo del telefono.
Ieri sera ho pensato: domani è il giorno in cui ricomincio a scrivere.
Stamattina ho detto: alzati e vai alla Stabi.
E così eccomi alla Staatsbibliothek sulla Potsdamer Straße, la sede della biblioteca statale di Berlino progettata da Hans Scharoun alla fine degli anni Sessanta.
Sono qui per lavorare al mio romanzo dopo settimane di inattività impiegate a fare scivolare un giorno dietro l’altro facendo qualcosa. Sono qui per dimostrarmi che posso uscire da questo stato se mi va.
Lo stato è fissare il vuoto e pensare costantemente a un essere umano che non sono io.
Arrivo prestissimo per lavorare alle scene ventotto e ventinove, che secondo i miei appunti prevedono prima un incontro carico di tensione fra la protagonista e la sua amica d’infanzia e poi una scena di sesso fra la protagonista e il suo compagno. Durante il viaggio da casa a qui penso tutto il tempo a cosa accadrà, chi dirà cosa. Relativamente presto mi accorgo che non voglio scrivere di sesso, che anzi l’idea mi innervosisce. Penso a Amica2 che è in una fase in cui non sente il bisogno di avere rapporti sessuali di alcun tipo, che fa il paio con me che presa dall’entusiasmo momentaneo scarico e cancello l’app di Tinder almeno tre volte a settimana.
Non scrivo da quattro giorni e, a parte un’eccezione della durata di un pomeriggio, prima ancora non avevo scritto per tre settimane. Ormai i sensi di colpa li metto a tacere con la ricerca di un nuovo lavoro che non mi darà più nemmeno un minuto per scrivere.
Se vuoi risolvere un problema devi andare alla radice.
Scrollo fino all’ultima pagina delle scene a cui ho lavorato fino a oggi e scrivo un “28”, centro le cifre nel documento, premo invio. Quando cerco di visualizzare la scena che mi accingo a raccontare non vedo niente. Vedo però le mie mani divaricate sulla tastiera del computer, i due indici ticchettano rispettivamente il tasto della “i” e della “e”.
Guardo fuori dalla finestra, un raggio di sole sta illuminando la Vittoria alata sulla Siegessäule. Penso alla foto di Lebeck, poi che dovrei scrivere a G, che è l’unico che mi accompagnerebbe a fare giri a vuoto a Tempelhof fino a quando non avrei completamente esaurito questa energia paralizzante.
Apro Spotify e metto su Carrie & Lowell. Guardo alla mia destra, cerco il tipo carino che ho visto quando sono arrivata alle nove. Lo vedo, indossa una maglia bianca e mastica una gomma.
Mi concentro sul mio computer, sulla mia storia. «Hai una storia da dire», mi dico. Un mantra che mi ripeto di continuo, ma che troppo spesso si trasforma in:«Hai una storia da dire?».
Tutte le immagini hanno a che fare con la mia vita degli ultimi giorni. Prima lo skyline di Berlino dalla terrazza del Soho House e poi, più tardi, la finestra da dove si vede la Sonnenallee. Io che di tanto in tanto penso di alzarmi per andare a guardare giù e invece sono fumata, sorrido e annuisco alle parole che nemmeno sento. Carrie & Lowell è alto, sempre più alto nella stanza – G vuole farmi sentire come funzionano bene le sue casse nuove. Resto sul divano, senza cambiare posizione dalle 19.30 alle 23, in preda alla paranoia che fiumi di sangue mestruale mi stiano scendendo giù per le gambe. Ho paura che G mi veda insanguinata. Guardiamo Harry ti presento Sally, lui mi chiede chi cazzo sono le coppie che ogni tanto compaiono e raccontano come si sono conosciute, io fisso la proiezione del film sul muro senza dire niente. Ho scoperto che quando fumo con altri sono affetta da afasia, non riesco a smettere di pensarci.
Sono seduta ai tavoli di fronte alle finestre del primo piano. Intorno a me lavorano tutti ai loro testi come api laboriose. Non solo il tizio alla mia destra e la studentessa alla mia sinistra, ma anche quelli del blocco accanto, e quelli del piano di sopra. E anche quelli vicino ai mappamondi giganti, lì dietro, a sinistra in fondo alla biblioteca, lontano da qui.
Lo so perché prima mi è venuta l’ansia che anche loro stessero scrivendo più di me e sono andata a controllare. Mi faccio forza con il ricordo di Virginia Woolf che le frasi le distillava. Le sue frasi lievi in “La signora Dalloway”, sfrondate stesura dopo stesura. Per la prima volta dopo giorni esperisco la leggerezza.
Tornando indietro dalla ronda faccio il giro della biblioteca con il portatile fra le mani. Salgo le scale a chiocciola fino al punto più alto della Stabi, la sezione di Chimica e Biologia. Ascolto John my Beloved per la decima volta oggi, ma per la prima volta sono esente dall’impulso di buttarmi dal parapetto. Da lì sopra osservo l’intera biblioteca, con gli occhi seguo i profili delle scale e dei tavoli, poi mi addentro fra gli scaffali, mi muovo a zig zag nei reparti, osservo le coste dei libri rilegati, strette le une alle altre e sento sollievo. Ricomincio a scendere. Mi dirigo verso la mia postazione praticamente fluttuando sugli scalini. Mi sorprendo a dirmi: «Hai visto? Non era così difficile». Anche se non so bene cosa me stessa voglia dire a me, le lascio fare indisturbate dato che era da un po’ che non si parlavano.
Giù c’è molta più gente di prima. Quasi tutti i settori sono occupati, riconosco il mio posto dal romanzo sparpagliato sul tavolo, alcune cartelle scritte in Garamond, altre in Helvetica.
In mezzo ai fogli fa capolino «Parlarne tra amici» di Sally Rooney, la copertina rigida color carta da zucchero è macchiata di unto da tutte le parti. Anche se l’ho già finito da giorni e non l’ho trovato particolarmente entusiasmante, non riesco a staccarmene. Ci dormo insieme, lo porto a lavoro, me lo sono persino messo in borsa quando sono andata al Soho House pur sapendo che in un posto del genere maneggiare un libro è praticamente una denuncia di non appartenenza. Lo apro a caso nei momenti più disparati della giornata e mi lascio deliziare dalla prosa semplice; se non fosse che le pagine sono rilegate potrebbe trattarsi di una lunga mail di una mia amica alle prese con una relazione con un uomo sposato. Adesso, mentre leggo mi accorgo che “Uomo sposato” è un sintagma che pulsa di vita, non riesco a smettere di passarci gli occhi sopra e ogni volta provo un dolore crescente e acuto. Fuori da qui non l’avrei mai sentito.
Deve essere il silenzio, tutto questo silenzio della Stabi.
Tutto questo silenzio interrotto solo dal rumore battente dei tasti dei Mac di tutti quelli che sono qui dentro. Mi fa pensare alla pioggia contro le finestre e ai giorni senza inizio e senza fine passati in biblioteca ai tempi dell’università.
Seduta a questo tavolo non sento né la fame né la sete. Sono presa da altro. Dai rumori elementari delle penne che cadono sulla moquette e gli sbadigli di quelli che sono arrivati presto. Prima ho sentito una ragazza dire: «Fuck», a un volume decisamente troppo alto e subito dopo piangere. Prima che potessi andare da lei a offrirle dell’acqua, un ragazzo della mia fila si è alzato e è andato a poggiarle una mano sulla spalla. Poco dopo la ragazza si era rimessa a scrivere, per un attimo ho pensato di essermi immaginata tutto.
Sembra che le cose funzionino così, che a un certo punto ti volti indietro e ti chiedi se è successo davvero. Mentre osservo la Philharmonie con gli angoli tutti vivi mi accorgo di avere il desiderio di andare a camminare al sole. Erano settimane che non mi capitava. Così apro un nuovo documento e appunto un pensiero di Joan Didion. Vado avanti, penso a tutte le persone che ci sono in questo testo e a quelle che non ci sono.
Mi chiedo quante di loro leggendolo potrebbero vederci una bugia.
Giorgia Bernardini è nata a Catania nel 1985, vive a Berlino. I suoi racconti sono stati pubblicati su Rivista Studio, Colla, Abbiamo le Prove, Altri animali e Pastrengo. Attualmente lavora al suo primo romanzo.
Leggi altri racconti e saggi nella sezione Balene
REDAZIONE
Wale Café
Hobrechtstrasse 24, 12047 Berlin