Foto di Cesare Zomparelli
La prima suggestione che mi si forma in testa è lampante, nella sua causticità: mia madre non sa nemmeno come si scriva, Skype, e a Berlino si sta benissimo. Il nesso logico tra le due cose non è sfuggente come forse a prima vista potrebbe sembrare. Oddio, probabilmente non era esattamente qualcosa di questo tipo, ciò che le fotografie di ‘(Di)Stanze’, di Max Cavallari, volevano esprimere, ma le storie di emigrazione e allontanamento genitori-figli raccontate da questi scatti, in realtà, sono toccanti quanto sconfortanti, e (anche se forse un po’ indulgenti con un certo stereotipo italico di attaccamento alla famiglia) rendono bene l’idea di come la nostra penisola sia molto più alla deriva, sotto tantissimi aspetti dei quali l’assenza di una possibilità di futuro è solo uno dei più clamorosi, di quanto, soprattutto dall’estero, ci si renda conto. Giusto, dunque, rappresentare un volto di questa deriva, tramite un’idea semplice ed efficace come quella della foto di una famiglia che si riunisce virtualmente grazie a una videochiamata: la mia reazione derubricatela serenamente alla voce “cinismo da brutta persona”.
Sono al Coffi Festival, una rassegna di arte interdisciplinare giunta alla terza edizione e che si propone di far conoscere a un pubblico tedesco (ma non solo) artisti italiani di varia estrazione che vivono a Berlino o nel Belpaese, attraverso un cammino che passa per il teatro e la danza, la fotografia e il cinema, la musica e la performance: un contributo alla mediazione tra la cultura italiana e il mondo, mettendo insieme artisti e pubblico all’insegna del tema di quest’anno, per l’appunto la contaminazione. Un obiettivo ambizioso, decisamente da lodare nelle intenzioni, che trova spazio nella berlinesissima struttura post-industriale della Kühlhaus, a Kreuzberg: questo ex magazzino refrigerato risalente al 1901, con mattoni a vista e piloni d’acciaio, è una suggestiva cornice a metà tra la casa dei Ghostbusters, il bazar degli hacker del flop cyberpunk Nirvana (una prece per Gabriele Salvatores), e, altra suggestione, stavolta dovuta alla mia non più verdissima età, le atmosfere della mitica Pergola o della Breda Occupata di Milano, due centri sociali dove negli anni ’90 andavamo a scoprire jungle e rave culture e ci sembrava come per incanto di essere nel video di “No Good” dei Prodigy. Una location molto bella, ma che per i ragazzi del Coffi è stata una soluzione last minute, perché, a pochissimo dall’inizio del festival, la prima sede scelta, la ZK/U, nel quartiere di Moabit, a causa di problematiche con la nuova gestione ha rifilato agli organizzatori il più classico dei pacchi e la necessità di trovare un posto completamente diverso. Con esiti comunque positivi e, dal mio punto di vista, ugualmente suggestivi. Una suggestione, quella del contesto nineties, che aumenta peraltro sabato pomeriggio, sulle note trip-hop dei Wide Blue: a dire la verità, forse proprio enfatizzata dalla musica stessa, del duo veneto, che suona, per quanto ben confezionata, un filo troppo come la Pergola di quei dì. Una sensazione, quella della mancanza di freschezza, che nel côté musicale della rassegna ho provato anche in altri casi, durante il weekend, ad esempio durante il live di Crudo: la combo di drum machine e diavolerie elettroniche spippolate, synth, voci distorte e strumenti a fiato è fatta bene, niente da dire, e produce sì, nel migliore dei casi, un terrorismo sonoro memore degli Atari Teenage Riot o dei Liars, per restare a gente che con il gefühl di Berlino ha confidenza, ma pare svuotata di un concetto, fosse anche di un qualche tipo di situazionismo o di carisma, e finisce per risultare un po’ un vulgar display of power fine a se stesso.
Meglio allora semmai i ghirigori pianistici dell’italo-nicaraguense Luis Berra: l’effetto straniante di un pianoforte in un contesto alieno come questo aiuta a creare un clima inquietantemente rassicurante, che travalica una composizione qua e là eccessivamente legata ad alcuni punti di riferimento ormai assodati anche a orecchie non da intenditori, come Nyman, Einaudi e Tiersen, e pericolosamente incline a certa muzak ambientale. E ancora meglio i Fernweh: batteria da una parte, macchine e chitarra dall’altra, con in mezzo le immagini della cineasta Maya Deren retroproiettate su una sorta di grande ventaglio, per un viaggio tra immagini molto impattanti e suoni che fanno la corte a un certo postrock obliquo (più ultimi Mogwai che Slint, per capirci), contaminando le note del trio Cosci-Palumbo-Bagnato con la visione registica di Paolo Ranieri e il set design di Martina Rocchi.
Tra parentesi, la stragrande maggioranza della musica proposta al festival è elettronica, o comunque usa il computer come medium: ecco, forse sarebbe il caso di provare a spingersi un po’ in avanti, in termini di capacità di rendere meno preventivabile e più sorprendente la musica di questo tipo. Spazio ce ne sarebbe.
Trovare freschezza in un ex deposito frigorifero, a regola, non dovrebbe essere difficilissimo. Però, e da musicista spiace notarlo, è soprattutto in altri campi artistici del Coffi Festival che mi pare di scorgerne di più (al netto della questione originalità-come-valore, che aprirebbe un dibattito immenso e non certo da affrontare in un report). Ad esempio nel teatro-danza proposto nello spettacolo “Roma”, del Siciliano Contemporary Art, che ha aperto ufficialmente la rassegna: il giovane coreografo italiano racconta una misteriosa Città Eterna, attraversata da una inquietante parata che strega e incanta le masse, rappresentando la magia che il luogo ha simboleggiato per secoli nella storia e nell’arte, con una resa avvincente e affascinante. Anche la videoartist Francesca Galeazzi, con il suo ‘Justifying Bad Beahaviour’, è un caso virtuoso: le splendide immagini dell’Artico in cui viene liberata CO2 nell’aria sono sia estetica che messaggio, un messaggio peraltro decisamente sul pezzo per questi nostri tempi. Così come ‘Micromega’, di Alessandro Zannier, un mio vecchio compagno di etichetta discografica (la Discipline di Garbo e Luca Urbani, ndr), una enciclopedia del rapporto uomo-natura resa attraverso un Gesamtkunstwerk tra musica, visual e scrittura. O come le riflessioni sui dati digitali, raccolti dai social media e utilizzati per schedare i nostri comportamenti, delle “foto segnaletiche” di ‘Data Delinquents’ (di Andrea Riba, Isabella Lee e Ashy Rinaldi Castro). Lo stesso si può dire per ‘The Idling Mobile’, un furgone dedicato all’interazione tra parole e immagini con i visitatori allestito da Ann Schomburg e Sascha Boldt, e per ‘Story For Food’, un bar berlinese dove le consumazioni si “pagano” in storie, raccontate, registrate e qui tradotte in musica da Louis DeCicco.
Insomma, momenti dove contaminazione e interazione vengono messi in pratica e raccontati con e per un senso dell’oggi, o che tentano di lavorare su un rapporto tra artista e fruitore, o che risultano disturbanti e capaci di dirottare lo sguardo: qualcosa che vado cercando e che trovo più interessante di una mera, per quanto magari tecnicamente impeccabile, creazione di soundscapes o dimostrazione di maestria tecnica (che poi è il motivo per cui ho sempre preferito Adrian Belew a chi faceva gli assoli di chitarra a velocità stratosferica, ma questo è un altro discorso). E che qui scopro nelle performance di Nicoletta Cabassi e in quella, riservata a uno spettatore per volta, di Iula Marzulli. O nelle donne e negli uomini raccontati dai documentari Dust (di Gabriele Falsetta), Inner Me (Antonio Spanò) e Beyond Pain (Emanuele Lami Grifeo). Film, musica, fotografia, performance. Tantissimi gli eventi in tre giorni di festival e impossibile citarli tutti, però in chiusura voglio tornare alla musica e dire di Musicamatta e della sua slow-keta-fusion: beat tribali e sample rubati a musiche etniche sconosciute mischiate a field recording di disparata provenienza, mentre scorrono immagini prese da chissà quali antichi filmini familiari, con un sapore alla “My life in the bush of ghosts” aggiornato all’era digitale e privato del senso di apocalisse imminente. Molto poco italiano, senza fare il giro tipico di quelli che dalle nostre parti fanno gli esterofili e risultano più provinciali di chi passa una vita al bar di Caronno Pertusella.
Sì, ma che Italia esce dal Coffi Festival di Berlino? In un certo senso coerente con ciò che è davvero: in qualche caso si limita al compitino, ma in qualcun altro, e sono i momenti più interessanti e riusciti, prova a dire qualcosa di suo, a volte magari (ma non è niente di irrecuperabile) con qualche gap di linguaggio, attitudine e contemporaneità rispetto ad altre realtà, a volte invece tentando di sgrezzarsi dall’esistente. Forse un’Italia che non sempre vede rappresentate la propria complessità o alcune problematiche di stringente attualità (gli italiani di seconda generazione e il tema del razzismo dilagante), e che non sembra essere mai del tutto disposta a rinunciare a rifugiarsi nella sua autoreferenzialità e (la composizione del pubblico lo confermerebbe) nel parlare a se stessa, ma anche un’Italia che non rinuncia a essere curiosa verso mondi altri e a provare a trovare una strada propria per raccontarli: continuare a voler trovare chi lo fa è il bell’augurio che faccio ai ragazzi del Coffi Festival.
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Foto copertina: Willy the Clown – © Cesare Zomparelli
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