Il poeta romantico John Keats aveva elaborato, intorno alla metà dell’Ottocento, la teoria della negative capability, cioè la capacità di alcuni scrittori di essere disposti a ritrovarsi in un luogo di incertezza ed insicurezza intellettuale, pur di perseguire la bellezza artistica.
Lo stesso concetto lo rielabora in maniera leggermente più arrogante, ma allo stesso tempo più chiara, Francis Scott Fitzgerald quando dice che:
“Il banco di prova di un’intelligenza superiore è la capacità di sostenere simultaneamente due idee contrapposte senza perdere la capacità di funzionare. Uno dovrebbe, per esempio, capire che non c’è scampo ma essere comunque intenzionato a far di tutto per trovare una via d’uscita.“
Tenere un diario mi fa impazzire e, allo stesso tempo, è ciò che previene il fatto che io impazzisca per davvero.
Invece di un paradosso è un’attività che si svolge in maniera molto naturale. Tutto è il contrario di tutto. È una medaglia e continuamente il suo rovescio. È qualcosa che sembra senza senso, eppure funziona. Come la vita.
Ho deciso di esplorare per iscritto il perché tengo un diario e perché lo tengo così poco metodicamente.
I motivi principali per cui annoto tutto nel quaderno sono tre: ricordare, capire, calmarmi. E queste tre azioni sono strettamente legate e dipendenti l’una dall’altra.
Ricordare
Ho un’ottima memoria, ma ho il terrore di dimenticare.
Davvero, mi ricordo una quantità di cose inusuale, soprattutto storie e facce.
Ho imparato a non offendermi quando con entusiasmo ed un po’ di emozione vado a salutare il mio partner di tango con cui ho fatto lezione una volta quattro anni fa in una scuola di Brunnenstraße, se la sua mimica facciale non dà segno di riconoscermi. Ho imparato anche che nominare sempre luogo, data e occasione in cui si è conosciuta una persona con cui non si ha molta confidenza, specie se non è chiaro che non sei interessata romanticamente, non è sempre l’ideale per diventare amici di qualcuno.
So di non essere un caso raro, ne conosco molti altri, soprattutto persone che fanno il mio stesso lavoro, che possiedono una buona memoria. Visiva, molto spesso. Questa credo sia una caratteristica soprattutto di chi è abituato a vivere in maniera più silenziosa, più in disparte. Quelli al centro della scena, che calcano il palco, sono presi dal momento, dall’azione, non hanno modo di osservare il complesso in maniera distaccata, di analizzare ed immagazzinare i dettagli, come qualcuno che invece guarda da lontano.
Nonostante sia ben consapevole di avere una capacità di storage piuttosto ampia ed efficiente, ho una paura totale ed irrazionale che quello che mi succede sprofondi per per sempre nell’oblio. Nel mio di oblio.
Durante l’estate dei miei diciassette anni, mi stavo rimettendo dopo un anno complicato. Mia zia mi aveva portato a Venezia alla Biennale d’arte. Avevamo visto tutto quello che era umanamente vedibile in tre giorni di permanenza. Alla fine dell’ultima visita ho insistito per comprare i cataloghi della mostra. Avrei speso tutti i miei averi per l’estate.
“Ma sei sicura? Perché li vuoi?”
Avevo tra le braccia secche e bianche due volumi di cui facevo evidentemente fatica a reggere il peso.
“Perché non voglio dimenticarmi quello che ho visto,” ho risposto. Mancava il terzo volume, quando la commessa me lo comunicò, la mia faccia perse ulteriormente colore, sgranai gli occhi, che già da normali sulla mia faccia all’epoca smunta apparivano inquietantemente grandi. La respirazione si fece più veloce, i pensieri più confusi, circolari. Eccolo, stava tornando.
Mia zia mi prese i libri dalle mani e li poggiò sul bancone.
“Andiamo, non ci pensare,” disse, e mi trascinò fuori. A casa tremavo e mi sentivo che della gola si erano gonfiate le pareti e che permettevano il passaggio di un solo spaghetto d’aria. Dicevo le stesse parole in continuazione.
“Senti, se te le dimentichi vuol dire che non ti avevano colpito,” disse mia zia parlando delle opere d’arte. Mi sembrò un ragionamento semplice, che filava. Mi calmai. È una cosa che mi ripeto ancora oggi quando mi preoccupo troppo.
Il giorno dopo mi fece trovare i tre cataloghi sul tavolo in cucina.
“Se ti vuoi sentir sicura, non c’è niente di male.”
Capire
Infilare in un resoconto avvenimenti uno dietro l’altro in ordine cronologico quando succede qualcosa che ci colpisce emotivamente, non é così elementare come si potrebbe pensare.
Ma è interessante notare cosa si sceglie di includere nel racconto e cosa viene lasciato fuori, cosa viene trattato in profondità e cosa solo accennato.
Recentemente ero in viaggio su un autobus in Italia. Il mio vicino di posto andava a casa dalla madre dopo un litigio con il fidanzato. Alle 18:55 inizia la conversazione telefonica con quello che credo aver capito fosse un amico comune della coppia.
Ciò che è successo è riassumibile in poche parole. Salvo, il fidanzato, aveva messo il muso a Mario, il mio vicino, perché sabato, il giorno prima, erano rimasti a casa a vedere un film anziché andare a ballare. Quando Salvo aveva proposto di uscire a comprare la “benzina,” così si riferiva Mario a quella cosa che “se c’era tanto meglio, ma che di certo non era la conditio sine qua non per fare festa”, lui gli aveva risposto che non aveva soldi quel mese. Salvo sul momento non aveva reagito, il giorno dopo però glielo aveva rinfacciato con astio.
Alle 19:49 Mario stava ribadendo per l’ennesima volta quanto lui, ogni volta che c’era da mettere la sua parte, l’aveva messa, che non aveva niente per cui sentirsi in colpa e che era sereno.
A parte preghiere a svariate divinità in cui supplicavo di farci entrare in una galleria infinita che impedisse la comunicazione, quello che mi é venuto in mente ascoltando Mario é una semplice domanda: perché stesse lì a sottolineare che lui si era comportato bene e non c’era niente che gli si potesse rimproverare, quando io al posto suo mi sarei concentrata sul fatto che Salvo fosse uno stronzo infantile e che se avesse avuto tanta voglia di fare il pieno alla macchina poteva pagare lui il carburante o alla peggio andare da solo invece che mettere il muso il giorno successivo.
Ovviamente qui siamo nel reame della speculazione pura. Ma se l’accento è stato posto su onestà e correttezza, ci deve essere stato qualche episodio torbido che vede Mario come principale imputato. Per lui era dunque importante evidenziare che questa volta era diverso. Lo stesso facciamo tutti, lo stesso faccio io. Se nel resoconto che scrivo di un evento letterario a cui ho partecipato, mi soffermo sul fatto che ho parlato con tante persone, scambiato contatti, fatto addirittura amicizia, significa che probabilmente per me non è una cosa così abituale. Difficilmente scriverò che non ho rivolto la parola a nessuno, e appena ho potuto sono sgattaiolata via prima di poter essere invitata all’afterparty, quella è la prassi, non ha una grande necessità di essere registrata.
Leggendo a posteriori stralci di diario, mi rendo conto di cosa, in una determinata situazione, è stato rilevante per me. Fatto che non sempre realizzo nel momento in cui lo esperisco. O che modifico con il passare del tempo. Per esempio, potrò aver conservato il ricordo di uno splendido pick-nick al parco con i coinquilini durante la prima giornata calda di Maggio, mentre invece sul diario c’è scritto che siccome indossavo la gonna senza calze l’erba sulle cosce mi provocava del prurito insostenibile e non sapevo quale scusa usare per andare a casa senza fare l’asociale di turno.
La comprensione per iscritto funziona però anche in una maniera più istantanea, sul momento.
Succede spesso che mi faccia prendere dall’entusiasmo o dall’emozione. O meglio, che mi lasci sopraffare. Come un padrone che è mancato da casa tutto il giorno, al varcare della soglia verrà travolto dai suoi quattro Setter che lo aspettavano dietro la porta scodinzolando. Così io con progetti, idee, o situazioni confuse sono in balia di pensieri che mi si accalcano addosso.
Una mia amica mi ha consigliato di respirare a fondo quando succede, che il respiro rallenta tutto. Un, due, tre mentre inspiri. Un, due, tre, quattro mentre espiri. Funziona. Ma ancora meglio per me funziona scrivere, di solito cominciando la frase con un “allora” che metta in riga tutto e tutti.
Nell’interstizio tra la paura di dimenticare e la necessità di chiarirmi le idee si situano le mie liste delle cose da fare. Una persona esperta mi ha consigliato di smettere, non serve a niente se non a mettermi ulteriormente sotto pressione. Dice che uso la parola „devo“ troppo spesso. Ma io sono del capricorno, ho un senso del dovere prepotente e prevaricante. Il problema, se fin ora non era ancora chiaro, é che ho l’ansia, con una leggera tendenza verso l’ossessività. Quindi queste liste le scrivo giornalmente e a fine giornata le aggiorno. Sottolineo le cose più urgenti, faccio frecce ciccione vicino ai punti a cui devo fare maggiormente attenzione, scrivo gli ordini di priorità, note, promemoria sul quando fare, come fare, quanto tempo impiegare.
Quando chiudo l’agenda, incredibilmente, sono più rilassata. Il giorno dopo invece, quando mi siedo alla scrivania per cominciare a lavorare, con le idee ancora rarefatte prima che la caffeina solidifichi tutto, apro l’ultima pagina del mio taccuino e per un secondo mi manca il fiato.
Devo fare questo. Devo fare quello. Devo fare questo. Devo fare quello.
Mi ricordo di inspirare, uno due tre, e di espirare, uno due tre quattro. Funziona. La stesso foglio di carta che la sera ha un effetto calmante, la mattina ne ha uno ansiolitico. Tutto è il contrario di tutto.
Calmarmi
La sensazione di non avere tempo non svanisce mai completamente. Ho fretta, tutto é urgente. Neanche lavorassi al pronto soccorso. Infatti ogni tanto ho bisogno di dirmelo, se non faccio tutto quello che devo fare il mondo non finisce, non muore nessuno, nemmeno io. È una banalità, ma d’altronde è proprio l’ovvio la cosa più difficile da notare. Viktor Sklovskij scrive che l’uomo perde l’ abilità di vedere la pietra di fronte alla propria casa, poiché la vede ogni giorno.
L’arte è ciò che ci impone di riconoscere gli automatismi del subconscio. L’arte, scrive Franco “Bifo” Berardi, rende quella pietra un oggetto brillante, scuro, spaventoso, sublime nella nostra attenzione emozionale.
Con questo non voglio sottintendere che tenere un diario sia una forma d’arte, ma un esercizio preparatorio. Una forma di allenamento all’attenzione. Per poter scrivere di qualcosa bisogna innanzi tutto notarlo, poi ponderarlo, analizzarlo ed infine rielaborarlo. Per fare ciò c’è bisogno di una relativa calma. Non lo si può fare alla buona, per levarsi il pensiero. Che sia un’emozione, un evento o un pensiero, lo si ispeziona, si cerca di capirlo, di scomporlo per renderlo digeribile. La risoluzione non è importante. È come quando nei problemi di matematica il procedimento era giusto, ma il risultato sbagliato e si riceveva comunque un buon voto. Tolto il fatto che qui nessuno ti deve valutare.
È un processo che richiede tempo ed impegno, sviscerare ogni cosa che ci succede è faticoso e non particolarmente piacevole. È molto più indolore tirare dritto senza guardarsi indietro, procedere per la propria strada come uno schiacciasassi. Al suo estremo opposto, indulgere nell’iperanalisi equivale alle sabbie mobili dell’intelletto. Però credo che sia necessario, di tanto in tanto, fermarsi a vedere dove si è, quanta strada si è fatta e cosa è successo tra punto A e punto B.
Quando sono nei miei momenti di frenesia, eccitata per qualche nuova idea o stressata da consegne imminenti scrivere sul diario mi sembra un’enorme perdita di tempo. Anzi, è spesso la giustificazione che mi do per non farlo, perché so che è un’attività che mi costa.
Mi impone una pausa, un momento di onestà forzata – durante la redazione, lo scegliere di omettere dice tanto quanto lo scegliere di inserire – in cui si rivelano molte fragilità, le mie fissazioni e tanti altri aspetti di me che non per forza mi piacciono. Arresta il flusso di eventi, di impegni, di appuntamenti che stordiscono, affaticano, intorpidiscono. Risveglia l’autocoscienza e quella parte di te che davvero ci tiene, che ti prende per le spalle e ti dice: “Hey, tutto bene?” È l’unica prova che ho per confutarmi da sola quando entro in vortici di pensieri disfunzionali: “non sono mai felice”, “sono anni che si susseguono delusioni.”
Posso andare a ripescare la prova del fatto che il 16 Luglio 2017 ero felicissima. Che il 10 Ottobre 2015 ho tagliato un traguardo importante.
È anche uno dei pochi modi che ho, una volta che smetto di opporre l’umana resistenza al cambiamento e al mettersi a nudo, di provare sollievo. Di entrare in uno stato di pace in cui tutti i problemi e le questioni ad un certo punto si ridimensionano e perdono quel peso che io troppo spesso erroneamente gli attribuisco.
Le pagine, come carta moschicida, catturano quel surplus di preoccupazione e frustrazione che mi fa vivere male. Chiuso il quaderno tiro un sospiro e mi sento come se fossi più leggera e più saggia. Come se avessi adempito ad un dovere, cancellato uno dei compiti dalla lista, ma anche, come se mi fossi fatta un favore, se avessi compiuto un piccolo gesto di auto-cura.
E contemporaneamente è come se lo volessi fare tutti i giorni di nuovo e mai più.
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Illustrazione di copertina di Angelica Lena
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