“Sono nato in Svizzera, ci sono cresciuto e la considero la mia patria, ma lo stesso penso della Germania e anche dell’Italia, per le mie radici. Vivo tra Zurigo, Berlino e Venezia. L’Europa è piccola e culla la diversità. Mi definisco europeo, non svizzero o tedesco o italiano”.
Con quegli occhi miti e la faccia da buono, incorniciata in un corpaccione robusto ma non pingue, certamente molto terreno e non angelico o ascetico, a prima vista Bruno Ganz non è la prima persona a cui pensereste, per chiedergli di impersonare un angelo. Eppure è proprio grazie a questo ruolo, interpretato in un film epocale come “Il cielo sopra Berlino” di Wim Wenders, anno di grazia 1987, che Bruno Ganz, il protagonista delle righe che state leggendo, ha raggiunto la grande notorietà internazionale.
Intendiamoci, prima di quell’anno Bruno Ganz non era certo un illustre sconosciuto: nato nel 1941 a Zurigo, da madre italiana e padre svizzero, aveva debuttato al cinema a 19 anni, nella commedia tedesca “Der Herr mit der schwarzer Melonen”, mai distribuita da noi, prima di dedicarsi soprattutto al teatro. Nel 1970, trasferitosi a Berlino, fu tra i fondatori della compagnia di ispirazione brechtiana Schaubühne am Halleschen Ufer.
Passano pochi anni e diventa uno degli attori-simbolo della stagione del Junger Deutscher Film, o Nuovo Cinema Tedesco, l’equivalente teutonico della Nouvelle Vague francese, fucina di registi oggi considerati veri e propri maestri come Edgar Reitz, Margarethe Von Trotta, Rainer Werner Fassbinder e, soprattutto, Wim Wenders e Werner Herzog. È proprio Wenders, nel 1977, a offrirgli il primo ruolo memorabile della carriera, quello del corniciaio Jonathan Zimmermann, incastrato in un giro di eventi più grande di lui, ne “L’amico americano”, mentre Herzog, l’anno successivo, lo vuole per impersonare l’agente immobiliare Jonathan Harker nel remake del capolavoro espressionista “Nosferatu, il principe della notte”.
“Ho scoperto il mestiere dell’attore molto presto, a 13-14 anni. Dopodiché, in seguito a una fallimentare esperienza all’università, me ne sono andato dalla Svizzera e sono partito per la Sassonia, in Germania, dove ho iniziato a collaborare con un gruppo teatrale di studenti. Lì ho imparato il vero tedesco, non lo Züridütsch, la parlata svizzera. E abbiamo messo in scena molte commedie di autori contemporanei tedeschi, tutto a nostre spese. Non avevamo introiti, fu un periodo molto hippie attorno al 1960-63. Poi ho deciso di fare più sul serio e sono andato a Brema, dove ho avuto occasione di lavorare col mio mentore, Peter Zadek, un bravissimo regista di Berlino, di origine ebraica, conosciuto ancora oggi nell’ambiente. Fu allora che feci i miei primi Amleto e i miei primi Macbeth”.
La formazione teatrale, e un volto adatto agli intrecci psicologici delle vicende umane, accompagnano la sua carriera cinematografica, che s’intreccerà diverse volte con l’Italia: prima con il bellissimo e ormai quasi dimenticato “Oggetti Smarriti”, di Giuseppe Bertolucci, in cui, al fianco di Mariangela Melato, interpreta Werner, un amico con cui Marta, la protagonista, passa un giorno e una notte all’interno della Stazione Centrale di Milano, e poi, nel 1981, al fianco di una giovanissima Isabelle Huppert e di Gian Maria Volonté, in “La vera storia della Signora delle Camelie”, di Bruno Bolognini.
Arrivano poi l’exploit del “Cielo Sopra Berlino” e del confusionario e poco riuscito seguito di sei anni dopo, “Così lontano, così vicino”; in mezzo, ancora l’Italia, con il film a episodi “La domenica specialmente”, del 1991 (nell’episodio diretto da Giuseppe Bertolucci), e con “Un amore di donna”, del 1988, insieme a Laura Morante, prima dei film che, per ragioni diversissime tra loro, hanno reso il volto di Ganz conosciutissimo anche in Italia: “Pane e Tulipani”, una commedia gentile e pluripremiata ai David di Donatello diretta da Silvio Soldini nel 2000, in cui recita insieme a Licia Maglietta nella parte di un tenero cameriere-filosofo, e “La caduta – Gli ultimi giorni di Hitler”, del 2004, in cui interpreta in maniera eccezionale il dittatore nazista. Impossibile non vi siate imbattuti, in questi anni, nelle parodie della scena madre in cui Hitler si accorge che la guerra è persa e si lascia andare a un furibondo scoppio d’ira, doppiate e modificate per i più svariati argomenti, dalla sconfitta della Juventus in una finale di Champions League ai modi più corretti per cucinare una carbonara.
Un Bruno Ganz ormai plurisessantenne, a questo punto, si concede il lusso di continuare a recitare per rispondere alla chiamata di grandi registi: lo cercano Theo Angelopoulos, Francis Ford-Coppola, Jonathan Demme (“The Manchurian candidate”, sempre del 2004), Ridley Scott (“The counselor”, 2013), Atom Egoyan, Terrence Malick e Lars Von Trier (nell’ultimo “The house that Jack built”). Oppure per progetti che trova particolarmente significativi per la storia del suo Paese d’adozione, come “La banda Baader-Meinhof”, sulla omonima organizzazione terroristica tedesca degli anni ’70, o, ancora, per la profondità dei personaggi raccontati, vedi “La fine è il mio inizio”, in cui Bruno Ganz Terzani interpreta il giornalista italiano Tiziano Terzani. Pochi attori possono vantare ruoli così diversi tra loro come quelli interpretati da Bruno Ganz nella sua lunghissima carriera, dal più folle e tremendo dittatore della storia al giornalista senza scrupoli che indaga in Libano, dall’angelo che vuole essere uomo al capo dell’antiterrorismo tedesco.
“Sono morto parecchie volte, sul set, ma purtroppo i ruoli in cui alla fine muori non ti aiutano a prepararti per la morte vera. A volte, mentre sei lì, morto stecchito sul pavimento, e gli altri intorno son tutti vivi, sei grato semplicemente al fatto che nella vita reale lo sei ancora anche tu. All’età di 77 anni, la maggior parte della gente ha smesso di lavorare ormai da qualche anno, e anche un attore ha bisogno di pensare al suo futuro. Trovo stupida l’idea di continuare a lavorare come un matto, per dieci ore al giorno, solo per restare in contatto col mondo del cinema. Perciò spero di essere capace di smettere di lavorare presto”.
Ripley: “Mi piacerebbe essere tuo amico. Ma l’amicizia non esiste”
Zimmermann: “Questo è un sollievo”
Avete presente Dennis Hopper? L’attore-feticcio degli anni ’60 più hippy, il regista-protagonista di “Easy Rider”, ma anche l’interprete di Frank Booth, lo psicopatico violentissimo di “Velluto Blu” di David Lynch, oltre che di molti altri film in una carriera lunghissima terminata solo con la sua morte, nel 2009. Bene, è il 1977, quando il buon Dennis sbarca in Germania, chiamato da Wim Wenders a recitare la parte di Tom Ripley, un mercante di quadri dai traffici più che ambigui, in “L’amico americano”, un’opera che sarà riconosciuta come una delle migliori del regista di Düsseldorf.
In breve, è la vicenda di un mercante di quadri truffatore, Ripley, che per vendere le opere del suo protetto lo dà per morto, e che a un certo punto entra in contatto con un piccolo corniciaio, malato terminale, che finisce per doversi trasformare in killer per sbarcare il lunario. Il mercante e Zimmermann, il corniciaio, stringeranno una profonda amicizia e riusciranno a farla franca contro i malavitosi cui hanno pestato i piedi, prima che la fatale malattia di cui sopra chiuda il cerchio. Ben più che nella trama, però, la forza della pellicola sta nell’intreccio umano tra i due protagonisti, nello scavo psicologico e in quella sorta di malinconia ironica che percorre tutto il film: come un esempio di cinema americano, ma visto da occhi europei, come successo in moltissime opere di Wenders.
Ma torniamo a noi. Hopper, in questo momento, è sulla cresta dell’onda: poco più che quarantenne, ha all’attivo una lista già lunghissima di film, sia in settori più d’avanguardia, quelli girati ad esempio con Andy Warhol, che con esponenti della Hollywood più alternativa e laterale, come Roger Corman. Nell’ambiente, Hopper non è certo considerato un tipo facile: è della generazione dei Brando, dei Nicholson e dei Dean, dopotutto, quella tutta Actor’s Studio, metodo Stanislavskij, immedesimazione e recitazione “da strada” opposta a quella focalizzata su straniamento e cerebrale metarappresentazione della scuola di Bertolt Brecht. Non solo, è il più classico figlio dell’America redneck e individualista: arriva dal Kansas, uno Stato che è un rettangolo quasi perfetto nel centro esatto degli Stati Uniti meno scintillanti. Mezzo hippy stonato, ma di fede repubblicana (almeno fino all’avvento di Barack Obama, per cui farà campagna elettorale), irrequieto e sempre pronto a fare a botte. L’arrivo sul set è già da film: occhi sfatti e capelli unti e lunghi, Hopper arriva in Germania, per l’esattezza ad Amburgo, direttamente dalle Filippine, dove stava girando “Apocalypse Now”.
Ciò che il buon Hopper forse non sa, o comunque non considera, è che il co-protagonista del film che sta andando a girare è praticamente il suo opposto, dal punto di vista attorale: Bruno Ganz, infatti, è un fervido discepolo brechtiano, tarato sull’idea di attore come veicolo del messaggio di svelamento della finzione che un’opera, teatrale o filmica che sia, deve suscitare nello spettatore. Per quasi cinque anni, Ganz non si è occupato di cinema, dando tutto se stesso alla compagnia teatrale di cui è uno dei fondatori, e si cimenta in una serie di lavori dal fortissimo connotato politico, portando le rappresentazioni anche fuori dai teatri, in luoghi proletari come le birrerie di Berlino Ovest. Da tutto questo, sullo schermo, non può che nascere un cocktail esplosivo, e in effetti, oltre che nella fotografia, il film eccelle nel contrasto tra i due diversi modi di recitare, che pian piano trovano un loro equilibrio.
E poi c’è un’altra cosa che Dennis Hopper non sa, o forse sottovaluta: Bruno Ganz sarà pure un tipico attore europeo di formazione teatrale, con un solido impianto culturale e una profonda autoconsapevolezza del suo ruolo, ma non è certo un esponente delle classi agiate: figlio di un macchinista e di una cameriera, cresce per strada e abbandona la scuola per tentare la carriera di attore, contro il volere dei genitori e adattandosi a lavori di fortuna, come quelli di libraio e paramedico. Anche quando da adolescente si trasferisce in Germania, l’ambiente in cui vive è sempre quello proletario delle periferie, come ricorderà lui stesso in una intervista, parecchi anni più tardi: “Sono cresciuto per strada, era normale scontrarsi fisicamente. E a scuola capitava spesso di fare a cazzotti. Entri in classe il primo giorno e c’è un ragazzo, lo guardi e capisci di non piacergli. Per un po’ fai finta di niente, ma poi anche lui comincia a non piacere a te. Così ti ritrovi in cortile, a fare a calci e a pugni”.
E non conta quanto la vita professionale ti regali successo e soddisfazione personale, soprattutto quando la vita privata è toccata da una tragedia. L’anno prima de “L’amico americano”, nel ’76, l’attore sta passeggiando sul lago di Zurigo con il figlio Daniel e la moglie Sabine. “Guarda, Daniel, là davanti c’è un cigno”. Solo che Daniel guarda sì, ma nella direzione opposta. Da lì a un anno, esattamente nel periodo in cui iniziano le riprese de “L’amico americano”, il bimbo perde completamente la vista, senza che luminari e dottori di tutta Europa riescano a capirne la ragione. Si può capire come Ganz abbia i nervi piuttosto tesi, quindi, e che non abbia tutta questa voglia di scherzare, soprattutto con uno yankee attaccato alla bottiglia e che sbruffoneggia sul set giocando a fare la star.
La situazione è elettrica, e probabilmente Wenders non se ne accorge, o se ne accorge e lascia fare: in fondo lo scontro tra divi è sempre stata una mossa che a un film male non faceva (chiedere per informazioni a Herzog sul suo rapporto con Klaus Kinski, o alla coppia Cruise-Kidman con Stanley Kubrick).
Sta di fatto che, a un certo punto, Hopper biascica una battutaccia, e sceglie il peggiore degli argomenti possibili: la cecità. È un attimo. La mole, non proprio da fuscello, di Ganz, si avventa con una velocità imprevedibile sullo statunitense, e ne nasce una zuffa colossale, che a stento la troupe riesce a sedare, convinta all’inizio che i due stiano scherzando tra loro. Wenders scioglie le righe, per quel giorno può bastare, e manda tutti a casa. E Amburgo è pur sempre una città perfetta, per i bagordi notturni: Ganz e Hopper scelgono di chiarire i loro dissapori davanti a una robusta serie di birre e whisky. Il mattino dopo, e per tutta la durata delle riprese, più nulla succederà, e i due galli nel pollaio andranno d’amore e d’accordo, portando sullo schermo una delle più convincenti storie di amicizia del cinema di quegli anni. E continuando a essere amici per diversi anni anche fuori dal set.
“La mia debolezza è stata l’alcool: ha preso un assoluto dominio su di me, tanto da farmi pensare intensamente alla morte. Ne sono stato prigioniero per dieci anni, al punto di non riuscire nemmeno a fare colazione, senza alcol, per non parlare dell’essere in scena. Mi sono salvato grazie a un incidente: sono finito in auto contro un palo. Da allora non ho mai più bevuto”.
Non so se ci sia un fine, ma ci deve essere una decisione
“Si dice che io abbia rinunciato a interpretare il protagonista di “Schindler’s List”, ma la verità è che è stato Spielberg a non volermi. Aveva ragione, gli inviai il filmato di un provino davvero pessimo. Un altro ruolo che avrei dovuto interpretare era quello di Richard Gere in “Pretty Woman”. Anche lì, non rifiutai io, ma qualcuno della produzione”.
Bruno Ganz ha girato decine di film, in più di cinquant’anni di carriera cinematografica, e la varietà di ruoli interpretati rende difficile, naturalmente, trovare fili rossi in grado di legare le sue prove da attore. Se proprio volessimo, potremmo identificarne uno nella capacità di lavorare quasi sempre con registi di altissima qualità e in pellicole che, anche quando non di enorme successo al botteghino, si distinguevano per un livello qualitativo sempre alto. Ma forse sarebbero fili rossi tutto sommato poco interessanti o indicativi. Invece ne vogliamo trovare uno che traspare da due film di uno stesso regista, da uno di un altro tedesco e da uno italiano. Sono di tre decadi diverse e, pur vedendo quattro Ganz naturalmente differenti nella maturità attorale, vi si possono trovare un modo, una figura e una recitazione molto coerenti e riconoscibili. Bruno Ganz sa mettere in scena il candore, un candore quasi voltairiano, e l’empatia di fronte alla vita e ai propri simili, che ti fa passare con innocenza in mezzo a ogni avvenimento.
L’amico americano (1977)
Jonathan Zimmermann è una specie di Walter White ante litteram, o, per meglio dire, un Walter White meno astuto e intelligente, meno diabolico e cinico. Meno Nietzsche e più Voltaire, appunto. La situazione di partenza è però molto simile: proprio come al protagonista di “Breaking Bad”, al corniciaio di Amburgo viene diagnosticata una malattia letale. Ossessionato dal terrore di lasciare la sua famiglia in uno stato di indigenza, finisce per accettare la proposta di un sicario francese, che gli chiede, in cambio di una grossa somma di denaro, di uccidere un uomo. Come dicevamo più sopra, la trama è per Wenders poco più di un pretesto per sviluppare un discorso estetico sul cinema e sul guardare (tipico tema della sua arte degli anni ’70, questo: Wenders si è sempre considerato un fotografo e quindi, per naturale sviluppo, un “fotografo in movimento”, cioé un regista) e, contemporaneamente, un ritratto quasi filosofico di un uomo (ma potremmo dire dell’uomo), delle sue ossessioni, delle conseguenze psicologiche di una malattia, della nascita di una profonda amicizia e delle sue ripercussioni, nonché dei conflitti che essa può generare, sulla vita quotidiana e le esistenti relazioni sentimentali. E poi, nel personaggio di Hopper, della ricerca di una redenzione impossibile da una esistenza violenta. In questo scenario così profondo e introspettivo, la recitazione di Ganz, tutta basata sui contrasti tra la sua figura mite ma resa incandescente dalla prospettiva della morte imminente, è perfetta nel rendere la complessità di un personaggio solo apparentemente in balia delle circostanze e di ciò che il caso gli mette davanti. La voce bassa, la recitazione sommessa e naif di una scena, lasciano il passo, in quella successiva, a violenti scatti d’ira, dei quali solo noi spettatori, naturalmente, intuiamo i motivi, ma che risultano sempre credibili, anche quando, per i parametri di recitazione cui al giorno d’oggi siamo abituati, possono dare l’impressione di essere forzati. In questo personaggio che mantiene una sua innocenza di fondo, nella gestualità e nella postura portate in scena da Ganz, c’è tutta la cifra dell’attore di formazione teatrale, che usa il corpo per plasmare una tridimensionalità grazie alle espressioni del viso e degli arti, più che alle parole pronunciate, alla condizione umana di Jonathan Zimmermann.
“Ero davvero molto preoccupato, riguardo all’idea di incontrare Kinski, vista la cattiva fama che si portava dietro: tutti lo consideravano, a essere gentili, un pazzo! Era un tipo interessante, comunque, anche se dopo pochi giorni cominciammo a pensare che ci avrebbe ammazzati tutti. In effetti il suo comportamento era molto strano, a tratti lunatico, ma solo con quei poveretti della troupe, in particolare quelli dei ranghi più bassi. Una cosa che trovo disgustosa, visto che loro non avrebbero mai potuto replicare. Con me invece si comportava bene. Ricordo che avevamo un problema con tutti i topi che furono impiegati nelle riprese, perché stavano morendo di fame e la persona che doveva dar loro da mangiare non lo faceva, e lui vedeva tutti questi topi in condizioni disperate e rideva. Era davvero un disastro, umanamente. Con Herzog, il rapporto però era simbiotico: erano una sola persona e creavano tra loro uno spazio in cui chiaramente non potevi entrare, ma che era comunque interessante da osservare”.
Nosferatu – Il principe della notte (1979)
La storia è arcinota. Jonathan Harker è un giovane e promettente agente immobiliare, che accetta una missione che gli sarà fatale: spostarsi da Wismar, sul mar Baltico, alla Transilvania, per chiudere con il misterioso conte Dracula l’acquisto di una casa proprio vicino all’abitazione dove Harker vive con la giovane moglie Lucy. Non contano i presagi avuti in sogno da quest’ultima, né gli inviti a non recarsi al castello del conte ricevuti durante il viaggio dagli zingari, che dicono che Dracula è un vampiro che succhia il sangue dei suoi ospiti. Jonathan conclude l’affare con Nosferatu, solo per accorgersi ben presto che, in effetti, il conte è davvero un vampiro. A nulla servirà un precipitoso ritorno a Wismar per tentare di salvare Lucy, che si immolerà cedendo il collo al Conte, il cui spirito poi entrerà proprio nel corpo dell’allucinato Harker. Il film è un remake fedele dell’omonimo lavoro di Murnau, maestro dell’espressionismo tedesco, del 1922, un omaggio che Werner Herzog volle fare per stabilire una continuità tra quella storica scuola cinematografica e il Giovane Cinema Tedesco degli anni ’70. Anche qui, però, l’interpretazione di Ganz è quella che più stupisce. Opposta all’istrionismo di Klaus Kinski-Nosferatu quanto alla mimetica interpretazione di Isabelle Adjani-Lucy, gelida come una diva delle Ufa Produktionen del 1920, la recitazione di Ganz è moderna e contemporanea nel mettere in scena il dilemma di un uomo razionale, che non può né vuole credere alle dicerie del popolo e, puritano e borghese, intende solo concludere in fretta un affare per lui redditizio. Tuttavia non può che cedere a ciò che lui stesso sperimenta, ovvero l’inspiegabile e allucinatorio incontro con Nosferatu, sospeso e, chissà, forse addirittura irreale. In questa ambiguità, espressa però sullo schermo dando corpo concretissimo a un uomo figlio del suo tempo, e quindi illuminista e appunto borghese, il suo personaggio risulta, ancora una volta, innocente nell’approcciarsi, con spirito quasi positivista, alle credenze e alle superstizioni (più semplicemente, a una realtà “altra”, fuori dalla sua comprensione) e portare a termine il suo compito, quale esso sia. Qui sta la grandezza del Jonathan Harker firmato da Ganz.
“L’ho rivisto dopo tanto tempo, un paio di anni fa. Ciò che mi ha particolarmente commosso è l’aspetto quasi documentario che assume oggi, perché la Berlino che si vede nel film è del tutto scomparsa. Il Muro, tutta l’atmosfera, è incredibile vederla rappresentata. La scena in cui il mio personaggio incontra Peter Falk e beve insieme a lui un caffè in quel piccolo Imbiss, quel genere di mondo, davvero non esiste più. Pochi anni dopo aver girato il film, ricordo che stavo passeggiando per la città, e alcune signore mi fermavano e mi chiedevano di benedire i loro bambini. Dopo aver girato “Pane e tulipani”, invece, comprai una casa a Venezia, e passeggiando per le calli le persone mi fermavano e mi chiedevano di candidarmi a sindaco della città!”.
Il cielo sopra Berlino (1987)
Damiel e Cassiel sono due angeli che vegliano su Berlino, negli anni ’80. Invisibili a tutti tranne che ai bambini, osservano e accompagnano gli abitanti della città, vivendo e preservando la memoria degli uomini che la vivono. Damiel, il personaggio di Ganz, si innamora della trapezista di un circo, Marion, e decide di abbandonare l’immortalità e diventare un essere umano. Anche qui, naturalmente, la trama è un pretesto per una riflessione sul tempo, l’umanità e la città di Berlino come fulcro della Storia e luogo-simbolo dei passaggi, delle possibilità tra passato e futuro. Si è parlato molto della recitazione di Ganz in questo film. Può sembrare in qualche modo legnosa, soprattutto per occhi abituati ai film di Hollywood, e in certe espressioni facciali, in certi sguardi in camera, quasi approssimativa ed eccessivamente caricata. Invece, il senso ultimo di un’interpretazione in effetti poco naturalista, sta nel significato stesso del film: stiamo vivendo una caduta, più metaforica che reale, da una condizione semi-divina a una umana. Gli angeli, e ce lo dicono gli stessi Damiel e Cassiel in una scena del film, seduti dentro una decapottabile in una concessionaria su Ku’damm, vedono tutto e conoscono tutto, da sempre, ma non sanno: non sanno cosa sia l’avere le mani intirizzite per il freddo o cosa sia un colpo di tosse, non conoscono il sapore del sangue, e naturalmente non conoscono l’amore, o l’ira. Damiel, diventando uomo, deve letteralmente imparare tutto, come se fosse un bambino appena nato. E soprattutto vuole farlo, perché toccato dall’amore per Marion, certo, ma perché quel tocco si è innestato su un’intenzione già in lui esistente. Di nuovo, come ne “L’Amico americano”, questo personaggio è innocente. Non certo in quanto angelo, ovviamente, e non più, come in quel film, innocente in quanto uomo intrinsecamente buono, quanto perché uomo-che-sta-diventando-uomo. Damiel è un angelo che vuole sentire la pesantezza dell’esistente, e abbandonare la leggerezza insostenibile della conoscenza eterna. Conoscere cose che nessun angelo sa, e attraverso lo stupore del bambino, diventare uomo.
Pane e tulipani (2000)
Con il film di Silvio Soldini, il registro cambia del tutto e vira dalle parti della commedia gentile. Rosalba è una casalinga pescarese che, di ritorno da una gita a Paestum organizzata da una ditta di venditori di pentole, viene “dimenticata” dal pullman in un autogrill. Anziché tornare a casa dal marito fedifrago, però, finisce per accettare un passaggio che la porta a Venezia. Qui, rimasta presto senza denaro, viene ospitata da un buffo cameriere di origine islandese, Fernando (Ganz), che parla un italiano forbitissimo, e trova lavoro presso un piccolo negozio di fiori. Dopo varie vicissitudini e un breve ritorno a Pescara, Rosalba si sposterà definitivamente a Venezia, per vivere la storia d’amore con Fernando, di cui nel frattempo si è innamorata. Il tema che percorre questo film è la libertà, non tanto quello della liberazione da una famiglia opprimente, quanto quello della libertà interiore, del riscoprirsi e dello scegliere ciò che si sente e non ciò che si deve, il tutto raccontato in un modo lieve e apparentemente ingenuo, lontano tanto dai consueti drammoni psicologici di molto cinema italiano, quanto dai coloratissimi melodrammi di un Almodovar. Il bizzarro personaggio di Fernando, un cameriere islandese innamorato dell’Orlando Furioso e del linguaggio aulico, sembra sommare tutte le caratteristiche che abbiamo visto negli altri due film: l’ingenuità, il candore, ma anche l’avvertire il peso dell’esistenza (tenta di suicidarsi un giorno sì e l’altro no, prima dell’arrivo di Rosalba), messi in scena con una sorta di dolente comicità che conquista lo spettatore e rende memorabile il suo personaggio. Una superficie algida e rigida, che contrasta con un animo appassionato e commosso, che coglie le sfumature ironiche della quotidianità, anche se si maschera in un aspetto sempre impeccabile e serioso, e che perfino nell’uso di un linguaggio così letterario e formale non trascura mai una certa autoironia.
“Quando mi propongono un ruolo, valuto prima di tutto quanto possa essere interessante per me. Solo nel momento in cui lo accetto, divento, almeno in parte, responsabile del ruolo che mi accingo ad interpretare. Con Terzani, è stato però in qualche modo diverso, vista la consistenza della parte e il contenuto del film, così tratto dai suoi scritti. Tiziano Terzani è una figura estremamente interessante, per un attore. È partito dalla Firenze più colta per diventare un giornalista genuinamente europeo, capace di scrivere tanto per lo “Spiegel” come per “Repubblica”, e di testimoniare la vita in luoghi difficili come il Vietnam e la Cina. È stato un vero comunista, ha vissuto l’epoca di Berlinguer e del compromesso storico, ma è stato capace di restare aperto ad esperienze verso l’esterno, pieno di rispetto e curiosità verso gli altri e la cultura, come nel caso del suo interesse per il buddismo o del suo atteggiamento verso la morte. Da attore, è stato importantissimo rendere questa sua spiritualità senza deviazioni verso l’esoterismo o la new age, che non mi appartengono per nulla. Mi interessava invece rendere quel suo sentirsi distaccato da tutto, ma anche unito con qualsiasi cosa nel mondo, tanto interessante perché per me, invece, dopo la morte non c’è niente, anche se chissà: diciamo che per il momento propendo per la variante più materialista”.
Ecco, i personaggi che Ganz ha incarnato nei quattro film di cui abbiamo parlato, a ben vedere, hanno punti in comune con gli altri interpretati dall’attore di Zurigo, e costituiscono in questa messa in scena dell’umanità il tratto distintivo di gran parte delle sue prove, dall’amico ritrovato di Mariangela Melato in “Oggetti smarriti” al giornalista disilluso in missione in Libano de “L’inganno”, alla rappresentazione della serenità di un giornalista, di un uomo, così profondo come Tiziano Terzani, e persino con l’Hitler morente de “La caduta”.
“Hitler ha continuato a credere nella sua visione del mondo semplificata, in questa sua degenerazione del darwinismo, fino all’ultimo. È la chiave per accaparrarsi il potere: qualsiasi cosa tu ritenga che il popolo debba sentire, digliela. E lui fu un maestro, in questo. Quando ho ricevuto il soggetto del film, la prima reazione che ho avuto è stata quella di trovarmi di fronte a un lavoro onesto: nessun revisionismo, nessun giocare con il senso di colpa tedesco, nessun intento apologetico. Somiglia più che altro a un documentario. A film concluso, capisco che era la cosa giusta da fare, soprattutto dopo aver visto le reazioni in Germania. La Destra e gli estremisti neonazi non hanno potuto sfruttare nemmeno un fotogramma per la loro propaganda, e questo mi ha fatto sentire molto soddisfatto e tranquillo per la mia scelta. Sulle reazioni critiche scaturite dal film, invece, c’è una cosa che mi ha fatto molto arrabbiare. È stato detto che io ho avuto il torto di “umanizzare la figura di Hitler”. Questa cosa è assurda. Già solo l’uso di questo termine è profondamente esplicativo di un gap culturale che ancora esiste, ovvero il fatto che ci sia quasi necessario pensare che Hitler fosse la personificazione del male assoluto, e quindi, per forza di cose, non-umano. Beh, invece, dio santo, per quanto male ci possa fare rendercene conto, Hitler era umano. Come se si avesse bisogno di un’icona per il Male. Nel film ritraiamo l’Hitler degli ultimi due mesi, una figura tragica di cui pochissimi di noi, me compreso, conoscevano nulla. E invece Hitler era umano, e amava i cani e, da buon austriaco, faceva il galante con le signore in un modo che gli uomini tedeschi nemmeno si sognavano di fare. Un aspetto che mi ha impressionato è stato quello della voce di Hitler. Siamo tutti abituati al suo tono imperioso e isterico, quello dei discorsi alla folla. Noi siamo entrati in possesso di una registrazione in cui dialoga con un ambasciatore finlandese, un colloquio riservato in cui non sapeva di essere registrato. Beh, ha una voce totalmente diversa. Parla dell’esercito tedesco, dice che non è un “esercito invernale” e che in Russia si stanno accorgendo di non esserlo, di essere un “esercito estivo”. Come spesso gli capitò, si dimostra estremamente stupido, del resto era quello che definiremmo un autodidatta, che credeva così tanto in se stesso da pensare di essere l’unico che sapeva tutto. In realtà aveva solo qualche conoscenza di strategia militare, e aveva uno spirito da artista, nel senso della capacità di fare cose sorprendenti e inaspettate. Fu questo, che gli diede il successo iniziale, fare cose che gli altri non si aspettavano facesse, e che nessun altro avrebbe mai osato fare. Entrò da giovanissimo in contatto con le opere di Wagner, vedendole a teatro, a Linz, ed ebbero un influsso devastante, si sentiva davvero parte di quel mondo immaginario. Credo fosse davvero immerso in questa concezione del teatro, dello spettacolo dell’esistenza. Voleva essere un artista: del tutto senza talento, ma lo fu, aveva un profondo senso dello spettacolo e lo sfruttò fino in fondo”.
Ecco, questo lungo stralcio di intervista spiega molto non solo dell’uomo Ganz, ma anche dell’attore e della sua concezione del lavoro dell’attore. Non l’umanizzazione del mostro, non l’empatia, specie nel caso di una figura come Hitler (peraltro il primo personaggio realmente esistito mai interpretato da Ganz) ma lo svelamento dell’ovvio, forse.
E cioè che siamo qui e siamo umani, e alla fine saremo sconfitti da qualcosa di più grande di noi. È nella consapevolezza e nella gestione di questa sconfitta, che ha senso costruire qualcosa nel frattempo. Viaggiando leggeri e il più possibile umani, come Zimmermann o Damiel.
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