“Tu vinci sempre,” mi ha detto Giorgio.
“Che cosa vinco?” gli ho chiesto.
“La mia incondizionata ammirazione,” Soddisfazione si fa largo lentamente sul mio volto. “per la tua sorprendente ingenuità,” continua lui.
Ah.
Gli avevo appena detto che non mi ero mai resa conto di quanto l’ambiente in cui vivi influenzi il modo in cui ti comporti. Intendevo in termini socio-economici.
“A Londra sono una brutta persona,” avevo aggiunto alla mia argomentazione.
“Marx l’hai mai sentito nominare?”
Chiaro.
A casa faccio ricerca.
In breve, lui parla di struttura e sovrastruttura. La prima intesa come il sistema socio-economico di un dato periodo storico che comprende: come le persone lavorano, chi possiede e gestisce i posti di lavoro, chi gode dei frutti del lavoro dei lavoratori in forma di profitto. La seconda invece è la categoria che implica tutti gli altri aspetti della vita umana: etica e morale, famiglia, religione, stato, politica, media, eccetera. La struttura crea la sovrastruttura. La sovrastruttura razionalizza e difende la struttura.
Quindi se io sono una stronza (sovrastruttura) è perché Londra (struttura) è una merda.
Il discorso fila, ma mi sembra un po’ riduttivo.
Sono figlia del mio tempo perciò faccio fatica a ragionare in senso collettivo. Mi è più facile comprendere discorsi psicologici che non filosofici. Relazionarmi con un individuo conoscibile, l’io, piuttosto che con un’entità esterna, l’altro. Là dove, per definizione, quest’ultimo è intrinsecamente incomprensibile nella sua totalità. Quello che ora sto cercando di capire è il funzionamento dell’individuo all’interno di una collettività. Dunque io a Londra.
Ho notato, nel corso di questi diciotto mesi di permanenza, cambiamenti spiacevoli nel mio modo di agire. Piccole cose, le quali però mi fanno dire che vivere in una città capitalista mi ha reso una persona peggiore.
Mi ha sempre affascinato la teoria di Kant secondo la quale ogni azione morale è dettata dal senso del dovere. All’epoca in cui la studiavo a scuola non mi sono posta troppi problemi se stessi capendo o se stessi interpretando, ma l’idea che mi è rimasta è che l’uomo non agisce per fare puramente del bene, ma perché, nella migliore delle ipotesi, se non facesse quello che sa essere giusto, avrebbe dei sensi di colpa. Suppongo che sia un principio secondo il quale io mi sia più o meno sempre comportata. In una visione leggermente più positiva della vita, che ho adottato più in là nel tempo, ho iniziato a comportarmi bene semplicemente per sentirmi bene. La differenza è sottile, ma sostanziale. Fino a che ho impartito, involontariamente, un cambio di regime al mio atteggiamento, in direzione più evoluzionistica.
Quando le teorie di Darwin sono state applicate al comportamento dell’uomo intorno agli anni ’70, soprattutto dalla psicologia sociale, si è preso in analisi l’altruismo. Si è cercato di capire come sacrificarsi per l’altro potesse coesistere con il concetto di sopravvivenza del più forte. La risposta è stata che, ancora una volta, le buone azioni non sono disinteressate, ma volte alla continuazione della specie, in questo caso intesa come nucleo familiare. Non per nulla infatti esse sono più facilmente dirette all’interno della nostra cerchia più intima: figli, fratelli, parenti, amanti, amici o coloro che ci somigliano.
Privatamente mi ero accorta che il benessere delle persone con cui non avessi un legame affettivo mi interessava inquietantemente poco. In particolare l’ho capito quando ho visto una signora perdere un qualcosa dalla tasca e non ho detto niente. Eravamo nel tunnel della metropolitana, basso, stretto, affollato. Camminavamo venendoci incontro, velocemente. Quando lei tira fuori il cellulare dal cappotto un pezzetto di carta scivola a terra. Lo vedo. Penso che se mi fossi piegata qualcuno mi sarebbe inciampato addosso, che poi avrei dovuto rincorrerla controcorrente, che quel pezzo di carta poteva essere anche un fazzoletto usato. Lascio perdere. Praticamente la stessa scena mi si era proposta un mese prima in un’altra città. In quell’occasione mi ero piegata, avevo raccolto il foglietto, chiamato la proprietaria ad alta voce e restituendogli il biglietto avevo scoperto che era il suo abbonamento ai mezzi settimanale e mi ero sentita contenta di essere intervenuta. Perché questa differenza di reazioni? Mi chiedevo se fossi così infelice a Londra che mi stessi trasformando in una persona che non mi piaceva, se avessi messo in moto un contorto meccanismo di auto-punizione.
Fino a poco tempo prima avevo una coscienza ambientale, ora ero approssimativa nella raccolta differenziata. Avevo una coscienza da consumatrice, sostenitrice entusiasta del boicotto, ora compravo online dalle multinazionali perché era meno ‘sbatti’.
Che cosa stava succedendo, me lo ha spiegato Mark Fisher, colui che ha coniato il termine di realismo capitalista. Questo altro non é che la concezione secondo la quale relazioni sociali e forme di soggettività capitalistiche siano cause inevitabili di un capitalismo anch’esso inevitabile. Questa percezione è resa possibile dalla soppressione della coscienza, e il neoliberismo ha neutralizzato le coscienze.
Specialmente durante gli anni ’60 e ’70 la società occidentale ha assistito alla nascita di diversi tipi di coscienza collettiva. Quella di classe incoraggiata dai sindacati, è stata annientata dalla promozione dell’individualismo. Il risultato è una de-socializzazione foraggiata da smartphone e televisione. Quella psichedelica, influenzata (in un primo momento) dall’uso di sostanze, secondo la quale la realtà è mutevole, nulla è fisso, pensiero ed esperienza sono connessi in tutta la loro plasticità, è stata rimpiazzata dal fatalismo. La presa di coscienza, messa in pratica dal femminismo rendendo pubblico il privato, cioè parlando apertamente di sentimenti in relazione alle strutture di patriarcato e capitale, sembra essere stata talmente svilita e demonizzata che ora ad essere chiamate femministe quasi ci si offende.
Il miglior modo per sopprimere la coscienza, sostiene Fisher, è l’ansia.
Qui devo dire una cosa che forse avrei dovuto menzionare prima. Oltre al disinteresse generico nel confronto di ciò che esulasse dalla mia sfera personale, avevo iniziato a notare negligenza anche nella cura di me stessa. Mangiavo poco, male, quel che capitava, bastava che fosse rapido da preparare, rapido da consumare. Dormivo male, poco, quel che bastava, appena il giusto per funzionare. Mi svegliavo ansiosa, infastidita, insoddisfatta.
In ‘L’arte di amare’ Erich Fromm dice che il capitalismo moderno ha bisogno di uomini (e donne) che si sentano liberi ed indipendenti, non soggetti ad un’autorità o principio o coscienza, ma allo stesso tempo disposti a farsi comandare, a fare quello che ci si aspetta da loro, a integrarsi nella macchina sociale senza frizioni. Uomini (e donne) che possano essere guidati senza l’uso di forza, senza guide, spinti senza obiettivi, se non quella di produrre più beni, di essere in movimento, di funzionare, di andare avanti. Mi sembrava la descrizione perfetta della frenesia e della mia vita. Nonostante dalle sette di mattina alle sei di sera facessi cose senza sosta, mi sentivo inconcludente. Davvero il sistema può opprimermi così tanto che quando apro gli occhi la prima cosa che penso è cosa devo fare e la prima cosa che sento è di non riuscire a respirare?
Il capitalismo ha trovato il modo di generare ansia, spiega Fisher.
La contro-cultura aveva posto al centro del proprio discorso l’odio per il lavoro: ‘non ho intenzione di lavorare e non ho intenzione di inquietarmi.’ Uno degli obiettivi primari del capitale è portare la gente a lavorare. Dunque ha saldato l’ ansia all’idea del tempo. È una sensazione particolarmente diffusa quella di non avere mai tempo, ai giorni nostri. ‘Siamo costantemente pressati, agitati. Il solo momento in cui non siamo in ansia di fare qualcosa è quando sappiamo che dobbiamo fare dell’altro.’ Dice l’autore. ‘Lo “spasmo” digitale promosso dagli smartphone e la FOMO (Fear Of Missing Out) sono il versante post-edonista di questa forma d’ansia. L’altro versante è quello di aver dimenticato qualche obbligo. Ansietà costante dominata da urgenza. Ci sono quelle cose che si devono fare, tali per cui non riuscite a pensare a nient’altro, e dal momento in cui avete fatto tali cose ne incombono altre e vi dimenticate quali erano quelle precedenti. E la vostra vita intera diventa una concatenazione di urgenze. È il fine strategico che impone questa forma di tempo: quella di una perpetua attività sprovvista di funzioni.’¹
Non ho dovuto massaggiarmi le tempie a lungo per assorbire le informazioni, nessuno mi aveva appena rivelato l’esistenza di Matrix, mi ero riconosciuta in ogni parola. Mi sono sentita confusa. Ero contenta, arrabbiata e sconcertata tutti insieme.
Contenta di non essere un caso umano, non era esclusivamente colpa mia se vivevo in un’angoscia perpetua e solo apparentemente immotivata.
Arrabbiata di esser stata sopraffatta da un sistema economico al quale io non avevo aderito spontaneamente, ma che avevo lasciato insinuarsi nella mia quotidianità senza opporre troppo resistenza.
E sconcertata da quanto possa essere socialmente influenzabile, da quanto la mia coscienza possa essere facilmente narcotizzabile. Avevo abboccato agli specchietti per le allodole, ai maxi-schermi luminosi di Piccadilly Circus, l’ottavo cerchio dell’inferno.
Non mi ci è voluto Mark Fisher per capire che era ora di fare i bagagli e tornare a Berlino.
Mi è bastata mia madre. Dopo aver ascoltato le mie farneticazioni sul fatto che dovessi rimanere dov’ero, che a Londra c’era lavoro, c’erano i soldi, e che l’industria funzionava e poi sul curriculum faceva sempre un grande effetto; quando mi sono zittita lei mi ha detto, ‘sì, ma uno deve anche stare dove è felice.’
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In copertina: Occupy London – Wikicommons
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