‘Hai mai pensato a cosa sognano i ciechi?’ mi hai chiesto quella volta. Non lo sapevo allora. Tu hai tamburellato con indice e medio sulle labbra e ti sei guardato intorno, come se la risposta potesse essere sospesa a mezz’aria da qualche parte vicino a noi. Poi hai alzato le spalle.
‘Diciamo che quando sogni tu è come un film di Scorsese, mentre quando sogna un cieco è come un dipinto di Monet’ è quello che mi ha detto la mia oculista.
‘Hai iniziato a portare gli occhiali?’ mi chiese.
Arricciai il naso e scossi la testa.
‘Beh, allora anche tu devi avere una visione piuttosto impressionistica del mondo’ mi disse e si mise a ridere.
Il neurologo australiano Noel Dean, una decina d’anni fa o poco più, sosteneva che Monet, Renoir e Degas fossero tutti miopi. A questo sono dovute le pennellate grezze, l’assenza di dettagli. Se anche loro avessero portato gli occhiali l’impressionismo non sarebbe mai esistito.
Anche una certa propensione per il rosso, pare essere il risultato di una disfunzione visiva.
Il rosso è il mio colore preferito, il tuo è l’arancione se ricordo bene, siamo entrambi miopi. Gli ultimi dipinti di Monet avevano tonalità autunnali.
La miopia è una malattia genetica che tende a peggiorare con il procedere degli anni. A me fu diagnosticata quando avevo dieci anni e con il passare del tempo le mie diottrie sono rimaste pressoché invariate. Sono aumentate di – 0,25 per occhio, ora mi manca qualcosa come un grado all’occhio sinistro e -0,75 a quello destro. Mi ricordo quanto fossero delusi i miei compagni di classe quando indossavano i miei occhiali e non provavano quel senso di vertigine che provocano lenti con gradazione maggiore.
Ho scelto di indossare gli occhiali per il nostro incontro, non volevo perdermi nessun particolare.
Buffo come la tua montatura, di tartaruga e rettangolare, sembrasse imparentata con la mia.
Mi piace la mia oculista, altrimenti mi risparmierei la visita annuale. È raro che mi piacciano i medici. Una volta le ho detto che non riuscivo a incrociare gli occhi, si è messa a ridere.
‘Davvero! Nemmeno se guardo la punta del naso.’ Prese una penna e la posizionò di fronte al mio naso, verticalmente.
‘Guarda qui’ mi disse e lentamente mosse la penna verso il mio viso. Di nuovo.
‘Ah! Hai ragione!’ disse sorridendo.
Lo sapevo di avere ragione, mi avevano preso in giro molte volte per questa storia.
‘I nervi attaccati ai bulbi oculari sono troppo rigidi, quindi non permettono il movimento.’ L’ho fissata aspettando che mi dicesse qualcosa di meno fattuale.
‘Non è nulla di grave, ma se vuoi puoi andare al centro di ortottica per provare a risolvere. Ti daranno degli esercizi da fare.’
Mi sono immaginata muovere le palle degli occhi a destra e a sinistra.
‘Fa’ niente’ dissi.
Esiste una disciplina relativamente nuova, lo eye-yoga. Ne scriveva la mia redattrice quando lavoravo per un magazine tedesco, Zitty. Me la ricordo battere sulla tastiera, ingobbita. Con il passare del tempo l’immagine mentale di lei è diventata spaventosamente simile all’illustrazione di Quentin Blake sulla copertina di ‘Le Streghe’. Di quando in quando alzava la testa, avvicinava la faccia allo schermo e faceva quell’espressione di quando devi leggere il nome della via, ma sei troppo lontano; riassestava gli occhiali in cima al naso e si rituffava sui tasti come un pianista zelante. La scena si ripeteva con leggere variazioni, ogni tanto leggeva qualche stralcio: ‘Fissare lo sguardo su una superficie limitata per un periodo di tempo prolungato può causare miopia.’
Poi rideva fragorosamente, come fanno i tedeschi quando vogliono scacciare il senso di colpa. Una serie di risate a catena partiva qualche secondo dopo, proveniva dagli altri redattori, che non avevano mai distolto gli occhi dal loro computer.
A quanto pare fare esercizi preverrebbe problemi alla vista causati da lavoro d’ufficio.
Cose semplici come poggiare le mani sugli occhi, chiuderli e fare venti respiri, poi togliere le mani, aspettare cinque secondi e riaprire gli occhi. Non so se sia la parola ‘yoga’ o ‘esercizio’ a scatenare un certo scetticismo in me.
Quando mi hanno prescritto gli occhiali mi hanno detto che li dovevo indossare a scuola e davanti agli schermi. Da allora mi sono attenuta alle indicazioni.
Qualcuno mi ha detto che devi svolgere un’attività per trenta giorni di fila per farla diventare un’abitudine, non ho mai indossato gli occhiali per un mese di fila. Mi pesano sul naso dopo un po’ di tempo e mi sento la testa costretta dalle asticelle. E poi, in realtà, ha un certo fascino lasciare che il mondo si metta a fuoco passo dopo passo. Costringe ad avvicinarsi a ciò che attira l’attenzione. Prendersi del tempo per guardare da vicino qualcosa che sembrava interessante da lontano ti rende meno preso da te stesso, meno superficiale. Sono sicura che se indossassi gli occhiali, vedendo meglio, la pigrizia prenderebbe il sopravvento sulla curiosità e ammirerei la bellezza da lontano. E sarebbe un peccato.
Dopo che il medico mi applicò la benda sull’occhio – mi ero graffiata la cornea e dovevo tenerlo coperto per un paio di giorni- mi avvisò che non potevo guidare. Mi chiese anche se qualcuno potesse venire a prendermi. Un genitore, magari? Ti chiamai.
Sei arrivato con una Golf verde. Le macchine tedesche sono le migliori, eri solito dire. La tappezzeria era simile ad una che avevo rovinato quando ero bambina. Grigia, con un motivo di piccoli quadrati blu. Sabato avevo la lezione di pianoforte, la strada fino al conservatorio era piena di curve ed io non avevo ancora imparato a gestire bene il mal d’auto. Avevo bevuto troppo latte a colazione. Quando scesi dalla macchina mi sentii più nauseata di quando non stessi seduta dietro. Rimasi in piedi ferma, la portiera era aperta, i miei piedi sul pavé. Mi sono voltata e ho vomitato dentro l’auto.
‘Perché nella macchina? Eri già fuori!’ urlasti.
La macchia non se n’é mai andata, la puzza neanche.
Quando siamo arrivati a destinazione ti ho invitato per pranzo, non avevi ancora visto casa mia. Ho optato per una frittata, era veloce e facile da cucinare. Tu gironzolavi per l’appartamento, non so se ti sentissi a disagio o imbarazzato per la superficie ristretta in cui mi potevo permettere di vivere. Un lato della frittata era cotto, quindi decisi di girarla facendola saltare. Con un movimento secco del polso feci staccare la pietanza dalla padella, sospesa in aria girò. Aspettai che riatterrasse nella padella, ma non lo fece. Si spiaccicò a terra a venti centimetri di distanza da dove l’aspettavo. È stato in quel momento che ho realizzato che due occhi servono a dare il senso della profondità. Tu eri appoggiato allo stipite della porta e mi guardavi guardare pezzetti di giallo sparsi su piastrelle bianche.
‘Continuo a credere nelle regole dei cinque secondi’ dissi.
Dire a qualcuno che ha la vista corta, significa, in senso figurato, che ha un modo di pensare poco lungimirante, che fatica ad includere un contesto più ampio nel ragionamento. Non riesce ad andare oltre a quello che è sotto il suo naso. Come quando davanti ad un broccato di seta francese del quattordicesimo secolo, verde, con disegni floreali dorati, l’unica cosa che uno riesce a vedere è il filo tirato che spunta dal picciolo di una delle foglie ricamate. Suona un po’ come il preambolo per l’ossessività. Mi viene in mente la puntata di Friends dove gli amici chiedono a Chandler perché abbia scaricato l’ultima ragazza con cui usciva: ‘narici troppo larghe’ risponde.
Come vediamo il mondo è come pensiamo, quindi se si fosse costretti ad osservare le cose nella loro totalità, senza impuntarsi su dettagli – semplicemente perché non si è in grado di mettere a fuoco – ciò implicherebbe una maggiore leggerezza nel pensiero? Una visione sfocata è l’antidoto alla fissazione?
Mi sembra che la tendenza all’analisi maniacale delle situazioni vada di pari passo con un’altra degenerazione del pensiero moderno: il desiderio di certezza, definizione, perfezione.
Tecnologia e progresso scientifico ci hanno reso incapaci di abitare zone grigie. Basti pensare a quante cose cerchiamo su Google giornalmente. Per fugare un dubbio oggi ci vogliono 0,37 secondi. Lo scrittore John Keats formulò la teoria della capacità negativa, secondo la quale l’uomo dovrebbe imparare a vivere, a volte, nelle incertezze, nei misteri e nei dubbi senza cercare di dargli un senso, senza affannarsi ad unire i puntini.
Se riuscissimo a fare pace con il fatto che non ci sono soluzioni univoche, che non tutto ha una risposta, l’insicurezza potrebbe trasformarsi in sollievo.
La vaghezza può essere intrigante, l’ambiguità un’opportunità.
Gli episodi più divertenti che mi siano capitati sono scaturiti da malintesi, quando ho immaginato interi mondi emergere da uno sfondo sfocato. Tutto ciò che bisogna fare è prendere spunto da quello che si percepisce, inventare il resto. Se si hanno i contorni poi si possono riempire gli spazi a proprio piacimento.
Ti ricordi quella volta che stavamo passeggiando lungo il canale a Londra? C’era il Victoria Park sul lato sinistro, il sole in vista. Ti presi per il braccio e mi accostai a te per ripararmi dal vento freddo. Non parlavamo in quel momento, non sembrava necessario.
‘Wow!’ mi fermai ‘Sono davvero pappagallini?’ ti ho chiesto indicando un albero sopra di noi.
‘Sì, non li vedi?’ hai chiesto guardando la mia faccia tutta accartocciata.
‘Più o meno’ risposi.
‘Ho letto da qualche parte che Londra ha acquisito un sacco di specie non indigene. Sai come succede no, qualcuno ha una tartaruga brasiliana, a un certo punto la lascia libera nel parco e poi cominciano a riprodursi.’
‘Guarda!’ dissi puntando il dito verso un balcone sull’altra sponda del canale. Vi erano appesi piccoli sacchetti di semi, da cui beccavano gli uccellini verde tropicale. Li guardammo in silenzio per un po’.
‘Quindi dovresti portare gli occhiali?’ mi chiedesti spingendo i tuoi in su con l’indice.
‘Sì.’
‘E perché non lo fai?’
Alzai le spalle. ‘Ci vedo anche senza.’
Tu non rispondesti.
Ripensai a quella volta che a Berlino ho scambiato lo Spree ghiacciato per un’autostrada.
Ti sei fermato, quindi anche io.
Guardavamo delle canne di bambù dall’altro lato. Il vento faceva oscillare piano le foglie.
‘Sono piene di pappagallini?’ mi hai chiesto.
‘Non ci vedi?’ ribattei.
Tu mi hai sorriso e guardato con quella faccia che di solito vuol dire che impudente!
‘Che belli!’ dissi.
‘Non sono troppo fermi?’
Frugai nella borsa, estrassi gli occhiali, li indossai.
‘Oh’ dissi. Erano solo foglie, che illuminate dai raggi del sole diventavano di un verde brillante. Tropicale.
Tu alzasti le spalle, ti togliesti gli occhiali e ti pizzicasti la base del naso. Quante nuove rughe hai collezionato durante questi anni.
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