Adriana Napolitano ed io abbiamo alcune cose in comune, tipo una dipendenza da caffè americano.
I refill che ci siamo fatte mentre la intervistavo nel suo appartamento a Wedding, non li ho contati.
Devo ammettere però che “magari un altro goccio” la usavo anche come scusa per ficcanasare mentre lei andava di là in cucina. Una mia amica un giorno mi disse: “Sembri tanto timida, poi appena entri a casa della gente ti metti a curiosare senza ritegno.” Da quel momento ho cercato di essere più educata, o almeno più discreta. La sala è intonsa: spaziosa, ordinata, pulita, quasi vuota. Speravo di trovare ritagli di carta, composizioni in corso d’opera, modellini, schizzi, progetti, taglierini giganti, rotelle, pistola per la colla e sparachiodi. Invece niente. Quando Adriana torna mi trova nei pressi della libreria, braccia dietro la schiena stile anziano che osserva i cantieri. Come se non fosse affatto palese quello che stavo facendo in sua assenza, le chiedo se posso dare un’occhiata in giro. Mi confessa che ieri ha messo a posto tutto, appena dopo aver consegnato un lavoro. Notando forse una mia vaga delusione, decide di mostrarmi la sua collezione di mobili per le case delle bambole. Le domando poi cosa siano quei rotoloni di carta colorata in cima alla parete e mi dice che sono gli sfondi per i set fotografici.
Adriana, quando le chiedo di dirmi esattamente cosa fa, mi risponde che principalmente costruisce scenografie e oggetti di scena, scatta foto, e piange.
Nello specifico crea piccoli capolavori di carta che spesso fungono da set per animazioni in stop motion. Alla domanda su come mai abbia scelto questo materiale, soprattutto qui in Germania dove sono così attenti all’ecosostenibilità, mi spiega che è stata un po’ una contingenza di eventi. Appena arrivata a Berlino non aveva il suo gruppo di lavoro e una rete di conoscenze che si occupasse di cose simili a quelle che fa lei, quello che aveva in abbondanza invece era carta e cartoncini. Inoltre, nella sua famiglia, da sempre si erano costruiti presepi di cartapesta.
Per quanto riguarda il lato della sostenibilità, cerca sempre di riutilizzare quello che è possibile sfruttare in qualche altro modo, se invece non è possibile, smonta set e props, e li mette a macerare per fare nuova papier-maché.
“Ogni tanto sono costretta a buttare qualcosa altrimenti sarei sommersa da oggetti di carta, ma non sempre ce la faccio.” Mi indica un corsetto nero su uno scaffale sopra al divano. Stupita le domando se anche quello è di carta. È un bustier fatto a scaglie che ricorda la pelle di un rettile, le chiedo se ha dovuto attaccare le squame ad una ad una e la riposta mi pare proprio che sia stata sì. Mi dice che in origine era un vestito, con un gonna stile vittoriano, ma quella era davvero troppo grande per essere conservata.
Adriana crea anche dinosauri, hamburger, attrezzi da falegnameria, mobili, utensili da cucina, città, robot e palme. Tutto rigorosamente con i derivati della cellulosa. Le domando dove abbia imparato.
Mi spiega che è sostanzialmente un’autodidatta: ad ogni nuovo incarico, legge tutto ciò che reperisce sul tema, guarda tutti i tutorial che trova e poi comincia a fare prove. Va per tentativi finché non ottiene quello che vuole. Aggiunge che, anche se non le chiedono mai di fare le stesse cose, delle tecniche che ha appreso per un progetto, le può utilizzare per qualcosa che gli somiglia.
Le chiedo allora quanto le ci vuole in media per ogni commissione. “Naturalmente dipende da cosa mi chiedono,” risponde “ma impiego sempre tutto il tempo che ho a disposizione. Consegno cinque minuti prima della scadenza perché fino all’ultimo sto lì ad aggiustare, rifinire, ritoccare. Infatti il problema di questo lavoro, anche se è la mia passione, è che non riesco mai a staccare. Oppure è così totalizzante perché lavoro da casa.”
La conversazione verte su temi ricorrenti tra i professionisti di oggi —e forse specialmente tra le donne in carriera— di perfezionismo, ossessività e vita da freelance. “Cioè, se io la sera ho finito di lavorare e mi metto a guardare la TV, un occhio si magnetizza comunque sempre verso il tavolo da lavoro e inizio a pensare a cosa devo fare, a come devo risolvere dei problemi, a quanto mi manca ancora da fare e via dicendo. Non stacco mai davvero. Direi che mi ossessiono finché non consegno. Poi piango.” Io rido e le chiedo di spiegarmi meglio.
“Piango un sacco. Perché lavoro fino all’esaurimento: non esco di casa, non ho una vita sociale, non pulisco, sono totalmente assorbita dal lavoro e così sovraccarica che se, che ne so, un pezzo non si incolla con l’altro, posso anche scoppiare in un pianto disperato. Piango dopo la consegna, come a rilasciare tutto lo stress.” Poi scherzando aggiunge che ogni tanto apre i rubinetti pure perché non si vuole separare dalle sue creazioni.
Arriviamo a parlare di fotografia, in questo ambito ha una formazione più tradizionale, che risale agli anni di un corso in video editing e del lavoro da assistente fotografa. Artisti che ammira molto sono Michel Gondry, Wes Anderson soprattutto per le palette colori, Gregory Crewdson per la perfezione dei suoi set, e Christian Tagliavini per i costumi e le sue abilità da artigiano. Lei, mi dice, quando scatta non cerca realismo, anzi, la fase di post-produzione delle sue fotografie è lunga, “Ma è evidente che è così, non è la verosimiglianza quello che mi interessa.” La cosa che ad Adriana piace fare di più sono gli autoritratti, con i quali ha un approccio particolarmente artefatto: “Per farne uno ci impiego almeno dieci giorni, tra lo sviluppo dell’idea, il creare i vestiti e gli accessori, lo scatto e quello che viene dopo, raramente è una questione che sbrigo in un pomeriggio.” Mi racconta che sono nati come una necessità espressiva.
“Quando mi sono trasferita qui mi sentivo sola e non conoscendo la lingua tedesca, le mie capacità comunicative erano pari a zero. Però io sono una che parla tanto e sono anche piuttosto ansiosa, ho bisogno di esprimermi. Così ho trovato il modo: dico quello che ho da dire con una foto, e questo mi placa.” Mi spiega che è importante che il soggetto delle sue foto sia lei stessa, non tanto per una questione di narcisismo o di non voler collaborare con qualcuno, quanto per il fatto che le sue foto sono l’espressione, mediata per immagini, delle sue emozioni, se queste venissero inscenate da una modella, dovrebbero passare attraverso un altro strato di mediazione.
“Se io le chiedessi di fare la faccia del disagio, sarebbe la sua interpretazione del mio disagio. Non ha senso, verrebbe meno anche l’effetto terapeutico che questo progetto ha per me.” Le domando di cosa parlino i suoi ritratti e mi dice che sono le questioni banali di tutti i giorni, stati d’animo, routine. Vita nella sua accezione non artisticamente idealizzata del termine, il quotidiano.
“In tutte le mie foto c’è una componente di sarcasmo o di ironia, li uso come protezione. Attraverso loro riesco a condividere più facilmente. Perché, comunque, il fine ultimo dei miei autoritratti è questo, la condivisione.”
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Immagine di copertina: Autoritratto © Adriana Napolitano
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