La prima cosa che mi ha colpito è stata la linea di basso. Mi ha letteralmente investito e tirandomi sotto mi ha costretto a voltarmi e a puntare gli occhi sul piccolo televisore che mio padre aveva assicurato al muro davanti al mio letto attraverso un braccio metallico, nella camera che dividevo con mio fratello. Era un pomeriggio di cui non ricordo nient’altro se non quelle immagini e quella musica a metà luglio del 1998. MTV Brand:new, Massive Attack, Angel.
Ai tempi sapevo di musica molto meno di quanto ne sappia ora, non sapevo cos’era il trip hop e, soprattutto, non conoscevo nulla di quella band di Bristol già sulla scena da diversi anni. Però sapevo riconoscere qualcosa di sorprendente. Quella linea di basso capace di essere più profonda di qualsiasi altro suono che io avessi mai udito e poi tutto il resto: la voce di Horace Sleepy Andy, il tipico timbro reggae prestato a qualcosa di molto più lento, molto più oscuro, che rubava letteralmente la dub e pretendeva di manipolarla, stritolarla, non solo riuscendoci, ma facendolo in un modo geniale. La progressione lentissima e inesorabile nell’alternanza di strumenti (batteria, chitarra) e le macchine dell’elettronica.
Ci misi meno di tre giorni ad infilarmi in un negozio di dischi e comprarmi Mezzanine.
Nonostante sia sicuramente il brano più rappresentativo dell’intero album, Angel fu solo il terzo dei quattro singoli che i Massive Attack mandarono in pasto a pubblico e critica.
Il secondo, Teardrop, risaliva ad aprile del 1998, mentre il 7 luglio del 2007, quasi un anno prima di Angel, usciva Risingson, singolo di lancio dell’album che fu rilasciato da Circa Records e Virgin Records il 20 aprile 1998.
Da allora sono passati vent’anni esatti e Mezzanine resta uno degli album più importanti della storia, ma non tanto perché è stato la calamita che ha portato quelle sonorità ad un pubblico decisamente più vasto, o perché è un album geniale, in cui ogni singolo suono ha un peso incredibile sul valore di un’intera generazione, e nemmeno perché è stato un motore d’ispirazione eccezionale negli anni a venire.
Mezzanine è ancora oggi un disco fondamentale perché è stato a tutti gli effetti un atto rivoluzionario.
C’è da dire che i Massive Attack ci sono arrivati in scioltezza a dare alla luce il loro masterpiece.
Attiva già dai primi anni novanta, la formazione composta da Robert Del Naja, Daddy G e Andrew Volwes si è imposta venendo etichettata sotto il nome di Bristol sound poi trasformatosi in trip hop – generalizzazione che non è mai stata accettata fino in fondo dai tre inglesi – insieme ad altre figure dell’epoca come Tricky, Portished e Faithless, UNKLE.
L’album Protection, del ’94, con la sua canzone più ricordata Karmacoma, poneva i Massive Attack ad un’attenzione importante, che andava intensificandosi nei quattro anni di attesa, spezzati solo dall’album di remix No Protection, in collaborazione con Mad Professor.
Ma si fa presto a parlare, sentenziando che tutto è facile quando hai i riflettori puntati addosso perché sei un campione. Più la luce è accecante e più è semplice inciampare.
Invece esce Mezzanine e i Massive Attack segnano la storia.
Così come hanno fatto negli anni precedenti, non si riesce ed etichettare il loro lavoro, perché dentro c’è l’elettronica, la dub e il reggae, l’hip hop, il rock, l’r’n’b e la dark-wave. Solo che è tutto molto più scuro di prima e carico di quell’ansia e quella tensione che saranno lo scudo e la spada di molti dei giovani artisti inglesi – e non solo – in quegli anni. I Massive Attack s’imporrano sempre di più come l’antitesi dei Portishead, compagni di squadra e di città. I primi sono la notte, il suono metallico, sporco e ombroso. Sanguigno. I secondi sono il giorno – non che siano degli allegroni, sia chiaro – con il timbro soffice di Beth Gibbons, le ritmiche più jazz, una ricerca della perfezione sonora quasi paranoica.
Dentro Mezzanine c’è il malessere di una generazione, lo stesso che, in un modo molto simile, riprende Burial più di dieci anni dopo, quando suona il disagio urbano della suburbia Londinese.
Ascoltare questo disco oggi mi ha riportato alla mente David Cronenberg, quello di Scanners e Videodrome, e anche quello di Crash ed eXistenZ; la carne e la macchina che si fondono, si autoalimentano e autodistruggono. L’ossessione e l’incubo. La ricerca frenetica che porta ad una perfezione guasta, ma affascinante e anzi di più. C’è qualcosa che va oltre l’essere affascinante? Non bello, perché il bello può essere affascinante tanto quanto il brutto.
Mezzanine brilla di uno splendore tutto suo, perché ha la capacità di essere l’amalgama di un movimento artistico occulto, ma che opera sotto gli occhi di tutti.
È un po’ come prendere Batman, lasciargli la stessa tuta nera, lo stesso modificatore di voce, la stessa batcaverna, ma levargli la maschera.
Mezzanine fa questa cosa, va un passo oltre molte cose fino a quel momento non ancora azzardate.
Va oltre la stessa Karmacoma, va oltre God is a Dj di Faithless, dello stesso anno, oltre tutto quello che avevano dato i Portishead fino a quel momento. Va oltre Banksy, oltre Tricky, oltre gli UNKLE di Rabbit in your Headlights e quel videoclip incredibile.
Mezzanine prende un concetto che loro stessi si spillano addosso e lo rielabora in qualcosa di più complesso, attraverso mezzi facilmente accessibili. E la gente se ne accorge.
La carne e la macchina quindi. Del Naja e Daddy G sono in fondo quello che poi hanno messo nelle loro produzioni: il bianco e il nero, l’elettronica, la dance e la dub, la black music.
Insieme trovano il modo di combattere la loro personale Babilonia.
E Mezzanine è la tecnologia e l’animale fusi insieme, come nella copertina dell’album, che ritrae un essere a metà tra un insetto ed una macchina.
Si può svelare l’interpretazione a ciò che abbiamo detto fin’ora, semplicemente tornando a parlare di Angel, ma questa volta soffermandosi sul videoclip: Daddy G si accorge di essere seguito in modo minaccioso, all’interno di un parcheggio sotterraneo, da Del Naja accompagnato da altri due individui, Horace Andy e Andrew Volwes. Con il crescere della tensione nelle linee della canzone, anche le persone che inseguono Daddy G aumentano, diventando decine e poi centinaia.
Sul finale del video l’inseguito si ferma, così come anche tutti coloro che lo stanno rincorrendo. Daddy G e Del Naja si guardano, accennano un leggero sorriso e poi le parti s’invertono ed è Daddy G ad inseguire la massa di centina di persone. Che scappano.
Il bianco che rincorre il nero, il nero che rincorre il bianco, la moltitudine che da minaccia diviene minacciata. La vittima e il carnefice che invertono i loro ruoli.
Mezzanine è stato capace di amalgamare generi in modo pressoché miracoloso, ma ciò che ha fatto ancora meglio è stato aprire una porta e una consapevolezza che, con il finire degli anni ottanta si era andata perdendo: il potere di sperimentare. Ha messo questa cosa davanti agli occhi di tutti, ha acceso il megafono e ha urlato ‘lo possiamo fare davvero. Possiamo sperimentare’.
Molto di quello che abbiamo oggi, lo dobbiamo a quell’album.
Dopo Angel, e dopo aver acquistato il disco di Mezzanine, cercai di scovare anche i videoclip degli altri singoli usciti – cosa non facile in quegli anni, dato che il web e la tecnologia non erano ancora arrivati ad inglobare totalmente le nostre vite – e quando ci riuscii, davanti al videoclip di Teardrop, ebbi un altro immenso orgasmo: al di là della bellezza estrema della canzone, capace di differenziarsi dalla linea del resto dell’album per essere la traccia più speranzosa restando, comunque, incredibilmente scura e disturbante. Al di là di questo erano le immagini a sconvolgermi: la canzone era cantata da un feto all’interno di un utero materno.
Mi ripeto, Mezzanine è stata una rivoluzione culturale non indifferente.
È buffo che loro, i Massive Attack, non abbiamo mai amato essere definiti trip hop, e ancora di più tra i padri fondatori del genere. È buffo come da dopo Mezzanine, a iniziare con l’abbandono di Andrew Volwes e da come è stata poi concepita la seconda vita della band di Bristol, niente è stato tanto forte e tanto incisivo quanto quel gesto. Esatto, un gesto elaborato, ragionato quanto basta e poi ‘messo su disco’.
La recensione dell’album pubblicata da Ondarock nel 2008, quindi dieci anni fa, afferma come quell’album ‘rimanga a simbolo di un periodo particolare, dove le differenze etniche e culturali nelle metropoli erano viste come fonte di una tensione non per forza negativa, ma anzi foriera di impensabili sviluppi creativi.’
Mi chiedo se, a dieci anni di distanza da quella recensione e a venti dall’uscita di uno degli album più incisivi culturalmente della storia, possiamo ritenere ancora valida quella definizione.
Se guardo in avanti, rispetto a quello che abbiamo adesso, il futuro mi fa paura: piuttosto che la carne che si fonde alla macchina, vedo più la tecnologia e l’etere che sostituiscono la vita. Però penso anche che, in qualche strano modo, è stato proprio un album come Mezzanine a metterci davanti l’evenienza di un’apocalisse culturale, salvo poi, immediatamente dopo, darci la forza per riciclarci cibandoci dell’oscurità in cui eravamo caduti, alimentando la nostra creatività.
È proprio quella differenza etnica e culturale, evidente tanto nella musica dei Massive Attack, quanto in chi quel suono l’ha inventato, ad essere lo spartiacque tra ciò che si può e ciò che non si può.
E secondo Daddy G e Andy 3D Del Naja la risposta è abbastanza chiara: unisci ciò che si può a ciò che non si può. Unisci la carne alla macchina, il nero al bianco, la musica alla strada. E poi, in fondo, Mezzanine significa proprio questo: qualcosa che sta tra altre due cose, perfettamente al centro di esse, mischiandosi con loro. Talvolta nascondendosi tra loro.
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