Supermarkt
Germania Ovest, 1974
di Roland Klick
Sono intorno a me, ma non parlano con me
Sono come me, ma si sentono meglio
Sono intorno a me, ma non parlano con me
Sono come me, ma si sentono meglio
Sono intorno a me, ma non parlano con me
Sono come me, ma si sentono meglio
Sono intorno a me, ma non parlano con me
Sono come me, ma si sentono meglio.
Frankie HI-NRG MC – Quelli Che Benpensano, 1997
Da che parte stare dopo la visione di questo film, questo ruvido, sporco film di un talentuoso, quanto dimenticato, Roland Klick? Parliamo di un autore che, come tanti artisti che decidono o si mettono nelle condizioni di non riuscire a mantenere una sorta di pax con l’industria, che sia delle major o indipendente, ha smesso presto di lavorare, (l’ultimo film, “Schluckauf”, risale al 1989).
Da che parte stare, quindi? Da nessuna. L’inizio e la fine sono speculari e, sia alla partenza che all’arrivo, forte di una fotografia che risalta lo sporco e l’opaco, non c’è che polvere e nichilismo. Si avverte tanta, tanta solitudine in Supermarkt. E poi disperazione, come quella del protagonista, e l’amaro di cui questo lavoro, che potremmo definire un poliziottesco tedesco, è intriso ovunque. Klick non è riuscito, anche per demeriti e limiti personali, a rimanere aggrappato al piccolo treno dei nomi più luminosi del nuovo cinema tedesco, come Werner Herzog, Rainer Werner Fassbinder, Margarethe von Trotta, Alexander Kluge, Hans-Jürgen Syberberg, Edgar Reitz e Wim Wenders. Questi, influenzati dallo stile del Neorealismo Italiano e della Nouvelle Vague francese, produssero inizialmente film a basso costo che li resero popolari in Europa e li fecero poi approdare a più strutturate e costose produzioni, mantenendo però sempre una profonda caratura intellettuale. Ma a differenza dei francesi, degli italiani, degli spagnoli, i tedeschi a d Hollywood mai si sono snaturati e anzi, hanno contribuito, già dagli anni ’40, a proporre qualcosa di più che non il solito script senza ombre tipico delle produzioni made in Usa.
In Supermarkt, rispetto ai precedenti lavori del riottoso e scorbutico regista, non c’è psichedelia, ma uno sguardo pietoso, seppure senza esagerazioni, nella vita di Willi (Charly Wierczejewski), un adolescente che definire problematico è dir poco, il quale vive nel quartiere malfamato e amato di St.Pauli, ad Amburgo. Will incontra tre personaggi nel corso della storia: Frank (Michael Degen), un giornalista inquieto che cerca di denunciare l’ingiustizia sociale da cui Willi è emerso; Theo (Walter Kohut), un truffatore che cerca in tutti i modi di trascinare il nostro Willy in attività criminali giusto per avere un poì di compagnia; Monika (Eva Mattes), una prostituta con un figlio piccolo.
Diviso, trascinato, sballottato tra mondi complessi e diversi di coloro che lo circondano, la frustrazione, la rabbia, la disillusione di Willi crescono, portandolo sempre più ai margini, dentro una pericolosa esistenza criminale, che culmina nel suo più ambizioso atto di devianza, dovuto alla perdita totale di fiducia nel prossimo, cristallizzato nella tristezza, forse, evitabile, di una finale dentro il quale spariscono i demoni, una volta per tutte.
Sankt Pauli, per chi non lo conoscesse, è un quartiere di Amburgo oggi divenuto luogo cult e nota meta turistica, ma storicamente fucina di disagio, covo di ribelli: un quartiere del basso ceto, fin dalle sue origini. Per benpensanti e perbenisti che abitavano entro le mura di Amburgo, la zona ha rappresentato nel corso dei secoli una sorta di discarica, dove depositare tutto ciò che ai loro occhi appariva sgradevole: artigiani e mestieranti rumorosi e inquinanti, appestati, prostitute.
In un certo senso, Supermarkt esemplifica la lotta di Klick come regista “d’autore” degli anni Settanta. Mentre infatti affronta coraggiosamente molte questioni, molte paure, pregnanti all’epoca nella Germania dell’Ovest, aggiunge al dramma tipico alcune storie di strada reali (seppur romanzate per necessità di spettacolo).
Nel 1999, Andreas Busche scrisse su “Splatting Image”, a proposito di Supermarket: “Il pezzo di cinema più spinto, commovente e senza speranza di Klick, un crudo film da grande città, senza milieu romantico o mito, rigido di sporcizia, eppure sentito.”
Ho realizzato alla seconda visione che, nulla togliendo al valore complessivo del film, alla sua tensione, al nervosismo tipico e in fondo sano di un certo modo di fare tedesco, la forza cinematografica col passare dei minuti svanisce. Mi fa pensare a un tratto tipico dello spettatore medio tedesco, che preferisce di gran lunga il prodotto televisivo alla grande sala, come ricorda sempre Warner Herzog.
In Supermarkt, si ha a volte la sensazione che il regista si lasci un po’ troppo andare, anche sbattendo contro quello che lui stesso ha professato per lungo tempo, e cioè garantire anche un po’ di spettacolo e non esagerare con la “crema culturale”. In Supermarkt il materiale è offerto allo spettatore come se fosse incosciente, con una scrollata di spalle sentimentale e coperta sullo stato delle persone, del mondo qui e ora. Un film così energicamente sbandato lascia un’aurea di tristezza e cinismo che però rimane fine a sé stesso, togliendo ritmo e intensità alle scene di azione, non permettendo di empatizzare con i personaggi e soprattutto con Willy.
Con tanto dispendio di talento e impegno, Supermarkt è troppo generico, troppo poco, rispetto alla brillantezza del cinema italiano e franceso degli stessi anni. Un film assolutamente da recuperare insomma, ma non invecchiato benissimo, che disorienta nel suo oscillare tra il prodotto seriale televisivo e il lungometraggio. Certo, quello di Klick è un film dotato di grande realismo, basti pensare a tutte le sacrosante volte in cui il giovane sbandato Willy prende la decisone sbagliata.
La scena più intensa e bella e struggente è quella in cui Willy vede salire il co-protagonista sulla metro e sparire, rimanendo per 20 lunghissimi secondi immobile a osservare il bruco meccanico che se ne va, con due occhi che soffrono, ma non sanno come piangere. Non succede nulla. Né una lacrima, né un urlo.
Willy fa la cosa peggiore, la più deleteria di tutte quando si soffre: implode dentro e se ne va con quella camminata che farà da fil rouge per tutto il film.
Sotto il titolo “La sfortuna dell’eroe è la felicità del film”, Claudius Seidl nella FAZ del 21 Marzo 2010, ha scritto un riesame di Supermarkt di Klick. “Il suo film del 1973 Supermarkt è una sorta di remake di Fino all’ultimo respiro di Truffaut, tra truffatori di Amburgo, piccoli criminali, prostitute” e mette in evidenza la distanza e la discrepanza di Klick rispetto ai film del tempo: ” Supermarkt fu una dichiarazione di guerra al Giovane Cinema Tedesco di quegli anni”.
Il film stesso non si espone, non critica, non denuncia il suo eroe e non lo eroicizza. Lo lascia libero di sbagliare, cosa per la quale dimostra un discreto talento. Willy sembrerebbe anche uno affidabile, ma dopo pochi minuti ci rendiamo conto che non potremmo nemmeno fissarci un appuntamento per un caffè, dato che potrebbe decidere di svaligiare tutto puntando una pistola al cassiere mentre siamo in procinto di pagare.
La descrizione, così come l’analisi, in Supermarkt, è nell’osservazione dei gesti, dei movimenti di fuga e degli sfondi, sulle immagini di una fase storica specifica, in un luogo che seppellisce la speranza e taglia i ponti a chi non è capace di chiedere aiuto.
Forse è proprio su questo punto che potremmo soffermarci; Roland Klick, rancoroso e introverso, preso nel fare la guerra ai suoi colleghi, invece di concentrarsi esclusivamente sul suo lavoro perde tempo, salute e lucidità, rimanendo osteggiato e dimenticato, se non fosse, come al solito, per le numerose rassegne che in Germania (e non solo) ogni tanto riaccendono la luce su di lui.
Supermarkt, comunque, un grande merito ce l’ha: far passare il messaggio che, in fondo, perfino chi soffre, chi non riesce più a trovare la sua strada, almeno un po’ di benessere e d’amore, se li merita. Più di tanti altri.
Signori benpensanti
Spero non vi dispiaccia
Se in cielo, in mezzo ai Santi
Dio, fra le sue braccia
Soffocherà il singhiozzo
Di quelle labbra smorte
Che all’odio e all’ignoranza
Preferirono la morte
Fabrizio de André, Preghiera in Gennaio, 1967
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