Ci sono un americano, un australiano e un turco. Non è la solita barzelletta un po’ scema, ma il tris alla base di Dirtmusic, progetto musicale di Chris Eckman e Hugo Race. Il primo, a Seattle, negli anni in cui la Città di Smeraldo diventa capitale del grunge, si cimenta coi suoi Walkabouts in un rock cantautorale che rende omaggio anche a De André; poi prende armi e bagagli e si trasferisce a Lubiana, Slovenia. Qui, tra produzioni di gruppi locali e dischi solisti, entra in contatto con Hugo Race. Nativo di Melbourne, questo hidalgo nomade e tenebroso migra in Europa nel 1981 al seguito di Nick Cave (è membro fondatore dei Bad Seeds) e, oscillando tra Berlino, Milano, la Sicilia e i Balcani, sforna pile di dischi di blues geneticamente modificato. Great minds think alike: tra i due scatta la scintilla, i Dirtmusic.
Tanta attitudine meticcia non può che tradursi in una musica contaminata. Per tre dischi fu il Mali a far innamorare Hugo e Chris. Oggi è la tradizione del Bosforo, elaborata con Murat Ertel, leggendario suonatore di saz (una specie di liuto) di Istanbul. Attenzione: nessuna velleità etnografica o museale, qui, anzi. L’alfabeto musicale anatolico viene fuso a elettronica e psichedelia, con esiti che generano un etno-psych-triphop sensuale e affascinantissimo.
Il mood claustrofobico di Bu Bir Ruya rappresenta la Turchia ai tempi del fallito golpe contro Erdogan (proprio in quei giorni, in uno scantinato di Istanbul, i Dirtmusic registravano l’album), ma anche le storie di migrazione, disperazione e speranza, di chi prova a varcare la soglia della Fortezza Europa. Racconti in cui il confine è prima di tutto un muro alla possibilità di un futuro.
Chitarre del deserto, ritmi tribali, spoken word che sembrano preghiere e salmodie che paiono esistere da sempre. Voci femminili (Gaye Su Akyol e Brenna Mac Crimmon) a mischiare mondi, in “Love is a foreign country” e “Safety in numbers”, quasi un update dei Massive Attack di “Inertia creeps”; altrove melodie più familiari, in “Go to the distance”, o voci, nella title track, che ci portano, guidati dallo yaybahar, un misterioso strumento a corde, direttamente su uno di quei barconi di cui leggiamo sul giornale, raccontandone solitudine e angoscia.
Un disco di oggi e per oggi, insomma. Un disco empatico, di cui c’è un gran bisogno.
REDAZIONE
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