Il paese dove sono cresciuto e dal quale me ne sono andato alla fine della prima decade del nuovo millennio, San Zenone al Lambro, contava allora poco più di duemila anime. Oggi sono il doppio.
Da una lato è poggiato sulle rive del fiume Lambro, sulle restanti tre sponde è protetto da campi agricoli punteggiati di cascine. È una città antica questa San Zenone al Lambro, figlia del lodigiano ma fedele a Milano. Raggiungibile tramite la Via Emilia, storica strada romanica che collega Rimini con Piacenza. Poco più in là, nascosta dalla nebbia d’inverno e dalle spighe di grano nei mesi buoni, sibila fino a Napoli l’Autostrada del Sole. Molti dei residenti sono impiegati nelle strutture di ristoro dell’area di servizio: gli Autogrill del lato est e quello nel lato ovest. Per molti anni ha dominato su tutte le strutture il McDonald’s del lato ovest, oggi sostituito dal più appariscente Old Wild West Express.
Per tre stagioni estive alla fine degli anni novanta, prima di iscrivermi all’Università, da inizio giugno a fine luglio ho lavorato proprio in quell’ex-Autogrill, per potermi permettere i primi InterRail in giro per l’Europa. Lì ho imparato il significato del guadagnarsi da vivere di notte, cosa a cui mi sarei dovuto abituare giusto qualche anno dopo, quando mi assunsero in un panificio industriale e il cartellino lo si timbrava la prima volta alle undici di sera e alle sette del mattino la seconda.
Durante i turni di notte all’Autogrill rubavo stecche di sigarette che rivendevo, a prezzo scontato, ai miei amici e alle loro madri. È stato il mio primo vero business illegale, quello meno pericoloso.
Ho lasciato San Zenone al Lambro quando avevo ventuno anni, rincorrendo una ballerina di cui mi innamorai, abbandonando la squadra di calcio e salutando tutti quelli che avevano fatto pronostici banali sul mio futuro. Lì, ad aspettarmi c’era Milano, che danzava meglio di quella ballerina. La mia testa si era persa prima per l’una e dopo per l’altra per poi stancarsi, prima dell’una e dopo dell’altra.
A San Zenone al Lambro ci torno raramente, una volta all’anno, se va bene. Passo a salutare i miei genitori e nessun altro, ma non manco mai di prendermi del tempo e andarmene a zonzo per le viuzze, osservare con altri occhi, ogni anno sempre più distanti, i luoghi che ho abbandonato, ma che sono sempre rimasti lì, con la gramigna a nasconderli e nuove casette non più alte di tre piani a correggerli.
In Italiano, ci riferiamo ad un centro abitato considerandolo paese quand’esso è di piccole dimensioni, distinto da un’economia dipendente dalla zona in cui è sito.
A giugno, attraverso quel motore eccezionale di ‘cazzi altrui’ che è Facebook, apprendo che un ragazzo di San Zenone al Lambro è morto. Non era un mio amico, probabilmente una conoscenza, ma forse nemmeno più quello. In paese era popolare, non perché avesse particolari doti o talento, semplicemente perché tutti conoscono tutti gli altri.
Campeggia sul profilo di un mio ex compaesano una sua foto rifotata con uno smartphone; una trentina di Like, la vacua celebrazione della sua bontà e della sua simpatia. Una manciata di R.I.P.
Saluti a lui e lui che ci deve salutare gli angeli.
C’è un commento, fra tutti, che mi colpisce particolarmente, ma che non riceve risposte: ‘Ma è vero che l’hanno picchiato fino ad ammazzarlo?’
Contatto mio fratello che vive ancora lì, in quell’espettorato di cemento e cascine nell’immensità dignitosa della pianura padana.
Mi dice che il giovane era in coma farmacologico già da qualche settimana, è stato trovato a terra, all’interno del sottopassaggio della stazione, in fin di vita.
L’hanno visto partire a piedi da San Zenone al Lambro diretto alla stazione, che dista non più di un chilometro e mezzo. Si dice fosse ubriaco. Si è fatto un cavalcavia al buio. Forse voleva oltrepassarla e andare in una frazione vicina, Villabissone, oppure ancora più in là, a Sordio.
Qualcuno dice che è stato ammazzato di botte dagli extracomunitari o dai teppisti, altri che abbia perso l’equilibrio e sia caduto dalle lunghe scale che portano nell’oscurità del passaggio sotto le rotaie. Mio padre dice che, secondo lui, si è seduto sulla balaustra ed è volato di sotto, perdendo l’equilibrio. Un incidente. I paesani sono sicuri avesse problemi con alcol e droga e che probabilmente doveva dei soldi a qualcuno che non ha preso bene l’ennesimo suo ‘pagherò’. Il prete gli ha dedicato due parole durante la messa domenicale.
Mio fratello, alla fine della nostra conversazione telematica, mi scrive: ‘Mamma mia, spero non l’abbiano massacrato di botte e lasciato come un cane in un sottopassaggio’.
Però forse non è vero niente, forse lui non era affatto ubriaco, non aveva mai avuto problemi di droga e non doveva soldi a nessuno. Forse davvero è stato un incidente, un malore improvviso e letale. Forse. Perché questo è il potere del paese, quella maledizione che ha una doppia lama e quando affonda rischia di fare a brandelli qualsiasi cosa. La volontà acquisita di dare per scontato senza beneficio del dubbio. Il telefono senza fili. Il chiacchiericcio fine a se stesso. Il giudizio.
Non che questo non accada in qualsiasi altra parte del mondo, metropoli o villaggio che sia, però il paese è quella cosa: da ciò che si dice non ci scappi più.
Ricordo di un tale di San Zenone al Lambro che ha ucciso con una fucilata in faccia il proprio padre perché, per una vita, ha subito i suoi maltrattamenti. Il problema è che non sono sicuro sia vero oppure se sia una costruzione della mia mente.
Simon Rizzi, altra mia antica conoscenza, grande amico e tra gli autori di questo magazine, durante il primo anno di Università mi raccontò più di un aneddoto legato ad un tale piuttosto conosciuto nel suo paese, personaggio controverso abitante della provincia milanese.
Pare che tra gli adolescenti fosse considerato il diavolo in carne e ossa, solo leggermente più basso e senza coda rispetto all’iconografia classica. Amava spaventare la gente, gli riusciva particolarmente bene. Era il suo passatempo.
Simon mi raccontò che un giorno arrivò al parchetto, sembrava felice, forse soltanto divertito. Acquistò un pezzo di fumo non pagandolo e ringraziò, poi corse verso una Wolkswagen Golf parcheggiata poco distante e ci saltò sopra a piedi uniti, sfondando il cofano.
Tale Giovanni, amico di Simon, disse:
‘Quella è la mia macchina’
La risposta dei suoi compari:
‘Eh sì, cosa gli vuoi dire?’
Anni fa, mi è capitato tra le mani un libro di Donald Ray Pollock, ‘Le Strade del Male’, bellissima ode alla malvagità in un’America rurale, oscura. Il titolo orginale è The Devil All the Time . Il romanzo è preceduto, cronologicamente, dall’antologia intitolata ‘Knockemstiff‘, edita in Italia da Elliot. Un disgustoso spaccato della provincia americana, quella del degrado e dei trailer in affitto, della droga, dell’ignoranza, degli incesti. Dei Redneck e dei White Trash.
Knockemstiff, a sud-ovest di Chillichote in Ohio, è il paese natale di Pollock. Da qualche parte ho letto sia una ghost twon, una città fantasma, dunque non riesco a capire come ci possa essere nato Pollock.
Prima di lui l’aveva già fatto Sherwood Anderson – forse fungendo anche da ispirazione – con la raccolta ‘Winesburg, Ohio’, edita in Italia da Newton Compton Editori.
Sempre rimanendo sull’argomento e con il filo conduttore dell’Ohio, Harmony Korine partorisce ‘Gummo’, film indipendente del 1997, oltraggiato all’uscita sul grande schermo e divenuto cult nel corso degli anni, ambientato nella cittadina di Xenia, colpita da un micidiale tornado nel 1974, il Super Outbreak.
Tornando a Knockemstiff, sono quei diciotto racconti ad avermi fatto pensare che avrei potuto scrivere qualcosa a riguardo di coloro, come me, che sono nati e cresciuti in un paese, essere parte di una provincia. Perché c’è chi scappa e chi ha paura di andarsene? Hanno veramente paura di andarsene? La gente alla buona, a conti fatti, è davvero gente alla buona?
Per tutta la lettura del libro non ho potuto fare a meno di accostare parte della mia adolescenza a ciò che Pollock narra. Ho trovato, più di una volta, somiglianze incredibili tra i personaggi dei racconti e le mie conoscenze, talvolta gli stessi miei amici intimi.
Il Paese, ovunque esso sia collocato geograficamente nel pantone del globo terraqueo, ha la sua tradizione. Cambiano le sfumature, nonostante talvolta alcune di queste siano piuttosto evidenti.
Non sto connotando il paese di provincia come il purgatorio di quelli che non hanno avuto la fortuna di nascere e vivere in una metropoli, lo sto piuttosto collocando in uno spazio-tempo preciso, spesso molto più innocuo di altre realtà cittadine.
La provincia è un luogo a se stante e per arrivarci serve uno stargate generazionale, non basta appoggiarsi l’indice sulla fronte e strizzare gli occhi. Il paese di provincia ha le sue regole taciute, i suoi non detti, segreti e leggende, una storia aggrovigliata alle credenze popolari. Corre su un binario anomalo, perché ha la capacità di proteggere e distruggere nel medesimo istante.
Più della metà dei miei amici d’infanzia vivono ancora lì, come mio fratello che ha comprato un due-locali strappando un buon mutuo. Si è spostato leggermente, perché ora sta in una frazione che conta meno di cinquecento abitanti, giusto un chilometro a nord del paese. Più tranquillo, più silenzioso. Il paese è una tana sicura, un luogo ipoteticamente immacolato, dove tutti si conoscono e tu conosci tutti. I miei amici si sono sposati, hanno avuto dei figli, hanno smesso di fumarsi le canne e farsi le botte di coca. Si fanno vedere poco in giro, se non per andare a mangiare una pizza, ognuno nella sua villetta a schiera o nel suo appartamentino con doppio terrazzo. Non è più come una volta, quando si usciva ogni sera e ci si incontrava in un unico posto, che potevano essere i parcheggi o il parco giochi davanti alla tabaccheria. Le portiere delle macchine aperte e le autoradio accese.
Però non è vero, non siamo stati rivoluzionari, siamo stati solo annoiati e curiosi. Perché al paese ci saremmo stati bene, se avessimo voluto, ma non ci è bastato.
Il paese di provincia è una mamma chioccia che ti tiene sotto il culo ben oltre le prime piume.
La squadra di calcio, il campionato provinciale, il catechismo, la domenica in chiesa e il 24 dicembre alla Santa Messa di Natale, a mezzanotte. I vecchi al bar a bere il ‘bianchino’ e giocare a carte, i cani sdraiati in mezzo alla strada. Il razzismo primario verso i nuovi arrivati, il bullismo perpetrato metodicamente da chi lo subisce appena si fa una scampagnata in città. La Sagra del Paese e le Feste Rionali. I matti del paese.
E poi – e soprattutto – l’amicizia, che è una cosa diversa, lo sai. Se sei uno di paese, ma conosci anche la città, non puoi fare finta di nulla. Lo senti, distinto come una nota stonata in un coro di professionisti, l’amore fraterno che provi per i tuoi amici, fatto di giorni passati uno accanto all’altro, anche quando non è necessario o non ne hai più voglia. Sempre negli stessi luoghi a fare le stesse cose, a sperimentare la vita sempre un attimo dopo rispetto a tutti gli altri.
Ci sono quelli che se ne vanno, come me e come altri miei compagni di adolescenza. Aspettano il momento giusto e poi corrono a vedere come è fatto il mondo. Tre quarti delle volte è compreso tra i dieci e i trenta chilometri oltre, ma è comunque un mondo completamente nuovo, affascinante e misterioso. Sì, è vero i tempi sono cambiati, le distanze si sono accorciate, le geometrie spezzate e i confini abbattuti. Va bene così, il paese resta una cosa lontana a prescindere.
Io mi ricordo ogni volto, ogni nome e ogni caratteristica. Mi ricordo quanto è stato difficile sopportare il peso dell’essere sempre e comunque riconosciuto, ma anche la spocchia nel sentirsi, in qualche modo, famoso. Non si è mai nell’ombra quando si vive al paese, però si è sempre in cerca di un riparo; per fumarsi una canna, per fare l’amore chiusi in macchina, perché hai marinato la scuola, perché ‘quella conosce quell’altra che è zia di quella che conosce tua madre’.
Chi ha vissuto in un paese abbastanza tempo da permettersi di dire che conosce tutto di quel paese – e non ci vuole molto, abbiate fede – potrebbe scrivere realmente un libro, come hanno fatto Donald Ray Pollock e Sherwood Anderson, e come tanti altri prima di loro.
In un paese la realtà si impasta alla finzione, alla leggenda, le storie si tramandano a voce in un telefono senza fili impazzito, quando ogni cosa è necessariamente amplificata all’eccesso. Ho un ricordo di un tale di San Zenone al Lambro che ha ucciso con una fucilata in faccia il proprio padre perché, per una vita, ha subito i suoi maltrattamenti. Il problema è che non sono sicuro sia vero oppure se sia una costruzione della mia mente.
Non so nemmeno se il padre di Walter Zenga abbia davvero vissuto, fino a morirci, nell’appartamento al primo piano sopra la tabaccheria. Eppure sono convinto di averlo visto, più di una volta, scendere a comprare le sigarette e confidarsi con qualcuno, liberandosi di quell’odio provato nei confronti di un figlio irriconoscente. Io un libro lo avrei potuto scrivere con tutto quello che ho visto e vissuto al paese mio. Avrei potuto inventare qualcosa, giusto qualcosa, perché di storie vere che paiono inventate ce ne sono a manciate. Però non l’ho mai fatto, perché mi sono sentito come se intaccassi l’anima di qualcosa di puro, il recesso più vero di tutta la mia adolescenza che, con cura, ho appoggiato sul davanzale dei miei ricordi, al fine di poterne annusare il profumo quando sono malinconico. Ho paura di violarlo, di urtarlo e farlo precipitare.
La tabaccheria dove ho comprato i miei primi pacchetti di Diana Rosse e poi di cartine lunghe non è il ‘Jolly Blu’ di Max Pezzali. Quel luogo, che riconoscerei anche solo dall’odore, è la mia area protetta, sacra. Qualcuno, però, fatica a comprenderlo, ed è giusto così. Come quando dico alla gente che per me gli Scout sono stati un’esperienza molto importante, la quale ha inciso positivamente sulla mia età adulta tanto quanto l’abbia fatto il calcio. E la gente, in tutta risposta, non manca mai di prendermi per il culo e di darmi del ciellino. È giusto così. Solo chi conosce il paese e i suoi mostri può capire l’importanza che ha su un’intera vita.
Però me ne sono andato e non sono l’unico.
Qualche mese fa è venuto a trovarmi a Berlino un amico, non ci vedevamo e non ci sentivamo da quasi quindici anni. Siamo cresciuti insieme, abbiamo giocato nella stessa squadra di calcio, nello stesso ruolo, dividendoci le possibilità di essere titolari la domenica, per la partita di campionato. Abbiamo ascoltato la stessa musica e fatto le stesse cazzate.
Alessandro è andato via giusto un attimo prima di me, a Londra e poi a Padova, di nuovo a Londra e poi di nuovo a Padova. Ora, mi ha detto, lascia tutto e va ad aprire un’attività con il surf in Portogallo.
Non so se stia scappando da anni oppure davvero gli piace com’è fatto il mondo. Non gliel’ho mai chiesto. La gente che scappa dai luoghi spesso lo fa per il resto dei suoi giorni, perché si sa, è una banalità, sta scappando sopratutto da se stesso.
Ne abbiamo parlato, di questa cosa dell’andare ‘via dal paese’, ci siamo considerati anime diverse, ribelli, non adatti a quel posto brutale fatto di luoghi comuni, vecchie storie, leggende e volti identici ad altri volti. Ci siamo sentiti rivoluzionari nell’avere preso tutto, averlo ficcato in un Invicta ed essere andati, come il Che, Granado e la loro motocicletta.
Però non è vero, non siamo stati rivoluzionari, siamo stati solo annoiati e curiosi. Perché al paese ci saremmo stati bene, se avessimo voluto, ma non ci è bastato. È tutto qui, racchiuso forse in delle anime che obliquamente partono dallo stesso punto, ma tracciano traiettorie opposte, oppure diverse.
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