“Se a un membro di questa generazione si pongono due semplici domande: “come vorresti che fosse il mondo da qui a cinquant’anni?” e “come vorresti che fosse la tua vita da qui a cinquant’anni?” le risposte vengono molto spesso precedute da considerazioni come “ammesso che ci sia ancora un mondo” e “ammesso che io sia ancora vivo”.
Hannah Arendt, On violence, 1970
1967 – Un ragazzo con la camicia rossa
Nessuno può dire se l’anno 1967 abbia segnato l’inizio o la fine della protesta giovanile in Germania Ovest, in molti però riconoscono in questa data una svolta, un’increspatura delle acque che innesca il vortice degli eventi, il maelstrom, come lo definisce il poeta e scrittore tedesco Peter Haertling.
Nel 1966, nella Repubblica Federale Tedesca, si era instaurata la prima Grosse Koalition della storia, un accordo tra i Cristiano-democratici della CDU e i socialisti della SPD che lasciava di fatto il Parlamento privo di una vera opposizione. Franz Josef Strauss, conservatore bavarese che aveva svolto incarichi politici e militari durante il Terzo Reich, viene nominato Ministro delle Finanze.
Come lui, molti tra alti funzionari, politici e ufficiali delle forze dell’ordine avevano un passato di connivenza con il nazionalsocialismo. La denazificazione infatti era stata soprattutto un’operazione di facciata, mancando la reale possibilità, e secondo qualcuno la volontà politica, di epurare due generazioni di dipendenti statali, esponenti politici locali, soldati addestrati.
Nel frattempo nelle università tedesche si formava la prima generazione di uomini e donne esenti, per motivi anagrafici, da responsabilità concrete durante il nazismo. Questo li rendeva ai loro occhi molto diversi da coloro che li avevano preceduti. L’elemento alla base di questa frattura era proprio il giudizio sui loro “padri”, ai quali non era stato mai fatto il processo morale collettivo necessario a una rottura reale col passato nazifascista.
Nel 1967 la guerra in Vietnam era nel pieno della sua esplosione, a due anni dall’intervento diretto sul campo delle forze armate statunitensi, che inizialmente avevano fornito solo un supporto esterno contro i ribelli comunisti del Nord. Sempre nel 1967 il rivoluzionario Ernesto Che Guevara viene ucciso nella foresta boliviana. In Grecia, dopo un golpe, si instaura una dittatura militare autoritaria, il cosiddetto regime dei colonnelli.
Nel frattempo, con il mondo diviso in due blocchi contrapposti, si propagava come un morbo la contestazione giovanile, un movimento che si opponeva alla guerra, alle armi nucleari, allo sfruttamento dei paesi in via di sviluppo e all’ineguaglianza sociale. Non solo, il movimento globale contestava anche la forma di vita, la divisione dei generi, la morale, la sessualità, la moda dell’epoca.
Il 2 giugno 1967 lo Scià di Persia Mohammad Reza Palavhi, monarca totalitario dell’Iran, arriva in visita diplomatica a Berlino Ovest. La dinastia Palavhi, insediata con il supporto politico e militare di Stati Uniti e Gran Bretagna, era accusata di gravi abusi e violenze sulla popolazione, che versava in condizioni di estrema povertà a fronte del grosso volume di affari che lo Scià e la sua clientela scambiavano con le potenze occidentali.
Le organizzazioni studentesche e i gruppi appartenenti all’APO, la sinsitra extra-parlamentare tedesca, avevano lanciato un appello per contestare il sovrano persiano e i paesi occidentali suoi complici, tra cui la Repubblica Federale stessa.
Le guardie private dello Scià non accettano sportivamente i fischi e le grida di protesta che si levano al passaggio ufficiale di Palavhi e decidono di intervenire sulla folla picchiando i manifestanti con bastoni e tubi d’acciaio, nella totale indifferenza della polizia tedesca. Altre manifestazioni spontanee si diffondono in città e vengono caricate dalle forze dell’ordine. La sera, nei pressi dell’Opera, gli scontri si acuiscono e la polizia si pone all’inseguimento di un giovane studente identificato, erroneamente, come leader agitatore, a causa della camicia rossa che indossa. Improvvisamente parte un colpo di pistola: Benno Ohnesorg, che partecipava alla sua prima manifestazione, muore prima ancora di arrivare in ospedale, a sparargli è l’agente di polizia Karl-Heinz Kurras.
La notizia provoca uno shock collettivo e la brutalità poliziesca di quella giornata, legittimata dal racconto distorto e cinico che ne fanno inizialmente i media, agisce da potente fattore di radicalizzazione del movimento extraparlamentare tedesco.
Alcuni testimoni raccontano che in un’assemblea straordinaria della Lega degli Studenti Socialisti, la notte stessa dell’omicidio di Ohnesorg, una donna bionda, che alcuni riconoscono come Gudrun Ensslin, si alza in piedi e inizia a gridare “Ci uccideranno tutti, lo sapete con che razza di maiali abbiamo a che fare, è con la generazione che ha creato Auschwitz che abbiamo a che fare, con questa gente non si può discutere. Loro hanno le armi e noi non le abbiamo, dobbiamo armarci anche noi.”
In quell’anno l’appartamento di Charlottenburg della brillante dottoranda Gudrun Ensslin e del suo compagno Bernward Vesper, diviene punto di ritrovo per alcuni militanti radicali del movimento studentesco. Lì Ensslin incontra Andreas Baader, arrivato a Berlino da poco dopo qualche mese di carcere in Baviera per il furto di una moto. Tra i due nasce una relazione che durerà finché saranno in vita.
Nel frattempo Ulrike Meinhof, nota giornalista e opinionista televisiva, dalle pagine della rivista Konkret, in occasione della visita dello Scià di Persia, scrive una lettera aperta alla moglie dello Scià, Farah Diba: “Affermi che a casa in Iran è un’estate molto calda e che tu, come la maggior parte dei persiani, porterai la tua famiglia sul Mar Caspio. “Come la maggior parte dei persiani..” Non credi sia un’esagerazione? La maggior parte dei persiani sono contadini con un reddito annuale di meno di 100 marchi. E la maggior parte delle donne persiane perdono un figlio su due per fame, povertà, malattie. E i bambini che lavorano 14 ore al giorno, anche la maggior parte di loro va sulla costa persiana durante l’estate?”
1968 – Dalla protesta alla resistenza
Nel Febbraio del 1968 la giornalista Ulrike Meinhof si separa dal marito, direttore della rivista Konkret, Klaus Reiner Rohl, e da Amburgo si trasferisce a Berlino insieme alle due figlie di quattro anni, Regine e Bettina.
Ulrike si inserisce nella vivace vita controculturale di Berlino Ovest. All’epoca la città era una specie di isola circondata dalla terra ferma della DDR, l’unico luogo della Germania Ovest dove non era obbligatorio il servizio militare, dagli anni sessanta meta di artisti, antimilitaristi, operai stagionali turchi, spie e viaggiatori ispirati dalla beat generation.
La Meinhof, nata in un piccolo paesino della bassa Sassonia, aveva ricevuto un’educazione protestante e aveva ereditato dal padre, storico dell’arte, e dalla madre, insegnante, l’amore per i libri e la cultura. Rimasta orfana prima del padre e poi della madre, viene cresciuta da Renate Riemeck, anche lei studiosa di storia e pedagogia e attivista per la pace. Reimeck, pacifista, antiautoritaria e lesbica, sarà un modello importante per la formazione di Ulrike. Nel 1952 la donna, con le due sorelle Weinke e Ulrike Meinhof si stabilisce a Weilburg, dove le ragazzine frequentano la scuola.
Nella seconda metà degli anni cinquanta Ulrike si trasferisce a Marburg, dove frequenta i corsi universitari in Sociologia, Filosofia e Pedagogia. È il periodo in cui Adenauer e il ministro della difesa Franz Josef Strauss tentano il riarmo nucleare della Bundeswehr, l’esercito tedesco, a cui si oppone la Dichiarazione di Gottinga, un manifesto contro l’uso militare del nucleare firmato da eminenti fisici del tempo, che non impedisce comunque al Bundestag di approvare la mozione per la creazione di un arsenale nucleare tedesco nel marzo del 1957. In quegli anni Ulrike è portavoce del movimento che dentro e fuori le università si batte contro la corsa al riarmo della Germania post-bellica. Intanto continua a scrivere, stavolta per i giornali universitari e inizia a trattare temi politici. Si iscrive alla SDS, Lega degli studenti socialisti, e dai suoi numerosi articoli contro il riarmo della Germania propone paragoni feroci con il periodo nazista: “non vogliamo dover ammettere un’altra volta di fronte a Dio e agli uomini di aver commesso crimini contro l’umanità”.
Nel 1960 Ulrike Meinhof diventa redattrice della rivista in voga tra gli ambienti della sinistra tedesca Konkret, con sede ad Amburgo. In quegli anni si iscrive anche al Kpd, partito comunista tedesco dichiarato fuorilegge dalle autorità. Nel 1962 sposa il direttore della rivista Konkret, Klaus Reiner Rohl.
Negli anni passati a Konkret Ulrike osserva e racconta il mondo in un modo molto diverso da quello che appare sui giornali della stampa liberale tedesca. In particolare il suo giornalismo informato e socialmente impegnato è agli antipodi del tipo di informazione proposta da uno dei gruppi editoriali più importanti dell’epoca, quello di Axel Springer, portavoce di un’informazione generalista che combina notizie politiche e intrattenimento, caratterizzata dalla ricerca del sensazionalismo e da una scarsa profondità argomentativa. I media legati al gruppo Springer hanno inoltre una netta posizione anticomunista e si impegnano in una durissima campagna nel tentativo di screditare il movimento studentesco.
Nell’aprile del 1968, a soli pochi giorni dall’uccisione di Martin Luther King a Memphis, negli Stati Uniti, uno studente conservatore di nome Joseph Bachmann spara tre colpi di pistola a Rudi Dutschke, senza riuscire ad ucciderlo, ma lasciandolo in gravi condizioni. Dutschke è il leader del movimento studentesco, la sua figura politica è nota anche in altri paesi europei in quanto simbolo della rivolta tedesca.
Il giorno dopo manifestazioni di protesta e scontri si registrano nelle principali città tedesche. Ulrike Meinhof legge un suo testo in un’aula universitaria della Technische Universitaet di Berlino: “se si lancia una pietra, il fatto costituisce un reato. Se invece si lanciano migliaia di pietre, questa è un’azione politica. Se si dà alle fiamme una macchina, il fatto costituisce reato. Se invece si danno alle fiamme centinaia di macchine, questa è un’azione politica “
A Berlino un gruppo di manifestanti assalta con pietre e petardi la sede del gruppo editoriale di Axel Springer, considerato il mandante morale del tentato omicidio di Dutschke. Meinhof è presente alla manifestazione, pur essendo rimasta in disparte, e successivamente scrive su Konkret: “protesta significa dire che non condivido qualcosa, resistenza significa fare in modo che quello che non condivido non accada più.“
Il 24 giugno la Grosse Koalition approva una delle più importanti riforme costituzionali post-belliche, attraverso una legge nota come “Notstandsverfassung”, che reintroduce lo stato di emergenza e stabilisce una serie di misure eccezionali in caso di catastrofi, sommosse o guerra, tra cui varie limitazioni delle libertà personali come la restrizione del diritto al segreto postale e della corrispondenza, la restrizione del diritto di circolazione, la restrizione del diritto di resistenza.
1969 – Tutti parlano del tempo, noi no
Il giornalismo di Ulrike Meinhof rifletteva da anni sulle questioni che animavano la conflittualità sociale in Germania, dal movimento contro il riarmo tedesco, nato già alla fine degli anni cinquanta, fino alla contestazione studentesca e alle proteste contro la guerra in Vietnam. Nei testi di Ulrike, sostenuti da una logica apparentemente ferrea e da una preziosa quantità di informazioni, emergeva l’anima inquieta del paese.
Scrive Meinhof: “la popolazione della Bundesrepublik vive estranea a se stessa e alla propria storia, disinformata, sprovveduta, disorientata, indecisa tra le marche di detersivo Pril e Sunil, mentre riflette su quale pappa per bebè comprare e sugli elettrodomestici […] nel tanfo e nella muffa […] tutto è già stato detto almeno una volta e non c’è nessuno da nessuna parte che abbia capito qualcosa”.
Ulrike forma ogni giorno in maniera più netta e irreversibile le sue opinioni politiche. Diventa critica anche rispetto alla funzione del giornalismo e alla sua stessa attività di scrittura per Konkret. L’informazione, secondo lei, deve portare alla luce la voce e l’esperienza dei diretti interessati e non mediare la realtà per piacere al proprio target di lettori. Sulla scia di queste riflessioni, nel 1969 propone a Konkret la pubblicazione di una serie di documenti forniti dalla Lega degli studenti Socialisti sulla condizione sociale nelle scuole tedesche. Il direttore della rivista ed ex marito di Ulrike, Rohl, si rifiuta di pubblicarlo e la Meinhof consegna le sue dimissioni. “Nel momento in cui cerco di eliminare il carattere autoritario, personalistico, e ciò significa consumista, della mia colonna, il risultato è che non mi si pubblica più”. Nello stesso anno Ulrike parteciperà anche a un’azione di protesta che occupa la sede del giornale, accusandolo di aver mercificato per scopi economici le istanze del movimento di protesta. L’obbedienza all’autorità, il personalismo, il consumismo, e soprattutto la continuità col nazionalsocialismo soltanto mascherata da democrazia liberale, sono i punti contro cui Ulrike si oppone in maniera sempre più inconciliabile. Quella che era stata fin dall’adolescenza la sua arma più affilata contro le ingiustizie del mondo, la parola, le appare sempre più inefficace di fronte alla violenza del mondo.
Ulrike negli anni a Berlino lavora con le adolescenti di un’istituto di correzione femminile di Eichenhof, nel Sud della città, ed entra a far parte di un comitato di quartiere di un sobborgo operaio berlinese, il Maerkisches Viertel. La sua esperienza diretta con giovani svantaggiati arricchisce le riflessioni sulla pedagogia e crea in lei l’amara consapevolezza dell’estraneità delle classi subalterne al dibattito della sinistra intellettuale. I suoi pensieri sul tema la porteranno a scrivere una sceneggiatura che darà origine a un film, “Bambule, storia di adolescenti in una casa di correzione femminile, tra solitudine e rivolta”. Si tratta di un’opera che contesta l’impostazione autoritaria del sistema di istruzione tedesco, in particolare denuncia un metodo che relega gli adolescenti più poveri a ruoli marginali nella società e risponde solo in forma punitiva alle istanze di emancipazione delle classi subalterne. “Bambule è ribellione, rivolta, contro-potere, tentativo di liberazione. È qualcosa che succede in estate, quando fa caldo e il cibo è ancora più schifoso […] quando la rabbia ristagna negli angoli insieme al calore. È qualcosa che c’è nell’aria, paragonabile alle estati calde nei ghetti neri degli Stati Uniti”
Negli anni a Berlino la Meinhof vive in prima persona le difficoltà della condizione di madre sola, e riflette sul ruolo della donna anche e soprattutto all’interno dei movimenti politici.
Sul tema scriverà: “le donne vengono ricattate per mezzo dei loro figli, e l’umanità di queste donne consiste proprio nel lasciarsi ricattare”. E ancora:“vista con lo sguardo dei bambini, la famiglia è il luogo degli imprescindibili rapporti umani stabili. Naturalmente è una situazione più facile per un uomo che abbia una moglie che si occupi dei figli, perché i figli hanno davvero bisogno di rapporti stabili e di qualcuno che abbia tempo da dedicargli. Una donna invece non ha una moglie che si accolli tutti questi compiti e deve risolvere tutto da sola, e questo è immensamente difficile”.
Sul movimento pacifista, che in Germania e nel mondo diventa sempre più radicale, e sull’azione, intercettata dalla polizia tedesca, di un gruppo berlinese, Kommune I, che voleva tirare bombe gastronomiche fatte di yogurt e pudding sul vicepresidente americano Humphrey in visita a Berlino, Ulrike scrive:
“non è criminale gettare bombe al napalm su donne, bambini e vecchi, ma lo è protestare contro. […] Non il terrore e la tortura utilizzate da squadre speciali sono atto criminale, ma il protestare contro. […] Si considera volgare gettare pudding e quark sui politici, ma non lo è ricevere politici che fanno radere al suolo villaggi e bombardare città. Si considera volgare discutere nelle stazioni e negli angoli delle strade sul popolo vietnamita oppresso, ma non lo è invece colonizzare un popolo nel segno dell’anticomunismo […] Napalm sì. Pudding no”.
In Germania la conflittualità sociale era riuscita a spostare l’asse politico verso sinistra. I socialdemocratici avevano conquistato per la prima volta nella storia sia cancelleria che presidenza della repubblica (con Gustav Heinemann), e il cancelliere Willy Brandt, ex sindaco di Berlino, aveva intrapreso una politica estera distensiva nei confronti della DDR e del blocco socialista, la cosiddetta “Neue Ostpolitik”.
Gudrun Ensslin e Andreas Baader avevano dato fuoco ai grandi magazzini Kaufhaus Schneider a Francoforte, come forma di protesta per l’appoggio della Germania alla guerra in Vietnam. Rilasciati in attesa del processo, erano entrati in semi-clandestinità e avevano iniziato a lavorare al Progetto Staffelberg, un piano strategico per entrare in contatto e politicizzare gli strati emarginati della popolazione. Pochi mesi dopo, Baader viene nuovamente arrestato dopo un fermo ad un posto di blocco. Gudrun Esslin decide così di contattare Ulrike Meinhof e, con la complicità dell’editore Klaus Wagenbach, le propone un piano per far evadere Baader dal carcere di Moabit. Ulrike accetta.
Un commando armato fa irruzione dentro l’istituto di ricerca nel quale Baader aveva ottenuto il permesso di andare a lavorare ad un libro in collaborazione con la nota giornalista, Ulrike Meinhof. Durante l’azione un bibliotecario viene ferito. Ulrike, che avrebbe dovuto fingersi sorpresa ed estranea al piano, vedendo gli altri fuggire decide di seguirli. Nessuno può sapere se quella decisione sia motivata dal panico o da un’effettiva volontà: di certo non era stata programmata. La mattina dopo, sugli spazi di affissione di Berlino Ovest, campeggiano manifesti con la sua foto e la scritta “Ex giornalista di Konkret ricercata per tentato omicido, taglia di undici mila marchi”.
1970 – Agit 883
“Compagni dell’883, è inutile voler spiegare alle persone sbagliate ciò che è giusto. L’abbiamo fatto già abbastanza. La liberazione di Baader non va spiegata agli intellettuali bravi solo a parlare, a quelli che se la fanno nei pantaloni, a quelli che tanto-sanno-sempre-tutto-meglio-degli-altri. Al contrario dobbiamo spiegarla alle componenti del popolo potenzialmente rivoluzionarie. Ciò significa a coloro che sono in grado di comprendere immediatamente l’azione, perché anch’essi sono dei prigionieri. A loro non interessano le chiacchiere della sinistra, perché sono rimaste senza conseguenze, non si sono trasformate in azione. Loro non ne possono più!
È ai ragazzi del Maerkisches Viertel, alle ragazze di Eichenhof, Ollenhauer, Heiligensee, ai ragazzi negli asili, nei centri di raccolta, nella Gruenes Haus, in Kiefergrund, che va spiegata l’azione che ha portato alla liberazione di Baader.
Alle famiglie piene di figli, ai giovani lavoratori e agli apprendisti, agli scolari delle scuole, alle famiglie che vivono nei quartieri da risanare, alle lavoratrici della Siemens e della Aeg Telefunken, della Sel e della Osram, alle lavoratrici sposate, che devono mettere insieme il lavoro e la casa e i bambini – maledizione! A loro dovete spiegare l’azione, a quelli che per la condizione di sfruttati in cui si trovano non riceveranno mai un risarcimento sotto forma di standard di vita, consumo, mutuo per la casa, piccoli prestiti, un’automobile di media cilindrata.
A loro, a quelli che non ce la fanno, a quelli che “non fanno parte di niente”,
Loro hanno capito che le promesse per il futuro fatte dai loro educatori, maestri, amministratori, responsabili, funzionari di sindacato e sindaci di quartiere, sono tutte menzogne, e tuttavia hanno ancora paura della polizia. A loro e non agli intellettuali piccolo borghesi dovete dire che adesso è finita, che adesso incomincia davvero. Che la liberazione di Baader è solo l’inizio. Che ormai l’era dei poliziotti è agli sgoccioli! A loro dovete dire che bisogna costruire la Rote Armee Fraktion, che questa è la loro armata! A loro dovete dire che adesso si incomincia, vedrete che non vi faranno la domanda idiota: perché proprio adesso?
Loro hanno alle spalle mille strade fatte negli uffici, nei vari ministeri e istituti, – il balletto dei processi, le attese e sempre e di nuovo anche il giorno in cui, finalmente, deve per forza funzionare, e invece non funziona affatto. E il diaologo con l’insegnante gentile che tuttavia alla fine non ha evitato il trasferimento alla scuola speciale, e la maestra d’asilo che non può fare niente, tanto di posti liberi all’asilo comunque non ce n’è. Loro non vi chiedono perchè proprio adesso, maledizione!
Estratto dal comunicato sulla liberazione di Andreas Baader pubblicato sulla rivista radicale Agit 883, 5 giugno 1970
1971 – Il concetto di guerriglia urbana (la RAF)
Il comunicato della liberazione dal carcere di Andreas Baader, probabilmente scritto dalla stessa Ulrike Meinhof, è l’atto ufficiale di nascita della RAF, Rote Armee Fraktion. Nel nome il riferimento è all’armata rossa, l’esercito rivoluzionario che dopo aver conquistato il potere in Russia, sarà fondamentale nella sconfitta del nazifascismo durante la seconda guerra mondiale. Il termine fraktion invece, traducibile come frazione, legione, brigata, riconsegna l’idea, molto forte tra i membri del gruppo, di far parte di un movimento più ampio, internazionale, che si batte contro l’ingiustizia del capitalismo e dell’imperialismo. Si fa riferimento alla dottrina marxista-leninista come teologia di liberazione delle classi subalterne, anche se le diversità di ricezione di queste teorie, come le diverse posizioni nei confronti del blocco socialista, creavano un reticolato eterogeneo di lotte. Nell’agosto 1970 i componenti della neonata RAF si erano recati in Cisgiordania e a Gaza per partecipare a dei campi di addestramento militare organizzati dai combattenti del movimento di liberazione della Palestina. Nelle intenzioni del gruppo c’era la volontà di prepararsi alla guerriglia, anche se gli altipiani e i deserti del Medio Oriente erano contesti molto differenti dalle strade ordinate delle città tedesche.
Nella sua fase iniziale, che si concluderà sei anni dopo, e che viene definita dagli storici la prima generazione RAF, il gruppo conta non più di una decina di membri. Oltre a Meinhof, Baader e Ensslin ne fanno parte lo studente di cinema Holger Meins, l’avvocato Horst Mahler, Jan-Carl Raspe e la sua compagna Marianne Herzog, provenienti quasi tutti dalle correnti dell’APO, l’opposizione extraparlamentare, e dalle derive più radicali del movimento studentesco.
Al momento della sua nascita la Rote Armee Fraktion non aveva ancora una precisa linea politica. Ulrike Meinhof fu senza dubbio la persona che maggiormente contribuì a delineare i principi e gli obiettivi del gruppo, insieme a Gudrun Ensslin, considerata altra “mente” della formazione. Dopo la fuga seguita alla liberazione di Baader, anche Meinhof fece quello che gli storici chiamano “Der Sprung”, il salto, ed entrò a far parte dei ricercati dalla polizia tedesca. Ulrike dispone che le figlie, due gemelline di 9 anni, siano mandate prima in Sicilia, in una comune dove alcuni hippie tedeschi si possono prendere cura di loro, in seguito in un campo di accoglienza per orfani palestinesi, affinché vengano addestrate come guerrigliere. Il piano verrà bloccato dal giornalista Stefan Auste, autore di un importante libro sulla RAF, e da Peter Homann, ex compagno di Ulrike, che riporterà le bambine in Germania.
Mentre il gruppo progetta e mette in atto le prime rapine in banca e miete la sua prima vittima, il poliziotto Norbert Schmid, Ulrike e gli altri lavorano ad un testo in cui vengono chiarite le ragioni strategiche della formazione: nel maggio del 1971 esce Das Konzept Stadtguerrilla, il concetto di guerriglia urbana.
1972 – Sei contro sessanta milioni
L’11 maggio del 1972 tre ordigni deflagrano nel Corpo d’armata statunitense di Francoforte, lasciando sul terreno un morto e tredici feriti. A rivendicare l’azione è il commando Petra Schelm, che in un volantino distribuito a poche ore dall’attentato scriverà: “[…] Non ci sarà un solo posto al mondo in cui ci si potrà sentire al riparo dagli attacchi dei guerriglieri rivoluzionari […] Create due, tre, quattro Vietnam!”.
Passano appena 24 ore e il 12 maggio 1972 un’altra esplosione ferisce sette agenti della polizia di Augsburg. Lo stesso giorno vengono attaccati, ancora con un attentato dinamitardo, l’Ufficio Nazionale di Polizia e il Landesbesoldungsstelle: il bilancio è di dieci feriti. Altre 72 ore e il 15 maggio del 1972 è la volta dell’attacco a Wolfgang Buddenberg, giudice per le indagini preliminari sulla Raf: la bomba che dovrebbe ucciderlo, piazzata sulla sua automobile, colpirà la moglie, Gerta, ferendola gravemente.
È Ulrike Meinhof in persona a guidare invece la squadra che attacca la sede della casa editrice “der Springer” di Amburgo il 19 maggio. La telefonata anonima con cui si annuncia l’attentato, effettuata nel tentativo di evacuare i lavoratori, non sortisce gli effetti sperati: restano feriti trentotto dipendenti. Ancora la Meinhof, sempre più in prima linea, scriverà nel comunicato rilasciato dal gruppo dopo l’attentato del 24 maggio 1972 ad Heidelberg, contro un complesso militare dell’esercito degli Stati Uniti: ”dato che si trattava di militari di un esercito imperialista, era giusto non dare nessun allarme. Secondo il codice Raf.”
Il 14 giugno ad Hannover Fritz Rodewald, insegnante di sinistra che in passato aveva aiutato disertori dell’esercito americano a trovare coperture in Germania, insospettito dalla richiesta di ospitalità di una donna che lo aveva contattato, informa la polizia. Quando il commando irrompe nell’appartamento trova Ulrike Meinhof, che viene immediatamente trasferita a Colonia, nel carcere speciale di Ossendorf.
Nel 1972 i militanti della RAF, quelli della cosiddetta prima generazione, vengono quasi tutti arrestati, dopo una caccia all’uomo in cui il governo tedesco impiega tutte le forze a sua disposizione. Nella Repubblica Federale il governo socialdemocratico di Willy Brandt, da un lato, con la sua spinta progressista, soddisfa le istanze delle frange più moderate della sinistra, dall’altro mostra totale intransigenza con i gruppi estremisti.
Ulrike e gli altri sono al centro dell’opinione pubblica del paese e allo stesso tempo terribilmente isolati. I media lanciano una campagna diffamatoria e sensazionalistica sul gruppo e sui singoli membri, che va avanti anche dopo la loro morte. Volgarizzazioni come Baader il macho, Ensslin la bionda seduttrice armata o Ulrike la corruttrice di fanciulli campeggiano sui titoli delle prime pagine. Eppure, il paese resta diviso. Un sondaggio dell’Allensbach Institute sancisce che un tedesco su quattro prova una certa simpatia per il gruppo.
Nel 1972 arriva dalla voce autorevole dello scrittore, futuro premio Nobel, Heinrich Boell una denuncia alle autorità e ai media sul trattamento del caso RAF. L’autore denuncia un’informazione di parte, che tende a creare sensazionalismo e uno stato di emergenza solo presunto, che giustifica leggi liberticide e crea un’opinione pubblica superficiale e assuefatta. Boell sosteneva che la questione della lotta armata politica avrebbe meritato di essere trattata con molta più complessità e che la RAF non costituiva davvero un pericolo imminente per il paese, introducendo la famosa definizione del gruppo come “sei contro sessanta milioni”. Come paradosso Boell faceva notare che criminali nazisti colpevoli di aver ucciso decine, a volte migliaia di innocenti, erano ancora in libertà e che la loro condotta non faceva scalpore, mentre la demonizzazione dei militanti RAF era il pane quotidiano dell’opinione pubblica tedesca. Le azioni della RAF erano state trattate dallo Stato tedesco unicamente come un caso militare e giudiziario. Ma la depoliticizzazione era soltanto la prima delle forme di annientamento messe in atto.
A scuotere la Germania nel ’72 è anche il gruppo per la liberazione della Palestina “Settembre Nero”, con un’azione terroristica che uccide undici atleti della squadra olimpica di Israele durante le Olimpiadi di Monaco.
Durante l’azione viene richiesta, ma non concessa, la liberazione di alcuni prigionieri politici, tra cui i membri della RAF.
Ulrike Meinhof resta quindi in regime di isolamento, nel carcere di Ossendorf. Non solo era stata separata, come l’isolamento prevede, dalla vita del penitenziario e dai contatti con le altre detenute, ma era stata collocata in una cella interamente dipinta di bianco, con luci al neon sempre accese, che si trovava in un’ala morta del carcere e che era quindi immersa in un assoluto silenzio. Ulrike rimarrà là dentro per 273 giorni consecutivi. Fino al Marzo 1973.
1973 – L’ala morta
“La sensazione che ti esploda la testa (la sensazione che il cranio possa esserti esportato via, esplodendo),
la sensazione che il midollo spinale ti si comprima tutto nel cervello,
la sensazione che il cervello ti si raggrinzisca,
la sensazione di trovarsi sotto una corrente, continua, impercettibile che ti trascina lontano
la sensazione che ti si spappolino le capacità sociative
la sensazione che l’anima ti pisci via dal corpo, come quando non si riesce a trattenere l’urina
la sensazione che la cella si muova. Ci si sveglia, si aprono gli occhi, la cella viaggia; al pomeriggio quando entra la luce del sole, la cella, di colpo, si immobilizza. Non riesce a respirare la sensazione di movimento, di viaggio.
Non si riesce a capire perché si tremi, si geli.
Riuscire a parlare con un tono di voce normale, fatica come se si dovesse parlare forte, come se si dovesse urlare.
La sensazione di diventare muti.
Non si può identificare il significato delle parole, si riesce solo ad indovinare.
L’uso delle sibilanti – come s, sch, tz, z – è assolutamente insopportabile. Secondini, visite, cortile, sembrano un film.
Mal di testa. Flashes.
Incontrollabile la costruzione delle frasi, la grammatica, la sintassi. Si scrive: due righe.
Alla fine della seconda riga non si ricorda più l’inizio della prima.
La sensazione di andare in cenere dentro.
La sensazione che se tu riuscissi a dire cosa sta accadendo, tutto ti verrebbe fuori come un getto di acqua bollente, che bolle per tutta la vita.
Furiosa aggressività che non trova sfogo.
Questa è la prova peggiore.
La chiara coscienza di non avere più alcuna possibilità di sopravvivenza. Totale senso di impotenza nel tentativo di opporsi a questa convinzione: le visite lasciano dietro di sé il vuoto.
Un’ora dopo una visita riesci solo a ricostruire meccanicamente se la visita è stata oggi o la settimana scorsa.
Una volta la settimana invece il bagno ha questo significato: di scioglierti un attimo, di riprenderti – questo anche per un paio d’ore -.
La sensazione che il tempo e lo spazio si incastrino l’uno nell’altro.
La sensazione di trovarsi nello spazio di uno specchio deformato – vacillamento -,
Poi; spaventosa euforia quando si sente qualcosa – la differenza sonora tra il giorno e la notte-.
La sensazione che ora il tempo scorra, che il cervello nuovamente si rilassi, che il midollo torni al suo posto, per settimane.
La sensazione che ti abbiano strappato la pelle.”
estratto da una lettera di Ulrike Meinhof
1974 – Uomini o porci
Ulrike Meinhof passò i suoi primi 273 giorni di carcere in un regime di deprivazione sensoriale. Così si chiamava la tecnica che riduceva al minimo gli stimoli sensoriali su un individuo e che si dimostrò causare gravi danni fisici e mentali. Gli esseri umani erano ancorati ai loro sensi come gli alberi alle radici e privandoli di input sensoriali, e ovviamente soprattutto di scambi umani, rischiavano di subire gravi danni al sistema neurovegetativo come accadde ad Astrid Poll, altra componente della RAF arrestata poco dopo e sottoposta allo stesso trattamento, che venne ricoverata in ospedale dopo due anni di isolamento, incapace di tenersi in piedi e comunicare.
I membri della RAF subirono tutti o quasi il carcere di isolamento. La decisione non era dovuta a particolari contingenze, semplicemente si temeva che la loro fama e le loro abilità oratorie potessero creare scompiglio all’interno dei penitenziari. Mentre la stampa definiva i terroristi della RAF come individui completamente sconnessi dalla realtà del paese, le autorità giudiziarie si preoccupavano di tenerli lontani dagli altri detenuti per evitare che la loro spinta eversiva trovasse terreno fertile e potesse propagarsi. Il regime “normale” sarebbe giunto solo a condizione che i prigionieri avessero abbandonato la propria identità politica: ossia pentirsi o dissociarsi.
Mentre fuori dalle mura del carcere una seconda generazione di RAF si andava costituendo proprio intorno al tema della liberazione dei prigionieri, Meinhof e gli altri iniziarono una serie di azioni di protesta per denunciare le condizioni carcerarie.
Il primo sciopero della fame concordato avviene tra il 17 gennaio e il 15 febbraio 1973. Il secondo si svolge tra maggio e giugno dello stesso anno. Ve ne è un terzo, dal 13 settembre 1974 al 5 febbraio 1975, durante il quale morirà di denutrizione Holger Meins. La morte di Meins scatena una serie di manifestazioni a Berlino Ovest e nel resto della Germania a cui prendono parte decine di migliaia di persone. Tra le ultime parole di Meins si legge la consapevolezza di andare incontro a una possibile morte e l’impossibilità di tornare indietro sulla strada intrapresa : “O uomini o porci. O sopravvivere a ogni costo, o combattere fino alla morte. O il problema, o la soluzione, tertium non datur. (..) Tutti moriamo prima o poi. Il problema resta solo come hai vissuto, e la questione è del tutto chiara: lottando contro i porci come uomo per la liberazione dell’uomo: rivoluzionario, nella lotta – con tutto l’amore per la vita: disprezzando la morte. Questo per me significa: servire il popolo, servire la RAF”. Nel 1974 Gudrun Ennslin era stata trasferita in una cella limitrofa a quella di Meinhof, nel carcere di Colonia. Alla fine dello stesso anno le due donne, più Baader e Raspe, erano stati collocati sullo stesso piano del carcere di Stammheim, vicino Stoccarda, dove un padiglione era stato costruito proprio per ospitare i criminali della RAF e il loro processo.
A Stammheim venne concessa alla Meinhof la possibilità di rompere l’isolamento, vedendo Gudrun per una o due ore al giorno. Tra le due donne negli anni del carcere vengono riportati numerosi contrasti e nervosismi, non difficili da credere, viste anche le condizioni psicofisiche in cui entrambe versavano. Successivamente i detenuti Meinhof, Ensslin, Baader e Raspe otterranno di potersi incontrare tutti insieme mezz’ora al giorno: la concessione sarà fatta per calmare la pressione dell’opinione pubblica sulle condizioni detentive, fortemente aumentata dopo la morte di Meins. Quando, un anno dopo, si presenteranno alle prime udienze del loro processo, secondo una perizia medica i quattro detenuti si collocheranno tutti tra i 14 e i 23 chili sottopeso.
Nel frattempo la giustizia tedesca era diventata un organo sempre più pervasivo, con una serie di leggi e riforme passate sotto la spinta emergenziale del terrorismo di sinistra. Horst Herold ad esempio, capo della BKA (Bundes Kriminal Amt, autorità federale contro il crimine), fu il primo a inventare un programma informatico in grado di catalogare i dati di decine di imputati. Per catturare i membri della RAF, la mobilitazione di forze di polizia fu la più imponente dalla fine della guerra e fece emergere la necessità di collaborare tra le polizie dei vari Land, le regioni federali tedesche, fino alla necessità di implementare delle riforme in senso centralistico delle forze dell’ordine. Il Radikalenerlass, cioè la legge, approvata nel 1972, che consentiva di escludere individui da incarichi pubblici o ruoli lavorativi se sostenitori di posizioni politiche radicali, rendeva possibile esonerare dal loro incarico gli avvocati della RAF, perché accusati di sostenere politicamente le loro posizioni: durante il processo molti avvocati furono incriminati. Inoltre, una modifica delle regole di procedura penale aveva stabilito che fosse possibile continuare i processi anche in assenza fisica dell’imputato, nel caso questo avesse procurato “premeditatamente” la sua impossibilità a presenziare, con chiaro riferimento agli scioperi per la fame che deteriorando la salute degli imputati a volte impedivano loro la presenza in aula.
Siamo arrivati al 1974. Il socialdemocratico Willy Brandt, l’uomo della distensione verso la DDR, si dimette per accuse di spionaggio ad un suo collaboratore, al suo posto viene Helmut Schmidt, già ministro di difesa, economia e finanze nel governo Brandt. Il 7 luglio 1974 la Repubblica Federale tedesca vince i mondiali di calcio, sconfiggendo 2 a 1, a Monaco di Baviera, l’Olanda.
1975 – Eclissi di Ulrike
Il 27 febbraio del 1975 viene rapito il capo del Partito Cristiano Democratico, Peter Lorenz. A portare avanti l’azione sono alcuni militanti della RAF, che propongono alle autorità tedesche uno scambio: Lorenz per la liberazione di sei prigionieri (uno dei quali, Mahler, rifiuterà). Il governo accetta, cinque militanti vengono liberati ma fra di loro non ci sono né Baader, né Ensslin, né Meinhof.
Il commando “Holger Meins” ci riprova il 24 aprile del 1975, stavolta con l’obiettivo di liberare i capi storici del gruppo. Viene attaccata l’ambasciata della Germania Ovest a Stoccolma, ma senza successo. A maggio, ha inizio il maxi processo ai membri della RAF, in un’ala speciale del carcere di Stammheim.
Ulrike appare molto dimagrita e scossa, risponde al giudice con parole riprese dai comunicati della RAF in cui rivendica gli atti di violenza del gruppo come strumenti necessari a condurre una battaglia anti imperialista. Ulrike non parla come Ulrike, ma a nome del gruppo. L’immagine di lei che trapela dalle fotografie della stampa è quella di un corpo consumato, sconvolto, svuotato, e si scontra con le sue dichiarazioni nette e propagandistiche, dove non emerge la sua spiccata capacità analitica. Al processo del 1975 di Ulrike Meinhof compare solo la maschera. Dov’è Ulrike? In quel corpo logoro e in quegli occhi spenti, o in quelle parole geometriche e monocolori che risuonano come rintocchi di funeree campane? Forse in nessuno dei due luoghi. Ulrike sembra aver abbandonato sia il suo corpo che la sua mente per rinchiudersi nel suo coraggio. Ulrike ha compiuto “der Sprung” come verrà definito, il salto, e ha giocato alla guerra per scoprire sulla sua pelle che la guerra tanto invocata esiste veramente.
In molti utilizzano le immagini e le parole del processo per descrivere una Ulrike fragile. Vulnerabile, plagiata, impazzita. Eppure si tratta di una donna che dopo 273 giorni di isolamento era ancora in grado di scrivere e descrivere le sue sensazioni e che incontrava gli avvocati della RAF per concordare le dichiarazioni pubbliche del gruppo. La fragilità di Ulrike, la sua instabilità psichica come matrice primaria delle sue scelte politiche, è un topos letterario e giudiziario tanto fortunato quanto infondato. Il suo processo di radicalizzazione dentro il movimento tedesco, la sensazione, sopraggiunta nel 1969, dell’inutilità delle parole, fa breccia nell’esistenza di una donna che aveva per anni saputo raccontare la rivolta, la solitudine esistenziale, condivisa da una generazione e dalla quale Ulrike provava ad uscire cercando qualcosa che le desse un senso di calore e appartenenza. Sono, tutti, elementi politici e soggettivi, che spiegano ampiamente la sua parabola, e che trovano molti più appigli nella documentazione storica rispetto a una presunta “vulnerabilità” o, come si è provato più volte a dimostrare in sede giudiziaria, alla follia.
Nella RAF Ulrike aveva trovato prima di tutto un legame umano strettissimo, forzato in un certo senso dalla necessità di fidarsi a pieno degli altri. L’editore Klaus Wagenbach scrive sul 1969, anno in cui i socialdemocratici erano saliti alla cancelleria ed era iniziata una fase di riflusso del movimento studentesco: “in quell’inverno, il fenomeno dell’isolamento era presente ovunque, una parte della sinistra era tornata nella legalità, il resto se ne stava lì occupato da problemi psicologici o dalla formazione di gruppi comunisti. Chi sosteneva posizioni radicali si riconosceva all’avanguardia del movimento. Ciò spiega anche la straordinaria durezza, oggi forse poco comprensibile, con cui si discuteva all’interno della sinistra, i gruppi si sono attaccati spesso reciprocamente con più ferocia di quanto avrebbero fatto col nemico politico”.
Questo senso di perdita e isolamento era ancora più forte in Ulrike, che proprio quell’anno aveva deciso di abbandonare l’unica vera appartenenza della sua esistenza, il giornalismo. Quando Ensslin la contatta per coinvolgerla nella liberazione di Baader, Ulrike era una goccia nel mare, trascinata dal flusso della marea della contestazione tedesca.
Altro fatto che molti considerano ancora oggi enigmatico riguarda è la diversità di tono e di acume degli scritti personali della Meinhof, rispetto ai documenti redatti per la RAF. La sua analisi politica era stata sempre molto realistica, sia per quanto riguarda il movimento tedesco, che ad esempio criticava per una troppo forzata e acritica identificazione con i popoli del Terzo Mondo, che successivamente rispetto al governo socialdemocratico di Brandt, che sosteneva avrebbe funzionato come specchietto per le allodole per le istanze di trasformazione, ponendo di fatto un argine alla radicalizzazione di massa e facendo rientrare una grossa parte di chi protestava nelle istituzioni.
Dai comunicati RAF invece le parole risuonano altisonanti, retoriche e fredde, come una macchina da guerra da cui traspare poca consapevolezza della complessità della situazione politica.
La sensazione che questi scritti lasciano rispetto all’esistenza di una doppia Ulrike ha, anch’essa, alimentato le voci che parlavano di plagio, fragilità e pazzia. Quello che viene raramente preso in considerazione è che Ulrike possa essere stata consapevole di questo limite, ma allo stesso tempo disposta a partecipare a quella che era per lei, soprattutto, una sorta di performance politica, utile a evocare la possibilità di una rivolta, a infrangere il mito dell’invincibilità degli apparati statali. Questo carattere volutamente propagandistico e simbolico dei gesti e del linguaggio della RAF, si può comprendere non solo dalla notevole differenza tra le riflessioni personali, dettagliate e sfaccettate di Ulrike e i comunicati del gruppo, ma anche tenendo conto delle influenze sulla RAF delle teorie politiche e artistiche dell’epoca. Il situazionismo francese, con l’opera di Guy Debord “La società dello spettacolo”, rifletteva sul valore simbolico del gesto politico in un mondo sempre più dominato dalle immagini. Allo stesso tempo la spettacolarizzazione, lo svuotamento di senso della politica come della vita, era stato al centro dell’opera di alcuni importanti filosofi tedeschi che avevano grande presa sul movimento studentesco e che hanno dato vita alla tradizione filosofica nota come la Scuola di Francoforte (Herbert, Adorno, Marcuse).
Incrociando la storia di Ulrike con quelle più ampie della RAF e della società dell’epoca, non sembra esserci nessuna eclissi di Ulrike Meinhof, che appare sempre dentro la sua vicenda umana.
1976 – Il cervello del terrore
La mattina del nove maggio del 1976, dopo alcuni mesi dall’inizio del processo, Ulrike Meinhof viene ritrovata impiccata con un paio di calze alle sbarre della finestra della sua cella, nel carcere speciale di Stammheim. L’autopsia, disposta dall’istituto penitenziario, indica “morte da strangolamento”. I giornali titolano: Ulrike Meinhof si è sucidiata.
Nelle ore successive le proteste infiammano diverse città tedesche ed europee, bombe esplodono a Roma, Parigi, Tolosa e Nimes, un ufficiale di polizia viene ferito a Francoforte.
Negli ambienti della sinistra e tra le persone più vicine a lei si fa largo il sospetto che Ulrike non si sia davvero suicidata. I sospetti non trovavano conferma ufficiale, e le due autopsie successive al primo referto confermano la morte per strangolamento.
Molti, a prescindere dalla credibilità delle autopsie, ritenevano lo Stato e la polizia tedesca responsabili della sua morte. Ulrike era stata fatta morire con le torture, con l’isolamento, con l’assenza di contatti dentro il carcere, con gli ergastoli dati dai giudici, con l’indifferenza di tutti coloro che fuori dalle mura del carcere non l’avevano mai compresa. Le persone vicine a Ulrike, tra cui la sorella Wienke, si oppongono ancora oggi alla tesi del suicidio, basandosi non tanto sui dettagli della polizia scientifica e sulle lacune informative delle autorità sul ritrovamento del corpo, quanto sul fatto che fino al giorno prima di togliersi la vita Ulrike era apparsa a coloro che erano venuti a contatto con lei, intenzionata a continuare la sua battaglia dal carcere.
Il 4 maggio 1976, in una cella per visitatori nel sottosuolo, preparava una dichiarazione con l’avvocato Heldmann: una petizione sul ruolo di Willy Brandt e della socialdemocrazia tedesca nella guerra del Vietnam, che fu poi esposta durante il processo da Andreas Baader. Il 6 maggio, la Meinhof parla con l’avvocato Oberwinder, che racconta di «discussione vivace nel corso della quale la signora aveva esposto il punto di vista del gruppo». Il 7 maggio, due giorni prima della morte, Ulrike ragiona con l’avvocato italiano Giovanni Capelli sull’ipotesi di lavorare per mettere insieme un gruppo difesa internazionale per i prigionieri politici.
Al suo funerale il poeta Erich Fried parlò di Ulrike Meinhof come della donna tedesca più importante dopo Rosa Luxemburg, mentre un’altra grande fetta della società tedesca tira un sospiro di sollievo. Si dice che Ulrike si fosse suicidata a causa della sua estrema fragilità emotiva, non aveva retto il rimorso per le conseguenze delle sue azioni, che lei e i suoi compagni, con la loro ideologia estremista, usavano il suicidio come forma di lotta politica.
Tra i necrologi di un giornale tedesco appariva un annuncio in cui si ringraziava Meinhof, in nome dei cittadini che pagano le tasse per la sua decisione di suicidarsi. A differenza degli altri membri del gruppo, che erano interamente sconosciuti all’opinione pubblica prima delle loro attività eversive, Ulrike era nota ben oltre la scena della sinistra radicale e proprio per questa notorietà venne bersagliata dall’opinione pubblica.
Sulla sua morte si sono susseguite tante versioni. Tra la prima autopsia ufficiale, quella ordinata dalle autorità stesse ed eseguita da Hans Joaquin Mallach, precedentemente membro delle SS durante il nazismo, e la seconda, chiesta dai parenti di Ulrike, alcuni organi erano stati rimossi, le sue unghie erano state tagliate e alcuni esami potenzialmente determinanti per stabilire le cause della morte erano impraticabili: ormai erano passate troppe ore dal decesso. Il risultato della seconda autopsia affermò che probabilmente poteva trattarsi di morte per soffocamento, ma quando i medici richiesero i referti della prima analisi, per confrontarli, questi ultimi vennero negati. Tra le altre istanze dei famigliari di Ulrike e di molti suoi simpatizzanti ci sono esami istologici mancanti, l’assenza di alcuni dei tipici segni da soffocamento sul corpo di Ulrike, la posizione della sedia che appare nella foto del ritrovamento, nella quale il suo piede tocca saldamente, la pulizia e il riordino della sua cella a pochissimi giorni dalla sua morte, che ha impedito alcuni test sugli oggetti da lei usati per suicidarsi secondo la versione ufficiale.
Nel 1979 i risultati della Commissione Internazionale di Inchiesta, che era stata invocata per occuparsi del caso, esprimevano numerose perplessità sulla possibilità di affermare con certezza il suicidio, perché mancavano moltissimi elementi di verifica e tutti gli sforzi delle autorità tedesche andavano nella direzione di occultare prove o possibili test.
Anni dopo si è aperto anche il caso mediatico legato al cervello di Ulrike. Da un articolo apparso sullo Spiegel, nel 2002, dal titolo “Il cervello del terrore” sembra emergere che dopo la morte il cervello della donna fu rimosso e trasferito nel centro di studi psichiatrici dell’Università del Magdeburgo, dove il dottor Bogerts avrebbe condotto degli studi paragonando il cervello di Ulrike a quello di un serial killer, per cercare possibili connessioni tra un’operazione che Ulrike subì alla testa nel 1962 e le sue scelte esistenziali e politiche.
1977 – Autunno
Il 10 settembre del 1977 avviene in Francia l’ultima esecuzione capitale tra i paesi europei del blocco occidentale. Nello stesso periodo la Repubblica Federale Tedesca viveva uno dei momenti di crisi più acuta dalla fine della guerra, a causa delle azioni della seconda generazione della RAF, che lanciarono l’operazione Offensiva 77, un piano strategico per liberare i compagni in carcere, tra cui ancora Baader ed Ensslin. Tra il settembre e l’ottobre del 1977 venne prima rapito e ucciso Hanns Martin-Schleyer, allora presidente della Confindustria tedesca, poi con il supporto del FPLP (Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina) la RAF dirottò il velivolo Landshut, della compagnia aerea Lufthansa, con membri dell’equipaggio e passeggeri a bordo.
Dopo ore di girovagare nei cieli senza che nessun aeroporto potesse consentirgli un atterraggio sicuro, l’aereo arrivò all’aeroporto di Mogadiscio, in Somalia, dove una task force militare tedesca fece irruzione e liberò tutti gli ostaggi. Nelle stesse ore, nel carcere di Stammheim, venivano trovati morti Andreas Baader, Gudrun Ensslin e Jan Carl Raspe: assieme a loro viene trovata agonizzante con quattro colpi di coltello al torace anche Irmgard Moeller.
Baader e Raspe si sono sparati, la Ensslin si è impiccata, mentre Moeller si è pugnalata al torace ripetutamente, senza riuscire ad uccidersi. Nonostante l’isolamento i detenuti erano riusciti a introdurre delle armi letali nel penitenziario.
L’unica sopravvissuta, Irmgrad Moeller, negherà di aver tentato il suicidio, anche se non saprà indicare chi sia stato ad accoltellarla.
Il 7 ottobre dello stesso anno, dieci giorni prima di suicidarsi, Baader indirizzava alla Corte d’appello un documento a nome dell’organizzazione. In esso si legge: “a giudicare dalle misure adottate da sei settimane a questa parte e da un paio di osservazioni degli agenti, non possiamo che trarre la conclusione che l’amministrazione del carcere o lo Staatschutz […] sperino di provocare uno o più suicidi, facendoli passare per plausibili. Pertanto dichiaro: nessuno di noi […] ha intenzione di uccidersi”.
Le autorità tedesche negarono fin dal principio qualsiasi congettura sulle morti, sostenendo con fermezza la tesi del suicidio.
Con l’autunno del 1977, il cosiddetto “Autunno Tedesco”, si chiudeva, con un notevole bilancio di morti, una stagione molto pesante della storia tedesca. La RAF avrebbe continuato ad esistere, tra periodi d’invisibilità e nuove azioni, fino al 1998, coinvolgendo una seconda e una terza generazione di militanti.
Nel 2007 viene negata la grazia a Christian Klar, RAF di seconda generazione, dal presidente della repubblica Kohler. Klar avrebbe comunque, di lì a pochi mesi, finito di scontare gli anni di detenzione a lui attribuiti: esce di galera nel 2008.
Quella grazia negata segna il vuoto di un perdono che ancora non c’è. Un cadavere non seppellito nel cimitero della storia tedesca.
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