Angoli. Precisamente quelli delle case, gli spigoli che si creano dall’unione di una facciata e l’altra. Angoli con marciapiede, meglio se molto stretto. Combinazione che ha accompagnato i miei primi anni di università, fino a diventare un rituale. La teoria del fermarsi negli angoli funziona con un pubblico selezionato, soggetto a questa dinamica senza esserne davvero consapevole in un primo istante. È cominciato tutto mischiando l’Università, l’Accademia Albertina – che si trova appunto su Via Accademia Albertina- e il bisogno di raggiungere la stazione di Porta Nuova, o Via Maria Vittoria. Per arrivarci bisogna passare per quella che noi torinesi chiamiamo Piazza Carlina, in realtà Piazza Carlo Emanuele II. Quella col palazzo con la stanza delle riunioni di Gramsci, sì, quella.
Nel mezzo, tre angoli. Uno in particolare, all’imbocco di Via Maria Vittoria.
Ci si ferma, per separarsi dopo una giornata in università, e, di colpo, comincia una conversazione. Argomenti lenti, complicati. Le discussioni agli angoli della strada presuppongono un bisogno di immobilità, vanno avanti per ore, dimenticando cene, coinquilini, e i treni regionali per rientrare a casa. Intorno va via la luce, si accendono i lampioni. Ma poco importa, se non ascoltare, abbracciare, coinvolgere gli amici che passano per caso, poi salutarli vedendoli allontanarsi di corsa. Saggi.
Il rito dell’angolo ha cercato in ogni modo di difendersi da questa definizione, ma ancora funziona. Quasi ogni giorno, prima un gruppetto, poi una semplice coppia, si fermava lì, in via Maria Vittoria. Mi sono chiesta svariate volte se lo si potesse evitare: no. A distanza di quasi tre anni ci siamo ritrovati ancora lì. Risate e ricordi, conversazioni lunghissime, di nuovo fermi all’angolo.
Torino è la capitale degli angoli.
Su uno dei piani dell’Accademia Albertina, posizionati con arbitraria casualità architettonica, c’è un bagno. Come tutti i bagni dell’edificio, è misto, con un lunghissimo lavandino rettangolare bianco che da anni resiste a colle, colori e lacrime, tre porte delle toilette, ma soprattutto una finestra. Non una porta-finestra, ma comunque abbastanza alta da poterci starci bene, di fronte, in piedi. Affaccia su Via Accademia, probabilmente dal 1833. Ha un davanzale, di marmo, abbastanza solido. Affaccia su via Accademia, si diceva, ma soprattutto affaccia sul palazzo rosso di fronte all’Accademia. Quello con i balconcini che sembrano dei piccoli cubetti rossi incorniciati da una sottile linea di bianco. Dal bagno si vede una bella massa di piante che sporge in modo prepotente dall’alto, come a voler gridare ai passanti di guardar all’insù, verso la Torino nascosta dei mille giardini pensili. Gli abitanti del palazzo stendono i panni e osservano con dedizione gli studenti che attraversano la strada, rigorosamente senza guardare, trasportando masse informi e pesantissime; soprattutto offrono le loro vite alla mercé di chi sappia appostarsi nel punto di osservazione giusto. Alla finestra giusta. Una finestra anonima, scudo contro i momenti di delusione, appoggio a lunghe chiacchierate nelle pause, tramite verso le vite degli altri. Le altre finestre sono tutte irraggiungibili, troppo in alto, senza una vista interessante. Questa no. Questa è come un elemento distaccato dal resto dell’edificio. E anche dalla realtà.
Una nuvola di piume che cade dall’alto, neve morbida, ovunque. Una battaglia di cuscini esplode all’improvviso. Cuscini di chi? Questa è una domanda che ormai non ha senso porsi. Siamo tutti a guardare con occhi pieni di curiosità, felici, stupiti. Forse è questa la sensazione di intoccabilità dei vent’anni? Sì. Fare una festa enorme, con più di cinquecento sconosciuti in un palazzo in centro a Torino, di quelli belli, residenziali, storici. Corso Vittorio. Le scale “a ballatoio”, con la ringhiera di ferro battuto, gli scalini lunghi di pietra verde e grigia, due porte per ogni pianerottolo. Quei palazzi dove ci si immagina abitino solo signori distinti sulla settantina, che girano per il centro in abito grigio, al guinzaglio un bel cane da caccia, compostissimo. Qui doveva esserci “una festa tra amici”, poi sconfinata in un evento social da quasi mille partecipazioni. Trascinata dagli amici dell’università, mi trovo anch’io nel mezzo, in un caos calmo degli ambienti. Dall’appartamento la festa invade velocemente il palazzo. Una cosa comunque sabauda, come ci piace dire a Torino. Comincia composta, ma poi si lascia andare. La gente che parla per le scale, birra in mano. Musica a volume altissimo in una stanza, conversazioni fitte in quella accanto. Mi trovo seduta in un piccolo tavolo di una cucina, tre caffettiere e una pentola piena di pasta al sugo. Non ho idea di chi possano essere le persone al tavolo con me, ma siamo tutti universitari, animi curiosi e avidi di discorsi sui massimi sistemi. Una robaccia da gente di sinistra, pare sia stato uno dei commenti all’articolo uscito l’indomani. Io la ricordo come una cosa sì caotica, ma bella. Come isolata dalla realtà fredda e composta che ci aspettava tutti fuori. In quell’appartamento, in quella festa, vivrà per sempre il mio giaccone a scacchi blu e nero. Rimasto ostaggio mentre un numero spropositato di poliziotti evacuava l’edificio, nemmeno fosse un attacco terroristico. Pace all’anima sua.
Torino è la cittadina del liberty, dell’architettura rigorosa ma delicata, color crema. Dei palazzi sobri, eleganti, tutti simili tra loro. Con quelle belle scale interne di marmi scuri o pietra, con le ringhiere di ferro battuto che portano ad ampi pianerottoli. Mi hanno sempre affascinata, ma il momento migliore è stato il poter avere finalmente accesso ai ballatoi interni. Quelli solo per i residenti, dove affacciano le porte degli appartamenti, incastonate nello spazio per farci stare giusto una persona per volta.
Il ballatoio, per sua natura, è semplicemente un camminamento, non un balcone. Non ci si può mettere nulla, nemmeno un tavolo, a meno di non essere l’inquilino dell’ultima porta, alla fine del passaggio: consapevole che nessuno dovrà mai passar oltre, egli dispone infatti di un intervallo speciale, una piccola superficie supplementare dove poter sistemare le sue cose. Occasionalmente mangiare per terra, seduto su un asciugamano, d’estate.
Di ballatoi ne ho conosciuti parecchi. Strettissimi e vertiginosi, larghi, pieni di fiori. Tra tutti questi, ce ne è uno in particolare. Magari non il più bello, sicuramente non il più sicuro. Tanto da richiedere l’aiuto paziente degli amici per poterlo attraversare. Una ringhiera nera, di ferro battuto, stabile. Sì e no un metro, niente di più: sembra una trappola mortale. Le vertigini. Quelle peggiorano tutto.
“Vengo a trovarvi, si si sono solo io. Qualcuno mi apre? Bene. Eh no fino al balcone non vengo, dal ballatoio non passo da sola. Tanto vi serve la chiave per aprire, no?”
Nemmeno 20 metri. Secondo, o forse terzo piano, comunque quello che a Torino è il piano nobile, i soffitti altissimi. Pavimento di pietra grigia. In quella casa ci ho passato quasi più tempo che nella mia. Un incubo. Ogni volta che un nuovo ballatoio ha una ringhiera alta, sento la meraviglia, la sicurezza. Saranno le vertigini.
Negli ultimi tre anni a Torino hanno chiuso ben più di 102 locali. Circoli Arci, sale concerti, club, centri sociali. Una minuziosa azione per eliminare ogni valvola di sfogo, di divertimento. Ciò che rimane resiste, si organizza. Cinque anni fa Torino era ancora piena di locali e per me cominciava la scoperta del drum and bass. Con un gruppo di compagni universitari dimenticati, in quella zona della città che non conoscevo, ma che prestissimo sarebbe diventata casa. Un cancello, una piccola fabbrica di tendaggi incastrata su Corso Tortona, zona a cavallo tra Aurora e Vanchiglia. Il lato sinistro, un trionfo di colore, graffiti sgargianti e una piccola porta, una scala ripida. Una volta dentro, una vista non eccezionale, ma spiazzante. Ciò che aveva l’aria di essere una doppia ala di una fabbrica ormai in disuso, per metà era coperta da graffiti, foto, come una piccola galleria d’arte. L’altro lato, con le grandi finestre ad arco, pieno di tavolini di legno colorati, ed un bancone. Famiglie, amici, a mangiare insieme e fare festa da una parte, il dancefloor dall’altra, in mezzo una sottile fila di colonne. Si sentiva una sensazione di tranquillità, di condivisione, senza le regole all’italiana del guardare, dover conoscere sempre. Una serata passata a saltare con degli sconosciuti in una stanza divenuta luogo familiare, incarnazione del comodo, del bello. La musica martellante, le luci verdi e blu, Il Samo per me è diventato il posto dove ci si stanca ballando, in cui ci si può sedere e bere una birra insieme ad un tavolino senza staccarsi veramente dalla festa. Da fuori, un anonimo negozio di tendaggi. È tutto ciò che resta ora.
Piazza Castello, la Galleria Subalpina, Baratti e Milano, il Cinema Romano. Congiungendo questi elementi ci si trova sotto i portici, in un angolino protetto dalle piccole strutture di negozi temporanei che fungono da parete protettiva per il portico esposto alla piazza. In quest’angolo, tra una Feltrinelli e un negozio di borse, Mulassano. Un bar-caffetteria, dal 1907, una piccola pietra preziosa incastonata dal tempo in questo portico. Come a voler rimandare il momento dello splendore, della vasta ricchezza così abbondante da diventare esteticamente tanto soffocante che l’occhio non può coglierla tutta insieme. All’esterno, due, al massimo tre tavolini con un paio di sedie. Piccoli bicchieri, caffè, aperitivi. Passandoci davanti bisogna alzare lo sguardo: questo è un bar che tende verso l’alto, strettissimo, una stanza appena. La facciata è tutta di vetro, e si può spiare l’interno: l’immenso bancone centrale, gli specchi alle pareti, le minuziose decorazioni art déco che riflettendosi creano una suggestione difficile da incontrare altrove. Mulassano è dove si va a prendere il caffè la domenica, la spremuta da bambini. E i tramezzini, sono nati qui. Disposti in una teca di vetro, presi con la pinza e appoggiati sul piattino: sulla delicatezza non si transige.
I piccoli tavolini anche all’interno, disposti lungo una parete: il rifugio per l’inverno.
Sul bancone troneggia quella che pare essere una fontanella: un bicchierino per parte, due piccoli bracci da cui gocciola acqua. Niente di fenomenale, ma incastonato in questa composizione di specchi, bancone di marmo, decorazioni dorate, piante, spicca nella sua stranezza. Inevitabile.
Tutto risplende. Prendere il caffé appoggiandosi al marmo rosa e grigio del banco è il concedersi un piccolo lusso.
Si potrebbe definire una mini wunderkammer, ma in realtà non raccoglie oggetti: è una saggia combinazione di intarsi, soffitti a cassettoni, ferro battuto. Racchiude una sensazione di palazzo nobile, di casa principesca, un luogo nel quale magari quasi non ci si abiterebbe mai, ma in cui vorresti poter passare qualche ora ogni tanto, in solitudine.
Il controviale. Struttura ignota ai forestieri al volante, è invece cara e sacrosanta per l’automobilista torinese, stufo di dover rallentare, impaziente di potersi muovere.
Il controviale suscita ammirazione e timore. L’utilità diventa ovvia non appena ci si addentra in città: ad ogni grande viale, o corso, corrisponde un controviale per parte. L’unica divisione tra viale e controviale è una fila di alberi, talvolta con una fila di parcheggi, cordoli e fermate del tram. Chi desidera proseguire sul viale per chilometri, può farlo senza l’incombenza di prestar costante attenzione a svolte, immissioni, sorpassi dell’ultimo minuto per svoltare in una via laterale. Chi usa le vie laterali, chi sa che dovrà presto cambiare corso, o semplicemente chi non se la sente, usa il controviale. L’errore più comune, commesso da chi non è abituato a questa struttura, è finire a guidare nella carreggiata dei tram. Fortunatamente ironici casi isolati. Il torinese vero non sbaglia mai, nasce già con il concetto del controviale ben chiaro in testa. Guidare a Torino è infatti quasi un esercizio fisico, un costante stato di concentrazione pura. Non tanto per la viabilità, i cui ritmi il torinese conosce a memoria. La concentrazione è focalizzata sull’auto di fronte, soprattutto ai semafori. Partirà immediatamente? Questo stress nel controviale non c’è, lo si prende con una filosofia diversa. Nel controviale si va avanti, o lentamente si gira a destra o sinistra. La maggior parte delle volte il problema sono i pedoni, soprattutto quelli che bivaccano nella zona di Porta Palazzo durante il mercato, quando il controviale diventa un’infinita partita a scacchi tra chi passa prima, chi s’infila, chi sorpassa. È quello spazio quasi sicuro in cui tutto un po’ rallenta, un ritmo dettato dalla necessità di trovare la svolta giusta, di evitare il caos stressante del viale principale. Il controviale è quasi una figura amica, che accompagna gli spostamenti. Quando, guidando in grandi corsi di altre città, si vorrebbe fuggire, ecco che il pensiero volge malinconico al mitico controviale torinese.
La mia prima settimana di Università, dopo il trasloco a Torino: urbanistica ed un inesistente senso dell’orientamento. Torino è costruita secondo uno schema talmente logico da creare precedenti per perdersi in qualsiasi altra città che non parta da una struttura romana cardo-decumana. Se ci si accorge di aver sbagliato strada la cosa più semplice da fare è, semplicemente, girare l’angolo. Tutto questo schema di quadrati funziona fino al momento in cui non si aggiungono un paio di piccole variabili al nostro problema. A Torino ci sono due fiumi: il Po e la Dora. Il fato ha voluto che la mia casa si trovi al di là della Dora, zona Aurora. Separata dal resto della città da una serie di ponti. Per una coincidenza ancora più (tristemente) ironica, casa mia è situata geometricamente nello spazio tra i due ponti. Aggiungiamo che la strada tra casa mia e la mia vecchia università è tutta dritta. Letteralmente. Presuppone solo il passaggio su uno dei due ponti. Lunedì mi sveglio, esco titubante, un po’ in ritardo. Prendo il ponte, quello alla mia destra. Cammino, mi guardo intorno: non posso essere tanto lontana, in fondo i due ponti sono vicini. Poi qualcosa mi distrae, mi confondo: eccomi a esplorare i meandri di Porta Palazzo, il mercato. Ovviamente l’università è da tutt’altra parte. Il risvolto permanente della vicenda si fa sentire ogni volta che ritorno, anche se ormai a quell’Università non vado più. Esco. Sinistra. Ponte. Salita. Centro. L’Università è lì, di fronte a me.
Era Gennaio, fine Gennaio. Era uno di quei giorni in cui avrei dormito da un compagno di università. Ancora facevo spola tra la provincia e Torino. Rimasugli di desideri adolescenziali e una carica inaspettata di iniziativa: una sedia al centro di una stanza e una ciotola piena di decolorante per i capelli. La cosa è andata approssimativamente così: in un bell’appartamento su Corso Regina, in una stanza con le pareti azzurre, i miei capelli stavano diventando un’informe massa di giallo. L’odore acre. Il decolorante assomiglia ai preparati per le torte, come quelli della Cameo: prendi la busta, taglia, aggiungi il liquido. Son gesti talmente meccanici che poi l’odore è spiazzante, nulla di simile alle torte.
Pennellate e pennellate, neanche senza esagerato criterio. Lavaggio veloce.
Magenta. Da un uniforme e tendenzialmente crespo e cespuglioso castano a un magenta brillante. Dopo quella che sembrava un’ora di cottura al microonde per effetto del decolorante – condita da un’apprensiva paura di diventare la sosia riccia di Patti Pravo o una qualunque Barbie – per poi passare a tirar fuori di nuovo il pennello per stendere il magenta. Via, avanti il prossimo. Verde, se non ricordo male. O rosa? Insomma, tre studenti, tre colori. Poi a turno le teste sotto l’acqua, nel lavandino più piccolo della città. Una doccia imprevista, un’asciugatura fatta in fretta, l’eccitazione per il cambio. Magenta. L’origine di otto mesi di cambiamenti costanti, dal verde al blu, al rosa, al lilla. Liberatorio. Otto mesi di sguardi intensi, perplessi. Giudizi. Un sacco di controllori GTT sul bus, affannati per assicurarsi che sì, quello era davvero un abbonamento pagato.
Liberatorio. Magenta. Otto mesi dopo, tredici decolorazioni dopo, addio capelli.
È stato bello.
1694. 1997. Questi due anni segnano un dettaglio del panorama di Torino, uno di quei dettagli che a primo acchito sfugge. La cappella della Sindone, la cosiddetta Cappella del Guarini. Nel 1694 il cantiere viene ultimato, la città può finalmente godere di questo spettacolo architettonico che spunta trionfante su Piazza Castello. La Cappella è incastonata tra Palazzo Reale e il Duomo, creando un luminoso ambiente di congiunzione. Una generazione intera, la mia, quella dei nati negli anni ’90, ha aspettato fino al 2018 per poter finalmente veder scomparire le impalcature.
Una notte del 1997, un incendio. Chi era a Torino se lo ricorda: un’alta coltre di fumo, pompieri ovunque. Un disastro. Il piccolo gioiello della piazza danneggiato in maniera così violenta da necessitare di ben undici anni di restauro.
Passando a piedi o in autobus da Piazza Castello, l’occhio vaga da Palazzo Madama – sulla destra- a Palazzo Reale, bianco, centrale. Con un’impalcatura nell’angolo in alto a sinistra. Di colpo qualcosa cambia: durante un rituale transitar da una parte all’altra della piazza, manca un elemento. L’impalcatura.
I primi mesi code infinite, prenotazioni. Un’intera generazione a guardare, nasi in sù, questo edificio che spunta come uno di quei riccioli di panna sulle torte. In realtà è più di una cappella, sono ben due le meravigliose combinazioni di genio architettonico che si vanno a fondere insieme.
Vista dall’esterno, color crema, come fosse stata adagiata a piccoli strati con un pennello. L’interno di una bellezza devastante. Un capolavoro di marmi, in particolare quello nero. Rarissimo, luminoso ipnotico. Ricopre le superfici come un liquido scurissimo.
Per vedere la cupola bisogna stare a testa verso l’alto. Fare un paio di piroette, cercare di cogliere i dettagli. Archi, finestre, particolari dorati. Un gioco di luce complicatissimo, fa sembrare questa cupola tendere verso l’infinito. Non cadere guardandola, è quasi impossibile.
Guarino Guarini. Il Barocco. Sabaudade.
Luisa Barbero è di Torino, ma rimbalza per l’Europa da sempre, senza davvero piantare le tende. Al momento berliner, un po’ designer, un po’ esploratrice, convive con una monstera, miracolosamente ancora in vita, e nel ricordo di un amatissimo ficus.
Guarda la vita un po’ con, ma anche senza occhiali.
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