“A scientist is what I am. It’s who and what I am, fundamentally, beyond being a woman, beyond being a wife or beyond being a mother. It’s just who I am.”
“Una scienziata è ciò che sono. È chi e cosa sono, sostanzialmente, al di là dell’essere una donna, al di là dell’essere una moglie o al di là dell’essere una madre. È semplicemente chi sono io.”
Sylvia Earle a Peggy Orenstein, The New York Times (Champion of the Deep, 23 giugno 1991)
“Spegnete le luci, per favore, vorrei un oceano completamente buio”.
Buio. Silenzio, solo il suo respiro profondo, oramai perfettamente sopraffatto da quello del mare.
Una miriade di luci vicine, lontane: sembrano stelle a perdita d’occhio. Confondono lo sguardo e danno una nuova faccia alle tenebre. Si tratta in realtà di organismi in grado di produrre luce nell’oscurità delle profondità oceaniche, dove l’illuminazione del sole non sempre arriva. Stranissime creature abitano queste acque e si vedono nuotare ovunque. In lontananza si scorge un pesce dai denti talmente lunghi e affilati che non riesce a chiudere la bocca, con una specie di lanternino che gli penzola dalla fronte. Dalla sabbia spuntano dei coralli molli dalla forma spiralata, quasi fosse stata scarabocchiata da qualcuno al telefono, nemmeno Jules Verne avrebbe mai potuto descriverla. Tutto si muove a una lentezza surreale, in una segreta danza abissale i cui passi non sono mai stati scoperti. La Dr Sylvia Earle contempla questo spettacolo in immacolato silenzio, consapevole di essere la prima donna della storia a camminare sul quel fondale, a 351 metri sotto il livello del mare. È il settembre del 1979 e la biologa marina, all’età di 44 anni, si sente come una bambina al parco giochi. Se ne sta immobile nel suo Jim Suit, uno scafandro bianco che le ha permesso di immergersi fin laggiù proteggendola dall’aumento vertiginoso della pressione. Più che una muta sembra una tuta da astronauta rigida, con un enorme oblò all’estremità della testa e delle pinze al posto delle mani. In corrispondenza delle articolazioni presenta dei giunti rotondeggianti che le donano un aspetto piuttosto paffuto quando si muove, ma senza farle perdere alcuna grazia. La donna sbatte le palpebre come riavutasi ed elegante si unisce alle danze. Per due ore e mezza volteggia, quasi in trance, in questo mondo sconosciuto, ma che sembra non curarsi della sua presenza. Non dimenticherà mai questa incredibile avventura.
La passione di Sylvia Earle per il grande blu iniziò fin dalla sua prima infanzia, quando trascorreva le estati con la sua famiglia a Ocean City, nel Maryland, lungo la costa orientale degli Stati Uniti. Nelle giornate in spiaggia la piccola Sylvia amava correre su e giù per l’assolata battigia e osservare scrupolosamente granchi, alghe o addirittura qualche fortuita creatura più grande regalatale dalle onde. Nel 1948 gli Earle si trasferirono in Florida, più precisamente a Dunedin, una piccola cittadina vicino a Clearwater e la giovane passò dalle innocenti passeggiatine in spiaggia ad avere l’immenso Golfo del Messico come giardino sul retro. Allora l’ambiente marino era ancora pressoché incontaminato e le acque cristalline offrivano un paradiso tropicale con una delle biodiversità, il parametro che misura il numero e la varietà di specie viventi per unità di spazio, più elevate al mondo.
A sedici anni Sylvia, per la prima volta, utilizzò un diving helmet per respirare sott’acqua, uno di quei caschi metallici che si vedevano addosso ai palombari: da che la sua testa fu completamente sommersa, non riemerse mai più del tutto. Si diplomò alla scuola superiore e ottenne il diploma al St. Pietersburg Junior College. Grazie ai suoi successi scolastici e a una ferrea determinazione, si guadagnò ben presto una borsa di studio per la Florida State University, dove iniziò i suoi studi scientifici e ottenne un Bachelor of Science. Successivamente passò alla Duke University per un Master, e fu proprio durante quest’ultimo, nell’anno 1953, che il suo professore, il Dr Harold Humm, riuscì ad accaparrarsi due dei sofisticatissimi Aqua-lung progettati da Jacques Cousteau. Erano i primi set per la subacquea messi in commercio e Sylvia fu una dei due fortunati studenti a poterli utilizzare. L’apparecchiatura era piuttosto minimale, con una bombola d’aria compressa collegata a un tubo tramite una speciale valvola che permetteva all’aria di fluire a una pressione ridotta, simile a quella atmosferica. Una volta imboccata l’estremità del tubo, l’Aqua-lung permetteva di poter respirare liberamente sott’acqua, senza dover risalire. Si poteva finalmente nuotare fra i pesci come i pesci, inseguirli senza finire il fiato e spiare le creature dell’oceano come loro pari grazie al prezioso dono del tempo. Sylvia non rimase affatto immune alla sua esperienza, e la sua divenne la prima ora di una vita passato sott’acqua.
Erano gli anni ‘50 ed essere una donna con aspirazioni differenti dal trovare un buon marito e metter su famiglia era un atto pioneristico, di rivoluzionaria fatica. Fu solo dopo una lunga ricerca e qualche ingiustamente negata opportunità che Sylvia ottenne una borsa di studio per un dottorato proprio con il Prof. Humm, con in progetto la creazione di un catalogo sulle alghe del Golfo del Messico. “Capire la vegetazione è il primo passo per capire qualsiasi ecosistema” sostenne in più occasioni per spiegare la sua fascinazione verso tali organismi. Per la sua tesi passò moltissime ore sulle spiagge assolate della Florida a raccogliere, disegnare, descrivere e catalogare ogni specie di alga bruna, una delle tre classi in cui vengono suddivise le alghe (verdi, rosse e brune), che potesse incontrare. Così silenziose, sottovalutate, eppure così fondamentalmente importanti, le alghe negli oceani sono responsabili della produzione di più della metà dell’ossigeno che viene immesso nella nostra atmosfera e del conseguente assorbimento di moltissima anidride carbonica. Possono avere inoltre migliaia di forme diverse, dalle microalghe, essenziali eppure invisibili all’occhio, al kelp, alto anche qualche metro e che forma le cosiddette foreste marine. Le alghe affascinarono moltissimo Sylvia, diventando come dei fiori fra le sue mani, pronti a farsi conoscere petalo dopo petalo.
Il completamento del suo dottorato richiese più di dieci anni, un tempo durante il quale il suo catalogo acquisì un plus di valore estremamente raro per il periodo, in cui lo studio del mondo marino era ancora immaturo: il valore della temporalità. Da quando Sylvia iniziò, nei primi anni ’50, fino al 1966 infatti, anno in cui si dottorò in botanica alla Duke University, avvennero molteplici cambiamenti globali che si riflessero sulle acque: la sua tesi fu in grado di catturarli. Il progresso tecnologico aveva portato con sé un nuovo e amplificato sfruttamento del pianeta e gli ecosistemi iniziarono lentamente a modificarsi. La Florida stava diventando sempre più importante nella produzione agricola e la necessità di pesticidi e diserbanti sempre più potenti portò con sé un progressivo inquinamento dei canali e dei fiumi che, si sa, presto o tardi si riversano in mare. I primi mastodontici hotel iniziavano pian piano a far ombra alle spiagge, mentre i pescherecci erano protagonisti di un commercio fiorente. Questa impennata di meraviglioso, ottimistico progresso non conosceva ostacoli o preoccupazioni: un pianeta dalle acque cristalline, custode di tesori infiniti, non fermò i progetti di esplorazione petrolifera e il Golfo del Messico si rivelò al mondo come una miniera di oro nero.
Nel 1964 venne proposto a Sylvia Earle di partecipare a una campagna oceanografica di sei settimane nell’Oceano Indiano, a bordo della nave Anton Bruun. Le donne erano considerate malasorte a bordo, e benché fosse assolutamente qualificata, la sua presenza poteva essere vista dai più come un potenziale ostacolo e non come una preziosa risorsa. Lei non si fece intimidire: si era abituata, già dai tempi delle lezioni universitarie, a essere in assoluta minoranza, e partì dunque da Mombasa, fra lo stupore mediatico, sola a bordo di una nave con 70 uomini.
I giornali locali titolarono “Sylvia Earle salpa con 70 uomini, ma non si aspetta di avere problemi”. Fortunatamente l’acqua non fa distinzione di genere e il mal di mare colpisce lo stomaco, non i genitali. L’umano si conforma alla vita in alto mare con uniformità e così l’esperienza fu un successo e l’inizio di una cascata di opportunità per nuove spedizioni, viaggi, collaborazioni e riconoscimenti nel mondo dell’oceanografia. Sylvia, da quel momento in poi, iniziò a cavalcare l’onda che stava trascinando tutto il mondo occidentale nel futuro, partecipando a campagne oceanografiche alle isole Galapagos, in Cile, a Panama, che l’avrebbero fatta affermare sempre di più.
Eppure, non si accontenta. Dichiara in alcune interviste che studiare l’oceano da una nave è come cercare di conoscere New York City volandoci sopra con un elicottero. Per poterne sviscerare l’anima è necessario invece tuffarsi nella sua musica, scivolare attraverso i suoi vicoli, e ascoltarla, annusarla, osservarla da dentro. Lo stesso bisogna fare con l’oceano. E’ meraviglioso vedere un corallo, un pesce, un gamberetto o una qualsiasi creatura del mare raccolta a bordo di una nave, ma osservarlo mentre si muove indisturbato nel suo ambiente naturale, con i suoi colori originali restituiti dal riflesso dell’acqua, è come assistere a un concerto jazz in un club di New Orleans.
Verso la fine degli anni ‘60 l’uomo stava puntando la Luna, ma intanto piccoli passi venivano compiuti anche verso le profondità oceaniche. La NASA mandava minuscoli gruppi di astronauti a vivere in un ambiente estremo, senza possibilità di tornare indietro a piacimento, e tuttavia non si conoscevano gli impatti psicologici di tale isolamento. Contemporaneamente, la ricerca del petrolio investiva molti soldi e risorse per lo studio oceanografico, nel tentativo di arrivare sempre più giù, verso gli abissi. Fu proprio Sylvia Earle che nel 1968 stabilì il record di immersione in solitaria dentro il sommergibile Deep Diver, discendendo a 1000 metri di profondità al largo delle isole Bahamas. L’interesse per gli habitat oceanici e il desiderio di esplorazione portarono, nel 1969, alla creazione di un progetto di altissimo valore scientifico, finanziato da più entità, tra cui la NASA stessa. Si chiamava progetto Tektite e prevedeva l’affondamento di un habitat a circa 15 metri sotto il livello del mare. Al suo interno un team ristretto di persone poteva vivere comodamente e uscire a lavorare sott’acqua senza dover ritornare in superficie o effettuare pause di decompressione fra un’immersione e l’altra, dilatando le ore di studio in campo come mai prima d’allora.
L’habitat Tektite venne immerso nella baia di Great Lameshur, a largo dell’isola di Saint Johns, nell’arcipelago delle Isole Vergini Americane. Venne posizionato proprio di fianco a una coloratissima e vitale barriera corallina, ricca di organismi e dove la biodiversità, in pochi metri quadrati, era talmente elevata che si potevano passare ore sull’osservazione di pochi centimetri. La Dottoressa Sylvia Earle, che quell’anno contava già più di 1000 ore di immersioni alle sue spalle, era sicuramente un elemento estremamente qualificato per partecipare al programma, ma venne scartata, in quanto le donne non furono ammesse alla missione. Sylvia non si scoraggiò, ma anzi, si ripresentò ancor più determinata l’anno seguente, per il Tektite II – Missione 6, e venne selezionata come leader della prima missione subacquea tutta al femminile, che contava in totale cinque scienziate, le acquababes, come vennero soprannominate infelicemente dai media.
Nonostante le scarse aspettative nei riguardi di questa spedizione, le ricercatrici utilizzarono l’oceano come un gigantesco laboratorio nell’arco di due settimane, e furono il gruppo che spese più tempo di tutti in immersione, vivendo in una sorprendente, appassionata armonia. Impararono a orientarsi intorno all’habitat ad occhi chiusi, riconoscendo non più soltanto una specie di pesce piuttosto che un’altra, ma i singoli individui e le loro tane. Con un totale di 86 ore spese nella barriera corallina, Sylvia studiò la relazione fra i pesci erbivori e la crescita delle alghe di cui si nutrono, provando che più i pesci brucano, più la vegetazione marina cresce veloce e abbondante. Sebbene il paternalismo mediatico non cessò mai del tutto, la produttività così elevata manifestata dal team della Tektite II – Missione 6 riuscì ad aprire una piccola breccia nel mondo scientifico, la NASA stessa si dichiarò più propensa a considerare il reclutamento di astronaute donne (benché dovessero passare ancora diversi anni prima che ciò di fatto avvenisse), e le carriere stesse delle acquanaute decollarono.
Sylvia iniziò a raccontare la sua esperienza, e più raccontava più le parole sembravano importanti, quasi trascinavano gli ascoltatori nelle sue memorie e permettevano loro di guardare attraverso i suoi occhi, di rivivere in prima persona i suoi attimi fluttuanti nella barriera corallina, liberi di emozionarsi per l’esperienza appena tramandata. Si rese conto che la sua era diventata una testimonianza del tesoro nascosto e sempre più in pericolo che si cela sotto la superficie dell’acqua. Comunicare la bellezza, capì, era il primo passo verso la conservazione di un bene tanto prezioso. Iniziò così un nuovo capitolo fatto di conferenze, articoli, apparizioni pubbliche, ma anche di nuove spedizioni, che la condussero alle Galapagos, in Cina e di nuovo nell’Oceano Indiano, questa volta come capo missione. Nel marzo del 1977 il WWF la invitò a San Francisco per tenere un discorso a una folla di 500 persone sulla conservazione degli oceani. Il suo intervento sulle isole Palau le permise di raccogliere donazioni per più di 100.000 dollari in soli 45 minuti. Più imparava, più si rendeva conto di quanto fosse fondamentale che tutti sapessero che l’oceano non è una risorsa infinita da cui poter attingere senza considerazioni, o dove poter depositare i rifiuti non smaltibili, ma un cuore malato, che si stava deteriorando a una velocità senza precedenti. Desiderava conoscerlo sempre meglio, spingersi sempre più in profondità per provare a salvarlo. Il progresso tecnologico che tanto stava nuocendo al pianeta poteva venire in aiuto alla sua missione di salvataggio e nel 1981 fondò la Deep Ocean Technology con Graham Hawkes, l’ingegnere che aveva lavorato alla progettazione del suo Jim Suit, seguita l’anno successivo dalla compagnia sorella Deep Ocean Engineering. I due iniziarono a progettare sottomarini e tecnologie al sostegno dell’esplorazione subacquea e ben presto lanciarono l’avanzatissimo Deep Rover, un sottomarino a posto singolo simile a un gigantesco palloncino di vetro con le braccia, in grado di raggiungere fino a 1000 metri sotto il livello del mare. Fu Sylvia Earle stessa a portarlo sul fondo del Crater Lake, il lago vulcanico più profondo degli Stati Uniti.
Intanto si consumavano gli anni ‘80, fra l’opulenza dei litri di lacca e clorofluorocarburi (CFC), la plastica fluorescente e il progressista “usa e getta”, ma soprattutto il buco dell’ozono e le ulteriori avvisaglie che qualcosa era proprio sfuggito di mano e bisognava fare marcia indietro. Sylvia era nel pieno dei suoi quarant’anni e si districava con equilibrio fra esplorazioni, ricerche scientifiche e interventi pubblici assolutamente brillanti, in cui era in grado di ipnotizzare tutti con i suoi racconti sulle meraviglie subacquee. Nel 1990 si trovò a un apice che convergeva tutti i suoi talenti quando le venne offerta la carica di direttore scientifico del NOAA (National Oceanic and Atmospheric Administration). Il NOAA è un ente federale americano che si occupa anche di oceanografia ed ecosistemi marini, ed è uno degli enti di riferimento quando si parla ad esempio dei cambiamenti climatici. Sylvia fu la prima donna a ricoprire questa posizione, raggiungendo un nuovo importante traguardo contro la discriminazione femminile nel mondo scientifico, e un passo avanti fondamentale per la sua missione di salvaguardia oceanica. Questo almeno, fu quello che pensava quando accettò l’incarico, con il cuore colmo di aspettative. Aspettative che l’amministrazione Bush non tardò però a deludere: dopo meno di due anni di servizio Sylvia si dimise, il 31 gennaio del 1992, affermando che come privata cittadina sarebbe stata in grado di dire e fare ciò che più sarebbe stato utile per la tutela del mare e dei suoi abitanti, invece di continuare a sostenere ciò che è più conveniente per un membro del governo americano. Così fondò la Deep Ocean Exploration and Research e tornò, instancabile, ad occuparsi delle sue grandi passioni.
Nonostante fosse ormai sulla soglia dei 60 anni, la sua energia pareva non solo inesauribile, ma quasi accrescersi a mano a mano che il pianeta si manifestava sempre più in pericolo. Il suo amato Golfo del Messico era oramai sempre più sofferente, distrutto dalla pesca eccessiva, dalle spiagge sovraffollate e completamente modificate per mano dell’uomo, inquinato dall’intensiva attività agricola che sversava sempre più pesticidi nelle acque. Alle foci del fiume Mississippi, una sorgente di inquinamento che assorbiva gran parte degli scarichi agricoli nella valle, si iniziarono ad accumulare, in particolare, sostanze ricche di azoto, che nutriva le alghe del golfo. Sebbene esse siano fondamentali, quando non effettuano la fotosintesi clorofilliana consumano ossigeno per respirare, proprio come la gran parte degli esseri viventi. Le loro concentrazioni iniziarono a crescere esponenzialmente, più il Mississippi riversava azoto più loro si moltiplicavano, consumando tutto l’ossigeno dell’acqua e provocando le cosiddette dead zone, ovvero terribili aree di mare dove la vita cessava, soffocata dalla mancanza di ossigeno. Più in generale il mondo sembrava andare verso l’autodistruzione, con un consumo sempre più elevato di combustibili fossili che stava aumentando a un ritmo mai visto prima i livelli di anidride carbonica nell’aria: Sylvia si rimboccò le maniche. Si unì al National Geographic e iniziò a germogliare in lei un’idea di speranza, ma anche di riscatto, che si tramutò ben presto nella fondazione del progetto Mission Blue e le valse un TED price nel 2009. Si trattava di uno dei suoi progetti più rivoluzionari e ha in sé la spaventosa potenza del cambiamento. Esso prevedeva la creazione di una rete di aree marine protette, designate in quelli che lei stessa definì degli hope spots. Questi ultimi altro non sono che delle zone selezionate per il loro ruolo ecologico fondamentale, che se salvaguardato e implementato potrebbe garantire il futuro ripristino degli oceani e aiutarli a sopportare le pressioni esercitate dalle attività umane. Dei luoghi di conservazione, ma anche di ritrovata speranza e forza.
Pochi mesi dopo il suo celebre Ted Talk, tuttavia, un colpo straziante colse il mondo impreparato, quando la Deepwater Horizon, una piattaforma offshore al largo della Louisiana, esplose mentre scavava un pozzo a 1500 metri di profondità. Per quasi 90 giorni fuoriuscirono circa 150 mila litri al giorno di greggio e ci vollero almeno cinque tentativi falliti prima di riuscire a chiudere il pozzo, mente la marea nera che si infranse sulle coste della Louisiana continuava ad ingrandirsi. Vennero sversate più di 500.000 tonnellate di petrolio e l’esplosione della Deepwater Horizon divenne il disastro ambientale più grave della storia americana. Sylvia Earle venne chiamata sul posto per valutare l’impatto ambientale di una tale catastrofe. La devastazione era un parametro ridondante, il suo amato Golfo del Messico sembrava perduto e l’umanità era spettatrice rassegnata di una fine cui sembrava non avrebbe mai fatto seguito un nuovo inizio. Sylvia decise che questa doveva essere la ragione per incrementare gli hope spots e lavorare ancora più intensamente alla sua Mission blue: ancora una volta si dimostrò vulcanica. Dal 2009 al 2016 le aree marine protette negli oceani aumentarono dall’1% al 4%, grazie al suo certosino lavoro di studio, raccolta fondi e soprattutto di comunicazione, compiuto con il suo team.
Oggi Sylvia Earle ha 85 anni e non si ferma un attimo. Forte è il suo impegno per la salvaguardia del cuore blu del nostro pianeta e dell’essere umano. La sua energia è quasi magica. Il suo aspetto non tradisce il suo ruolo di testimone del cambiamento del mondo nell’ultimo secolo, ma il suo spirito rivela una speranza giovane, che racchiude il segreto di una nuova nascita, una madre sincera che guarda ai fatti con durezza, ma ha in sé la dolcezza e la determinazione di provare a rendere le cose migliori.
And so, I suppose you want to know what my wish is. I wish you would use all means at your disposal — films, expeditions, the web, new submarines — and campaign to ignite public support for a global network of marine protected areas — hope spots large enough to save and restore the ocean, the blue heart of the planet. How much? Some say 10 percent, some say 30 percent. You decide: how much of your heart do you want to protect? Whatever it is, a fraction of one percent is not enough. My wish is a big wish, but if we can make it happen, it can truly change the world, and help ensure the survival of what actually — as it turns out — is my favourite species; that would be us. For the children of today, for tomorrow’s child: as never again, now is the time.
E così, suppongo che ora vogliate sapere qual è il mio desiderio. Vorrei che voi usaste tutti i mezzi a vostra disposizione — filmati, spedizioni, il web, nuovi sommergibili — in una campagna capace di suscitare consenso popolare ad una rete di aree marine protette, punti di speranza grandi a sufficienza per salvare e ripristinare l’oceano, il cuore blu del nostro pianeta. Grandi quanto? Secondo alcuni, 10 percento; per altri, 30 percento. Decidete voi quanto del vostro cuore vi va di proteggere. Comunque decidiate, una frazione dell’1% non può bastare. Il mio è un grande desiderio, ma se solo ce la facessimo, potrebbe realmente cambiare il mondo, e aiutare ad assicurare la sopravvivenza di quella che si rivela essere la mia specie preferita — e cioè noi stessi. Per i bambini di oggi, per i figli del domani, mai come ora, è giunto il momento.
Sylvia Earle a conclusione della sua Ted Talk, 2009
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Wale Café
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