Illustrazioni di Ivano Talamo
Pareti di vetro proteggono una montagna di capelli in una delle sale del Memoriale di Auschwitz. Sono capelli biondi, rossi, castani, neri, grigi, bianchi. E sono solo due delle otto tonnellate di capelli ritrovate il 27 gennaio 1945, quando l’Armata Rossa liberò il campo. Adesso, sono ammassati davanti agli occhi dei visitatori, a testimonianza che quello che è successo è vero, e che è stato fatto a esseri umani.
Ci sono anche migliaia di valigie l’una sull’altra e una stanza piena di stoviglie. Le scarpe conservate ammontano a circa 40.000 paia: il numero di prigionieri uccisi in quattro giorni. E poi contenitori cilindrici di latta vuoti, con il simbolo del teschio e il nome del veleno, Zyklon B: granuli di acido prussico (cianuro di idrogeno) utilizzato originariamente come antiparassitario e disinfettante, soprattutto per uccidere i topi nelle stive delle navi. Per le SS si rivelò uno strumento di sterminio ideale, che eliminava in poco tempo un gran numero di persone (circa 700 alla volta in ogni camera a gas). Dal 1942 al 1944 ne furono ordinate più di sette tonnellate, con lo scopo di accelerare i tempi della Soluzione Finale della questione ebraica, come fu deciso nel gennaio del ’42 durante la Conferenza di Wannsee, quando rappresentanti delle SS (Schutzstaffel), della Gestapo, della cancelleria e di alcuni ministeri tedeschi si riunirono presso l’Ufficio Centrale della Sicurezza del Reich, in una villa della periferia berlinese. In realtà, la Soluzione Finale era iniziata già nel 1941, con l’invasione dell’Unione Sovietica: tutti i soldati tedeschi avevano l’ordine di eliminare gli ebrei incontrati sul loro cammino.
Auschwitz era il più grande complesso di lager della Seconda Guerra Mondiale. Fu costruito a circa 45 chilometri da Cracovia, in Alta Slesia, regione che Hitler aveva annesso al Terzo Reich dopo l’occupazione della Polonia, il primo settembre del 1939. Una delle priorità del Führer era quella di liberare lo Spazio Vitale di cui aveva bisogno la razza superiore ariano-tedesca. I polacchi dovevano essere imprigionati o spinti verso Est. Il complesso, per il quale sono stati “liberati” circa 40 chilometri quadrati, era formato da tre campi e 45 sottocampi. All’interno di quest’area avevano sede anche alcune aziende, dove i prigionieri venivano sfruttati. Il campo principale si trova nei pressi della città di Oświęcim (Auschwitz in tedesco). Gli ebrei la chiamavano Oshpitzin, che deriva da ushpizin, “ospite” in aramaico. L’area fu scelta per motivi economici e strategici. Innanzitutto, perché vi si trovavano le caserme pre-belliche, quindi blocchi in muratura già costruiti. Inoltre, era lontana dal centro abitato: ciò garantiva la possibilità di espandersi e di rimanere nascosti. Infine, la città godeva di un’efficiente rete di comunicazione e di un importante snodo ferroviario. Auschwitz I nacque come campo di concentramento, non di sterminio. Negli anni divenne principalmente il centro amministrativo del complesso. Fu aperto il 14 giugno del 1940, quando arrivò il primo carico di deportati: prigionieri politici polacchi e criminali recidivi tedeschi provenienti dal campo di Sachsenhausen, in Germania. All’entrata, sul cancello di ferro, troneggia la scritta Arbeit macht frei, il lavoro rende liberi. Nel lager principale c’era posto per circa 10 mila nemici veri e presunti del Reich, destinati a una prigionia a tempo indeterminato, al lavoro forzato e, nel caso di alcuni gruppi, alla morte. Fu costruita una camera a gas provvisoria, sotto il blocco dei reclusi, il blocco 11. In seguito fu installato un vero e proprio crematorio in un edificio separato. Nel blocco 10, i medici nazisti sfruttavano i detenuti come cavie per i loro esperimenti: il dottor Josef Mengele, soprannominato “l’angelo della morte”, torturava i bambini, mentre il dottor Karl Clauberg iniettava alle donne sostanze chimiche nelle tube di Falloppio, per sterilizzarle. Allo stesso scopo, gli uomini venivano sottoposti ai raggi X nel campo di Auschwitz II, a Birkenau. I nazisti cercavano un metodo per lo sterminio biologico, per abbassare i costi del genocidio. I due blocchi erano separati dal cortile della morte, circondato da alti muri, dove i prigionieri venivano fucilati.
Nell’ottobre del 1941, i prigionieri di Auschwitz I cominciarono a costruire le baracche del secondo campo, situato a tre chilometri dal primo, nei pressi della città di Birkenau, in polacco Brzezinka, che significa “il paese delle Betulle”. Questo era destinato a essere il campo di sterminio del complesso. Recintato con filo spinato doppio ad alto voltaggio, era diviso in lager A (maschile) e lager B (femminile) ed era composto per la maggior parte da baracche di legno e da qualche blocco di mattoni, rubati alle case dei polacchi evacuati. Chi entrava a Birkenau non aveva speranza di sopravvivere. Ben presto, i deportati capirono che il lavoro non li avrebbe resi liberi: non era altro che un diverso mezzo di sterminio. L’unico modo per uscire da quel posto era attraverso il camino delle fornaci.
Il terzo campo fu costruito nell’ottobre del 1942 vicino a Monowitz (Monowice in polacco), a sette chilometri da Auschwitz, per la detenzione dei prigionieri assegnati al lavoro forzato nello stabilimento di gomma sintetica Buna-Werke, creato da una delle più grandi aziende tedesche, la I.G. Farben. Vi transitarono circa 35 mila persone, tra cui Primo Levi.
Dopo i primi deportati da Polonia, Russia, Germania e Cecoslovacchia, nel 1942 arrivarono treni caricati anche in Francia, Olanda, Belgio, Jugoslavia e Norvegia. In vagoni piombati e con poche fessure per far passare l’aria, in origine destinati al trasporto di merci e di animali, venivano stipati in media ottanta persone, ritenute colpevoli di essere ebree, sovversive, disabili, zingari, testimoni di Geova, omosessuali e “asociali”. In quest’ultima categoria rientravano i senzatetto, le prostitute, gli alcolisti, i malati mentali. Gli arresti furono possibili spesso grazie alla complicità o all’indifferenza dei loro concittadini, come accadde anche nel caso dei deportati italiani e greci, dopo l’armistizio firmato dal governo l’8 settembre del 1943, che sancì la rottura dell’alleanza con la Germania e la conseguente occupazione tedesca del territorio.
Sui vagoni per Auschwitz si rimaneva tutti in piedi, gli anziani e i malati si sedevano a turno. Per i bisogni fisiologici, c’era un secchio. Dopo giorni di viaggio, il treno si fermava e cadeva il silenzio per qualche minuto, finché non iniziava il frastuono dei passi pesanti e dei cani che abbaiavano. I portelloni si aprivano. I soldati urlavano ordini in tedesco e i deportati scendevano, spaventati e confusi. Dal ’43, all’arrivo del treno, le ragazze dell’orchestra di Auschwitz erano costrette a suonare una musica di benvenuto. Donne e bambini venivano subito separati dagli uomini sulla Judenrampe, conosciuta anche come rampa della morte. Qui Mengele decideva chi poteva vivere e chi doveva morire con un solo gesto della mano: a destra, c’era la vita temporanea e il lavoro forzato; a sinistra, la camera a gas. Moriva generalmente chi aveva più di 60 anni e chi meno di 15. Morivano le donne con i figli piccoli e chi, con uno sguardo, veniva giudicato inabile al lavoro. Ma durante la selezione non sapevano di essere dei condannati. Seguivano le uniformi fino ai crematori II, III, IV e V (gli ultimi due erano fuori dal campo, nel bosco). Si svestivano in quello che sembrava un normale spogliatoio, con tanto di ganci e panche, ripiegando con cura gli abiti da rimettere dopo essersi lavati. Entravano nella stanza con le finte docce e aspettavano l’acqua calda sulle loro teste. Nel frattempo, alcuni uomini delle SS salivano sul tetto con delle latte di granuli impregnati di Zyklon B, che inserivano nei comignoli, subito richiusi. E aspettavano. Alcuni di loro osservavano dallo spioncino. Le grida duravano un minuto, poi c’era il silenzio. L’agonia durava dieci minuti circa. Infine, si scoperchiavano di nuovo i comignoli e si accendeva l’impianto di ventilazione, per far cambiare l’aria e permettere ai prigionieri che facevano parte del Sonderkommando di fare il proprio lavoro: “ripulire” la stanza e rendere i corpi più facili da incenerire. Tagliavano i capelli, strappavano i denti d’oro e trasportavano i cadaveri fino al montacarichi che li avrebbe portati dal sotterraneo al piano terra, direttamente ai forni. Vista la grande quantità, i corpi spesso erano bruciati anche in tre alla volta, se bambini o adulti magri. Quando i quattro crematori non bastavano, venivano organizzati dei roghi a cielo aperto. Alla riapertura delle fornaci, dopo circa 30 minuti, le ceneri erano già cadute negli appositi raccoglitori sottostanti. Rimanevano alcune ossa, che dovevano essere sminuzzate con grossi pestelli di legno dagli uomini del Sonderkommando e ammucchiate insieme alle ceneri nel grande cortile crematorio. Il tutto veniva passato al setaccio, perché non doveva rimanere nessun resto umano riconoscibile. A quel punto, l’enorme cumulo di polvere andava caricato su un camion per essere svuotato nel fiume Vistola o nelle vasche di pescicoltura. Oppure, veniva usato come fertilizzante.
Vicino alla rampa, accanto alle valigie ammucchiate, rimanevano a volte i disabili, gli anziani incapaci di muoversi e qualche bambino che si era nascosto sul vagone o non aveva seguito nessuna fila. In questo caso, l’esecuzione era istantanea, affidata a un colpo di fucile. Gli altri, quelli che potevano vivere, venivano portati nell’edificio dove lasciavano i capelli, i vestiti e il loro nome. Ne uscivano con un numero di matricola tatuato sul braccio, un’uniforme di tela a righe e degli zoccoli di legno, difficilmente della taglia giusta. Per questo, i prigionieri se li scambiavano una volta arrivati nei dormitori. Chi non trovava delle scarpe della propria misura non riusciva a lavorare e diventava inutile. Il permesso temporaneo alla vita scadeva. Era fondamentale imparare subito la pronuncia del proprio numero in tedesco, in modo da rispondere durante l’appello, che serviva per contare quanti erano morti e se mancava qualcuno dal lager. Chi non rispondeva perché non capiva, veniva punito brutalmente. Gli appelli si tenevano in un piazzale e potevano durare dalle 2 alle 20 ore, finché non si trovava chi non era presente. Queste ore, i detenuti le passavano in piedi, con qualsiasi temperatura.
Ogni prigioniero aveva sulla casacca un triangolo di stoffa di diverso colore, in base alla sua “colpa”. Per i prigionieri politici il triangolo era rosso; per i testimoni di Geova, viola; rosa per gli omosessuali; nero per gli asociali; verde per i delinquenti comuni; blu per gli immigrati e gli apolidi; marrone per i rom e i sinti. Gli ebrei avevano due triangoli gialli sovrapposti che formavano una stella di David, ma nel caso di ebrei politici, uno dei triangoli era rosso. E all’interno dei triangoli c’erano le iniziali del Paese di provenienza. Tra i criminali comuni venivano scelti i kapò e le blokowa, rispettivamente per i lager maschili e quelli femminili: prigionieri messi a comando degli altri deportati. Questa posizione aveva molti privilegi, tra cui una stanza riscaldata, separata dai dormitori, lenzuola e buone razioni di cibo. I requisiti per essere scelti erano la conoscenza del tedesco e la predisposizione alla violenza.
Il 17 e il 18 luglio del 1942, il comandante supremo delle SS, Heinrich Himmler, visitò per la seconda volta Auschwitz e diede a Rudolf Höß, comandante del campo, il compito di organizzare in maniera più rapida lo sterminio degli ebrei e di sfruttare fino alla morte i pochi abili al lavoro. Tutti i bambini, di norma, venivano eliminati. Soprattutto i figli degli ebrei: non poteva esserci un futuro per la razza ebraica. Alcuni tra i più piccoli si salvavano alla prima selezione, solo perché li aspettava un destino peggiore, quello di cavie. Il dottor Mengele aveva bisogno di gemelli, menomati fisici e zingari. Secondo le testimonianze dei sopravvissuti, all’inizio li trattava con la gentilezza che ci si aspetta dai pediatri. Poi, li operava senza anestesia. Provò a unire parti del corpo dei bambini, per creare gemelli siamesi. Torturò quelli affetti da nanismo e fece esperimenti su una forma di stomatite gangrenosa che colpiva i rom. Iniettò del metilene blu negli occhi di altre cavie, causando dolore e cecità, determinato a creare un esercito di ariani dagli occhi azzurri. Infine, li uccideva con l’iniezione di fenolo direttamente nel ventricolo sinistro, così da passare alla fase successiva: l’autopsia e la comparazione degli organi interni.
Sergio De Simone aveva sei anni quando arrivò ad Auschwitz. Era nato il 29 novembre del 1937 a Napoli. Nel luglio del ’43, la madre Gisella, un’ebrea bielorussa, decise di tornare dalla famiglia che viveva a Fiume, mentre il marito era al fronte. Una scelta che rimpianse, dal momento che a settembre di quell’anno Napoli fu liberata dagli Alleati e, al contrario, Fiume cadde sotto la sovranità del Reich. Il 28 marzo del ‘44, i nazisti entrarono a casa Bucci-Perlow e portarono via Gisella, la madre Rosa, la sorella Mira, due zii e Sergio con le cugine Andra e Tatiana, di sei e quattro anni. Arrivarono a Birkenau il 4 aprile. I nazisti scambiarono Andra e Tatiana per gemelle e le lasciarono in vita, per usarle come cavie. Anche il cugino superò la prima selezione e i tre furono confinati nella baracca dei bambini, separati dalle madri. Una mattina, le SS chiesero ai piccoli prigionieri: “Chi vuole andare dalla mamma, faccia un passo avanti”. Le due sorelle, avvisate dalla blokowa, avevano a loro volta avvertito Sergio dell’inganno, ma lui fece quel passo istintivamente. Insieme ad altri 19 bambini si ritrovò sul treno che li portò al campo di Neuegamme, vicino Amburgo, dove giunse il giorno del suo settimo compleanno. Non c’erano le madri ad aspettarli, bensì il dottor Heissmeier, che li usò per provare un vaccino contro la tubercolosi, senza alcuna base scientifica. Alle cavie fu iniettato il batterio nelle ghiandole linfatiche ascellari, poi asportate. Nell’aprile del ’45, le truppe alleate erano ormai vicine al campo e le prove dovevano sparire. I bambini presero il loro fagotto e i giocattoli e furono trasferiti nella scuola di Bullenhuser Damm. Li sedarono con la morfina e li impiccarono nella cantina dell’edificio. Più tardi, davanti al tribunale per i crimini nazisti, i responsabili dichiararono di averli appesi “come quadri alla parete”. Gisella, sopravvissuta alla Shoah, come la sorella e le nipoti, non ha mai smesso di cercare il figlio insieme al marito. La storia di Sergio viene riportata alla luce nei primi anni ’80, grazie al lavoro di identificazione delle vittime compiuto da un giornalista tedesco e dalla moglie.
A Birkenau, i detenuti avevano a disposizione un unico pasto, la sera, che consisteva in una scodella di brodaglia e un pezzo di pane. Si dormiva in letti a tre piani, sdraiati di fianco, per farci stare più gente possibile, su uno strato di pagliericcio. Le baracche di legno erano stalle per cavalli, fatte di elementi prefabbricati, con alcuni fori al posto delle finestre. Chi dormiva nelle baracche di mattoni (presenti solo nella zona femminile, costruita per prima) non soffriva meno il freddo, in quanto la costruzione era priva di materiale isolante e tratteneva l’umidità. Per i bisogni fisiologici si andava al blocco delle latrine, dove ci si sedeva l’uno accanto all’altro, senza carta per pulirsi. Non c’era modo di igienizzare le latrine: venivano soltanto svuotate, quindi era molto frequente ammalarsi di tifo. Gli addetti alla pulizia facevano parte dello Scheißkommando. Come accennato anche sopra, per sopravvivere nel campo, era essenziale riuscire a capire gli ordini in tedesco, così da non incorrere nell’ira delle guardie, e trovare un lavoro al chiuso. Per questo motivo, un posto nella squadra di pulizie era molto ambito, come anche quello nel Sonderkommando, nelle aziende fuori dal campo, o nel settore Kanada, il deposito dei beni espropriati ai prigionieri, da spedire poi in Germania: il Canada era per i tedeschi simbolo di ricchezza, da qui il nome del comparto di razzia e smistamento dei beni. Le cinquanta ragazze dell’orchestra godevano di una posizione migliore, poiché dovevano essere mantenute in una forma decente per le esibizioni ed erano difficilmente sostituibili, il che dava loro una speranza in più. Suonavano nel blocco 12, sotto la direzione dell’ebrea Alma Rosé, nipote del compositore austriaco Gustav Mahler.
L’orchestra nacque nel ’43 per volere di Maria Mandl, “la bestia di Auschwitz”, che amministrò da sola il campo dall’ottobre del ’42 fino all’agosto dell’anno successivo ed era appassionata di punizioni e di musica. Allo stesso modo con cui amava accanirsi sui detenuti con la frusta, amava ascoltare Madame Butterfly di Puccini. Nata il 10 gennaio del 1912 a Münzkirchen, in Austria, da genitori tedeschi che non avevano simpatia per il Reich, Maria si avvicinò al nazismo dopo aver perso il lavoro all’ufficio postale del suo paese: non era iscritta al partito. Per lo stesso motivo, fu lasciata dal fidanzato, un ambizioso soldato che non poteva permettersi una ragazza non nazista. Nel ’38, andò a Monaco dallo zio, un ispettore della polizia. Lì si iscrisse alla Lega delle ragazze tedesche e passò successivamente alla sezione femminile delle SS (SS-Gefolge). Fu mandata al campo di concentramento di Lichtenburg. Nel ’39 la trasferirono a Ravensbrück, dove si distinse per la sua brutalità. Nel ’42, arrivata a Birkenau, fu la donna delle SS con il più alto grado e andò ben oltre le aspettative dei superiori. Di notte, con la temperatura a 35 gradi sotto lo zero, le prigioniere erano costrette a stare per ore con le mani in alto, finché Mandl ne indicava una e la mandava a morire. Sembrava avere anche una debolezza per i bambini, ma durava il tempo di un capriccio. Si affezionò in particolar modo a un bimbo polacco, i cui genitori erano già stati gassati. Gli diede cibo e vestiti, gli raccontò storie e lo portò in giro con lei per il campo. Dopo qualche giorno, si stancò e lo accompagnò lei stessa alla camera a gas. Fu catturata nel 1945, dopo esser fuggita dal campo di Mühldorf con il suo amante, il comandante del lager Walter Adolf Langleist, riconosciuto da un ex prigioniero. Nel 1947 venne condannata a morte. Fu impiccata insieme ad altri 20 criminali nazisti il 24 gennaio del ’48. La morte avvenne per soffocamento e non per rottura dell’osso del collo, per farli soffrire. Lo stesso metodo usato nei lager. I loro corpi, dopo il decesso, furono messi a disposizione della scienza.
Il 16 maggio del 1944 viene ricordato come il giorno di uno dei più eroici tentativi di resistenza dentro il lager: la rivolta degli zingari. Le SS circondarono il settore chiamato Zigeunerlager dove vivevano i deportati rom e sinti, con lo scopo di “smantellarlo”. Quello che le guardie non potevano prevedere era la reazione dei prigionieri, determinati a difendere la loro vita e quella dei loro figli. Si lanciarono sulle guardie con bastoni, vanghe, piccoli coltelli, calcinacci e a mani nude. Uccisero 11 tedeschi. L’epilogo di tanta disperazione arrivò due mesi dopo, il 2 agosto, quando non poterono più difendersi e i nazisti “liberarono” il settore. Non ci furono superstiti. Il coraggio degli zingari diede ad altri detenuti la forza di ribellarsi. Il 7 ottobre di quello stesso anno, i lavoratori del Sonderkommando fecero saltare in aria il Crematorio IV, rendendolo inutilizzabile, e uccisero tre membri delle SS. La rappresaglia fu immediata. Furono giustiziate 300 persone. Fu poi aperta un’indagine che condusse a coloro che avevano fornito l’esplosivo. Si trattava di cinque ebree polacche: Ala Gertner, Regina Szafirsztajn, Hanka ed Estusia Wajcblum, Róża Robota. Le prime quattro lavoravano nella fabbrica di munizioni Union. Per mesi avevano rubato piccole quantità di esplosivo che passavano a Róża, la quale lavorava nel deposito dell’abbigliamento, accanto al Crematorio III, e lo consegnava ai Sonderkommando. Hanka si salvò, mentre le altre furono torturate per mesi e poi impiccate davanti alle compagne il 5 gennaio del 1945.
Malka Zimetbaum, conosciuta come Mala, era un’ebrea nata in Polonia e cresciuta in Belgio, deportata a Birkenau a 22 anni, nel settembre del ’42. Lì divenne il numero 19880. Grazie alla sua conoscenza delle lingue straniere riuscì ad avere un buon posto dentro il lager. Fu scelta come interprete e corriere. Questo le permetteva di aiutare le altre detenute: intercedeva per far avere un lavoro migliore a chi era troppo debole per quelli troppo faticosi, riusciva a procurare cibo e medicine a chi ne aveva più bisogno. Era molto benvoluta, ma viene ricordata soprattutto per la sua fierezza. Il suo fidanzato, il polacco Edek Galinski, prigioniero nel lager maschile, progettò la loro fuga: lui avrebbe indossato un’uniforme delle SS di cui era entrato in possesso grazie a un amico, lei avrebbe indossato una tuta da lavoro e avrebbe portato con sé, tenendolo a livello del volto, un lavabo di ceramica. Avrebbero mostrato un lasciapassare falsificato e lui avrebbe spiegato che stava accompagnando un detenuto che doveva montare un lavandino. Una volta lontani, lei avrebbe gettato la tuta, sotto cui indossava un abito, e si sarebbero spacciati per un membro delle SS con la sua fidanzata. Nel giugno del ’44 Edek e Mala riuscirono a scappare e arrivarono in una città vicina. Il sogno finì quando Edek provò a comprare del pane con dell’oro rubato nel campo. Il venditore si insospettì e chiamo le autorità, che fecero togliere il cappello al giovane, scoprendo la testa rasata. E lo riportarono indietro. Mala, che era nascosta, non lo volle lasciare e si riconsegnò ai tedeschi. Li imprigionarono nel bunker, il blocco 11 di Auschwitz I, in celle separate. Furono portati alla forca nello stesso giorno, alla stessa ora, ma nei due rispettivi settori di appartenenza. Edek morì dopo aver urlato “Viva la Polonia”. Mala, invece, si era procurata una lametta e con il cappio già al collo si tagliò i polsi, in un estremo gesto di resistenza. Schiaffeggiò la guardia, imbrattandola di sangue. Ma i tedeschi non le concessero la morte per mano propria. Arrivò l’ordine di bendarle le ferite e di bruciarla viva nel forno. Tuttavia, davanti al crematorio, la fucilarono.
Dall’estate del 1944 l’avanzata sovietica divenne inarrestabile. La guerra stava per finire e i tedeschi la stavano perdendo su due fronti. Aumentò il nervosismo delle SS nei lager. I sopravvissuti cercavano di assecondare qualsiasi ordine, anche quello di scavare le fosse comuni e trascinare i cadaveri da bruciare, per non attirare la collera delle guardie, che uccidevano a un ritmo sempre più elevato. Per eliminare più prove possibili, a gennaio del ’45, fecero saltare in aria i crematori e i magazzini. Due mesi prima della liberazione, circa 60.000 prigionieri furono costretti a lasciare Auschwitz e a camminare verso Ovest. Queste marce forzate sono conosciute con il nome di “marce della morte” e avevano due destinazioni principali, da cui poi sarebbero stati trasferiti nei lager in Germania: Gliwice (a 55 chilometri di distanza) e a Wodzislaw (a 63 chilometri). Più di 15.000 persone morirono durante il tragitto, non solo per il freddo e la fatica, ma anche perché le SS sparavano a chiunque rallentasse o non fosse più in grado di camminare.
Il 27 gennaio 1945, l’Armata Rossa entrò ad Auschwitz, a Birkenau e a Monowitz. L’esercito vi trovò circa duecento corpi accatastati a cielo aperto e 7.000 fantasmi che vagavano tra le macerie dei blocchi fatti esplodere. Alcune di queste persone vennero salvate dai medici sovietici, altri non riuscirono a sopravvivere e morirono poco dopo. Secondo le stime ufficiali del Museo, tra il 1940 e il 1945 le SS e le forze di polizia hanno deportato almeno un milione e trecentomila persone nel complesso di Auschwitz: 430.000 dall’Ungheria, 300.000 dalla Polonia, 69.000 dalla Francia, 60.000 dall’Olanda, 55.000 dalla Grecia, 73.000 dal Protettorato di Boemia e Moravia e dalla Slovacchia, 25.000 dal Belgio, 23.000 da Germania e Austria, 10.000 dalla Jugoslavia, 7.500 dall’Italia, 690 dalla Norvegia, 34.000 da altri luoghi (inclusi altri campi di concentramento). Da subito dopo la liberazione e fino al 1990, si stimavano 4 milioni di vittime. A ridurre la cifra fu il direttore del Museo Franciskez Piper, generando non poche polemiche, in particolare tra le associazioni degli ex deportati. “Furono un milione e trecentomila i deportati ad Auschwitz. Di questi, un milione e 100mila ebrei, 150mila polacchi, 23mila tzigani e 15mila prigionieri di guerra sovietici. Ne sopravvissero solo duecentoventitremila. Si tratta di cifre minime – dichiarò Piper – ma il numero delle vittime non dovrebbe comunque superare il tetto del milione e mezzo complessivo”. I dati si basano sui registri ritrovati, fogli di accompagnamento e dati statistici, ma si considera che ci sia stato anche un grande numero di persone non registrate, in quanto mandate subito a morire. Durante la Seconda Guerra Mondiale, persero la vita nella Shoah (che in ebraico significa “catastrofe”) circa 6 milioni di ebrei. La seconda etnia con più vittime fu quella di rom e sinti, che ricordano lo sterminio di 500.000 persone come Porajmos, traducibile come “grande divoramento” o “devastazione”.
Sami Modiano nacque il 18 luglio del 1930 a Rodi, l’isola delle rose, che era sotto la sovranità italiana e fu occupata dai tedeschi l’8 ottobre 1943. Orfano di madre, Sami era cresciuto con il padre Giacobbe e la sorella Lucia. A otto anni, quando fu espulso dalla scuola, scoprì di essere ebreo. La deportazione cominciò il 18 luglio del 1944, il giorno del suo compleanno, con un tranello: “I capifamiglia vennero chiamati a presentarsi al Kommandatur, per un controllo. Ma presero i loro documenti e li chiusero dentro. Il giorno dopo, vennero a prendere i bambini”. Il 23 luglio, con un caldo torrido, vennero fatti salire su una nave per il trasporto del bestiame: 500 persone per stiva. Attraccarono al Pireo l’1 Agosto e da lì partirono per Birkenau, dove arrivarono il 16. Gli uomini furono separati dalle donne e la sorella venne portata nel lager B. “Non l’avevamo più vista – racconta Sami – allora decisi che la dovevo trovare e cominciai a fare avanti e indietro per tutto il recinto di filo spinato tra il nostro lager e il suo. La terza sera, una mano mi salutò. Era lei, ma ci misi molto a riconoscerla. Le sere successive continuammo a vederci così e a parlarci a gesti. Ma, a un certo punto, lei non venne più”. Sami ricorda la reazione del padre, che non l’aveva voluta vedere in quello stato, quando gli disse che la figlia era morta: il giorno dopo, gli comunicò che sarebbe andato in ambulatorio. “C’erano tre modi per morire per mano propria: il primo era la morte naturale, dopo 12 ore di lavoro al freddo, denutriti; il secondo era buttarsi sul filo spinato ad alta tensione; il terzo era l’ambulatorio, poiché per gli ebrei non erano previste cure”. Rimase senza la sua famiglia e si fece forza grazie anche all’amicizia di un altro sopravvissuto, Piero Terracina. Nel gennaio del ’45, Sami aveva 14 anni e pesava 23 chili, ogni giorno veniva portato in laboratorio dove gli toglievano una siringa di sangue la mattina e una la sera. In queste condizioni, non aveva molte speranze di sopravvivere alla marcia della morte. Si accasciò a terra dopo pochi chilometri fuori dal campo: “Aspettavo il colpo di grazia. Invece, due prigionieri sconosciuti mi hanno trascinato su un cumulo di cadaveri, salvandomi la vita”. Quando riprese conoscenza, si rifugiò in un fabbricato di mattoni. “Mi risvegliai qualche giorno dopo. Davanti a me, c’era una dottoressa sovietica che mi curava. Capii che ce l’avevo fatta e mi sentii malissimo. Perché non ero morto come gli altri?”.
C’è una lunga sequenza di foto segnaletiche dentro il Museo di Auschwitz.
I detenuti hanno divise a righe e hanno già perso il loro nome. Staccate, su un’altra parete, ce ne sono altre: sono le immagini dei prigionieri prima dell’inferno, quando erano persone con la loro identità. Sono state ritrovate in una valigia nascosta dal Sonderkommando, per far sì che i ricordi non andassero persi. “Il ricordo – ha detto Piero Terracina in uno dei suoi incontri con gli studenti – muore con la persona che lo ha vissuto. Per questo dobbiamo tramandare la memoria, perché essa vive anche dopo la morte”.
Ivano Talamo è un artista e illustratore italiano che vive a Zurigo.
Usa l’illustrazione e il fumetto per osservare e interpretare la realtà e ama raccontare le sue storie attraverso il filtro delle scienze sociali e naturali.
Quando disegna sogna spesso il mare.
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