Il cambiamento è vita; il contrario non è morte – la morte è parte integrante della vita – ma non-vita. La non-vita è una delle potentissime e tuttora estremamente moderne metafore a cui bene Mary Shelley ha dato forma immaginando la creatura di Victor Frankenstein, un mostro disgustoso assemblato a partire da pezzi di corpi morti. Solo, triste e incattivito dalla sua condizione misera e profondamente infelice, cui è inoltre completamene preclusa ogni forma d’amore. Durante la nostra esistenza tutti noi siamo chiamati a evolverci, a cambiare, anche se l’essenza che ci trasporta attraverso i giorni, attraverso gli anni, rimane necessariamente invariata – l’essenza è il nostro nucleo più prezioso e intimo ed è ciò che fa di noi, noi. Bloccare un cambiamento necessario al nostro essere è una forzatura che crea necrosi di pezzi, delle parti che potrebbero evolvere e invece finiscono per essere dei Frankenstein. È, quindi, attraverso il mutamento dell’espressione di questa essenza che s’intravede, leggendo la nostra vita, il modo cui ognuno di noi reagisce agli eventi che si trova a dover affrontare e alle scelte che immancabilmente devono essere fatte, alle rinunce, ai salti nel vuoto: tutto ciò crea e plasma la nostra identità di esseri umani.
Conoscere, attraverso gli articoli, le interviste, i suoi libri, Lisetta Carmi, ci offre una fotografia di quello che anche la nostra stessa esistenza può essere, quando siamo pronti ad abbandonare quello che abbiamo – o pensiamo di avere – per fare un passo nel buio e seguire una chiamata più profonda, una via nuova che somiglia meglio a noi stessi. Non esiste mai, in questo senso, una strada giusta o una sbagliata, ma vi è l’aderenza alla chiamata del nostro cuore e l’atto di seguirla si chiama coraggio. Molti, quando parlano di Lisetta Carmi, ne sottolineano le diverse esistenze: Babaji Herakhan Baba, il famoso guru indiano incontrato durante un viaggio in India, le dice che avrebbe vissuto cinque vite.
La prima vita di Lisetta Carmi è legata alla musica e alla sua carriera da concertista. Nasce il 15 febbraio del 1924 a Genova, da una famiglia borghese di origine ebraica, capace di incoraggiare e sostenere i talenti artistici dei figli: suo fratello maggiore Eugenio, ad esempio, è stato un pittore famoso ed è uno dei maestri dell’astrattismo italiano. Durante la sua crescita e nella prima parte della vita adulta per Lisetta la musica è attività principale e irrinunciabile. A quattordici anni viene, perché ebrea, espulsa dalla scuola e nel 1943, quando scappa a piedi verso la Svizzera, attraverso le montagne, sempre per sfuggire alle conseguenze delle leggi razziali, con un braccio sostiene la madre, e con l’altro tiene stretti i due volumi del “Clavicembalo ben temperato” di Johan Sebastian Bach. Fino a trentasei anni la musica rimane il centro indiscusso della sua vita.
Poi si accorge che qualcosa in lei è pronto al cambiamento.
Il 14 maggio 1960 gli esponenti del Movimento Sociale Italiano – partito neofascista fondato da Giorgio Almirante, Pino Romualdi e altri ex esponenti del regime mussoliniano – decidono di convocare il loro sesto congresso a Genova: la situazione politica e sociale genovese è molto tesa per via della chiusura di diverse industrie, tra cui l’azienda meccanica Ansaldo–San Giorgio, e da oltre un decennio si protraggono in città lotte dei sindacati che protestano contro le chiusure e le riduzioni del personale. La scelta di convocare il sesto congresso a Genova, città decorata con medaglia d’oro della Resistenza e da cui era partita l’insurrezione del 25 aprile, viene percepita come una volontà di indebolire il governo Tambrioni: per tutte queste ragioni il 30 giugno si arriva a degli scontri seguiti da un corteo indetto dalla Camera del Lavoro e appoggiato dall’opposizione di sinistra per protestare apertamente contro la convocazione a Genova del congresso di MSI. Lisetta Carmi, allora iscritta al Partito Comunista, vuole prendere parte alle manifestazioni contro il Movimento Sociale Italiano e contro il suo segretario, Giorgio Almirante. Il suo maestro di pianoforte, Alfredo They, non è però d’accordo: non può scendere in strada a manifestare, se si rompesse le mani non potrebbe più suonare. Ma per Lisetta è inaccettabile: “Se le mie mani sono più importanti del resto dell’umanità smetto di suonare!”. Molla drasticamente, da un giorno all’altro, la musica, e parte verso la sua seconda vita, quella di fotografa.
“Smisi l’attività di concertista, che oltretutto non mi piaceva. Anche gli applausi finali erano per me un fatto spiacevole: quando la musica finisce ci dovrebbero essere concentrazione e silenzio.”
Ed è così che Carmi si unisce alla manifestazione del 30 giugno 1960 e incontra quelli che saranno i protagonisti dei suoi primi lavori fotografici: i lavoratori del porto. La passione per l’immagine scoppia qualche mese prima, durante un viaggio in Puglia con l’amico Leo Levi, etnomusicologo impegnato nello studio dei canti delle comunità ebraiche.
“Prima di partire per la Puglia comprai una piccola Agfa Silette e otto rullini e feci moltissimi scatti: era la prima volta che facevo fotografie! Quando tornai a Genova, le feci stampare e chi le vide mi disse che sembravano di Cartier-Bresson. Decisi allora di fare la fotografa e mio padre, persona molto intelligente, mi regalò una Leica con tre obiettivi da 35, 50 e 90 mm. Poco dopo fui assunta al Teatro Duse di Genova come fotografa di scena e lì lavorai per tre anni. Fu un’esperienza intensa e straordinaria che in seguito mi diede la possibilità di girare il mondo.”
I suoi primi lavori da fotografa immortalano Genova. “Genova, la città e il porto” è un insieme di tre reportage che raccontano l’Italsider (1962), con scatti interni dei cantieri e delle acciaierie. “Genova Porto: monopoli e potere operaio” (1964), che è ancora oggi considerato uno dei più significativi reportage del dopoguerra sul tema del lavoro, testimonia l’intensa attività del porto con particolare attenzione alla difficile situazione dei portuali, i “cammalli”, costretti a lavorare in condizioni difficilissime, quasi disumane, alcuni senza vestiti e con scarpe di stracci o di giornali, anche per trasportare carichi molto pericolosi: è in questo contesto crudo e poetico che Lisetta Carmi riesce a creare nelle sue fotografie un’incredibile sinergia estetica tra la fatica dei corpi e la loro bellezza.
E infine, “Erotismo e autoerotismo a Staglieno” (1966), un lavoro dedicato alla straordinarietà e al fascino del cimitero monumentale di Genova:
“Detestavo ciò che molte sculture rappresentavano, per esempio lo stereotipo della donna timorosa e dipendente dagli uomini, ma ero colpita dalla capacità di chi, ancora in vita, aveva progettato la propria tomba”.
Nelle sue fotografie si vedono donne possenti e formose che non sono sottomesse all’uomo, ma incombono dall’alto, dove l’eros sconfigge la morte insieme alla falsità e alla forzatura dei ruoli dettati da una società perbenista e ipocrita, che lei, con la sua arte e la sua stessa vita, critica aspramente.
Da questa sua prima esperienza viene fuori una mostra che fa il giro del mondo e arriva sino in Unione Sovietica.
La fotografia per Lisetta Carmi è una forma di catarsi, è un modo di dare corpo alla sua sofferenza interiore, ma è anche impegno civile, è denuncia, è dare visibilità a chi viene volontariamente escluso e annientato dall’immaginario comune di una città in movimento, che però cancella dalla sua vista chi la rende dinamica e viva, e da un paese, l’Italia, da cui lei stessa era dovuta scappare per proteggere l’incolumità della sua vita. L’impegno di testimoniare fatti e persone che vengono volontariamente rinnegati e tagliati fuori è prima di tutto un impegno verso di sé, una ricerca interiore attraverso la realtà esterna e la scoperta progressiva e autentica che il personale è politico.
“Ho sempre cercato di dare voce ai più poveri, agli sfruttati, a coloro cui è stato sottratto il diritto di vivere e parlare.”
La sua fotografia è inoltre uno strumento di ricerca antropologica. Quando fotografa cerca di liberare il suo sguardo da ogni pensiero preconcetto, per cercare di vedere la realtà nel suo aspetto più crudo, più puro. Inoltre, si riesce a intrufolare in ambienti dove nessuno, al di fuori degli autoctoni, è ammesso. Lo fa nel porto, dove arriva dichiarando di essere una curiosa cugina di uno dei portuali, e lo fa anche quando entra nell’entourage dei travestiti di piazza Fossatello, nel 1965, quando inizia il suo lavoro forse più noto, il racconto dei travestiti che abitano i fondi del ghetto ebraico di Genova, cui si dedicherà sino al 1971. Il giorno di capodanno del 1964 viene invitata insieme ad un amico ad una festa in via del Campo, zona abitata di omossessuali ed emarginati. Quella sera inizia a scattare le prime foto, che regalerà ai soggetti, senza chiedere nulla in cambio, e senza mai vendere le immagini ai giornali. Di quel periodo dice:
“Ho sempre lavorato per capire. Delle fotografie non me n’è mai fregato niente. Era un mondo dove nessuno poteva entrare”.
Ma lei evidentemente poteva. I travestiti rappresentano una realtà ai margini, sconveniente per i benpensanti, metafora di libertà e autodeterminazione. Per raccontare le storie di questi personaggi alle volte è costretta a mettersi dietro una tenda. “Gli uomini che vanno coi travestiti sono porci. – dice in un’intervista – Buoni borghesi, molti preti. Spesso andavano solo a parlare con loro per evadere dal loro quotidiano”. La tariffa allora andava dalle 5000 alle 10000 lire e i fondi in cui i travestiti abitavano venivano dati in affitto a caro prezzo dalle famiglie ricche di Genova. Carmi coglie i travestiti nella loro quotidianità e non chiede a nessuno di mettersi in posa, scatta quando sente una connessine tra di loro, una sorta di vibrazione e di scintilla tra lei e il soggetto. Veniamo così a conoscenza della storia di Morena – che ha anche ispirato la canzone “Via del Campo” di Fabrizio de André: Morena era una madre, avrebbe voluto fare la missionaria e la suora e invece aveva una bottega di frutta e verdura durante il giorno e la sera faceva la “graziosa”; casa sua, dice Lisetta Carmi, era piena di immagini sacre e religiose, incluso il ritratto di lei vestita da suora. E ancora la storia della Bella Elena, che prima di fare il travestito faceva il gruista all’Italsider.
“Si è poi sposata con una lesbica perché si era illusa si poter avere una vera vita famigliare: la cosa però non ha funzionato alla fine. Lei si divertiva molto di più a fare il travestito che a preparare il minestrone.”
Anche questo lavoro per Carmi è un viaggio all’interno dei suoi stessi dubbi, le domande e i fastidi che da quando è bambina si sente di voler capire e risolvere. In un’intervista rivela che sin da quando è piccola, voleva essere un maschio, ma passando del tempo con i travestiti comprendere che non è il suo genere che rifiuta, quanto il ruolo che il suo genere sottende.
“Io stessa a quel tempo ero assalita – forse a livello inconscio – da problemi d’identificazione maschile e femminile. E i travestiti (o meglio il mio rapporto con i travestiti) mi hanno aiutata ad accettarmi per quella che sono: una persona che vive senza un ruolo”.
Per poi affermare:
“Non esistono gli uomini e le donne, esistono gli esseri umani.”
Il lavoro sui travestiti verrà pubblicato, non senza difficoltà, nel 1972. Doveva essere in principio edito da un editore comunista che però all’ultimo momento si tira indietro. Grazie al suo amico Sergio Donnabella, che s’impegna a pubblicare il libro a sue spese, diviene finalmente un volume, uscito in mille copie, che è supportato da alcuni intellettuali tra cui Alberto Moravia, Dacia Maraini (che presenta il libro a Roma) Mario Mieli e l’amica dell’artista, Barbara Alberti. Le reazioni alla pubblicazione però sono disastrose. Innanzitutto il travestimento era ancora considerato un reato e spesso i travestiti venivano arrestati: la polizia avrebbe arrestato volentieri anche Carmi, anche perché comunista, ma la sua provenienza borghese era un deterrente. A Milano le librerie nascondono il libro sotto il bancone. Cesare Musatti si rifiuta di presentarlo dicendo che per lui “è tutta gente da mettere all’ospedale”. Quello che sconvolge del libro è il fatto che i travestiti vengano fotografati in maniera amichevole, nelle loro case, durante la loro vita quotidiana, proprio a provare che anche loro esistono: hanno volti truccati e corpi conturbanti, indossano lingerie accattivante, sono coraggiosi, sono veri. Sono vivi.
Per salvarli dal macero, Barbara Alberti compera tutte le copie esistenti del libro. L’artista Francesco Vezzoli racconta l’intera storia:
“Un giorno, questa intellettuale radicale, Barbara Alberti, decise di acquistare tutti i libri. Tutti! Ha riempito la sua casa con tutte le copie; sono diventati il tavolo di fronte al divano. Oggi, potresti trovare il libro solo per 3mila, 4mila dollari a causa della sua rarità. Alberti decise che, poiché questo libro era stato frainteso, doveva essere consegnato solo alle persone intelligenti, come fosse un dono. È una storia che adoro. Questa donna, borghese, ebrea, super intelligente, appartenente a una famiglia coraggiosa, realizza un libro. Il libro non vende. Un’altra donna intelligente esce, compra tutti i libri e decide di diventarne – come posso dire – il distributore surreale. Il distributore astratto di un oggetto intellettuale che è troppo radicale per essere acquistato”.
I lavori fotografici di Lisetta Carmi sono ancora oggi più attuali che mai. Basti pensare che la transessualità è tuttora considerata un disturbo dell’identità di genere da curare chirurgicamente, con ormoni maschili o femminili e con farmaci che ledono organi perfettamente sani. Le fotografie di Lisetta Carmi, dopo anni di oblio, oggi sono esposte in diverse mostre di gruppo e personali. Il suo libro “I travestiti” ha vinto diversi premi, tra cui il premio mondiale del libro di Lipsia, e il “The Concerned Photographer” attraverso cui la sua opera è stata esposta nelle sale Apollinee della Fenice di Venezia.
Nel 1976 Carmi, dopo vent’anni, abbandona la fotografia per entrare nella quarta fase della sua esistenza: si dedica a diffondere gli insegnamenti del maestro Babaj, il quale la incarica di istituire un’ashram a questo fine. Lei accetta e fonda, a Cisternino in Puglia, Bhole Bhole, che diventerà il primo punto internazionale in Europa “per la trasformazione delle persone e per la purificazione della loro mente, per la meditazione e per il Karma yoga”.
Oggi, nella sua quinta vita, Carmi, sulla soglia dei cent’anni, non vive più nell’ashram, ma nel centro di un paese della Puglia. Ha scoperto l’arte cinese e il Tao ed è tornata a occuparsi di bambini. Quando in un’intervista le chiedono se ha un sogno nel cassetto risponde:
“L’unico mio sogno è di vivere in verità, semplicità e amore. In salute e in armonia col creato. Om Namaha Shivaya.”
Non l’ha forse fatto per tutta la vita?
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