Quando telefono a Salmo, mi risponde da Dublino. Lui e il resto della crew hanno ritardato la mia intervista di circa un’ora. Problemi in aeroporto.
“Che tipo di problemi avete avuto?”
“Con i passaporti, ma abbiamo risolto.”
La prima volta che vidi un live di Salmo, fu al Leoncavallo, il Centro Sociale milanese di via Watteau. Indossava quella sua maschera e fu una carneficina. Ad ascoltarlo eravamo in trenta persone, non di più. E lui era bravissimo. Erano tanti anni fa, Salmo era piccolo e magro, una cosa minuscola con la faccia e la voce da diavolo.
Era sudato almeno tanto quanto noi che saltavamo e pogavamo. Non stava facendo hip hop, stava tirando giù le pareti. L’ho visto altre volte in concerto, sempre a Milano, almeno due ancora al Leo e poi nei festival. L’ho visto a delle serate di cui era pubblico spettatore, al Circolo Magnolia, per esempio. Perché lui, ad un certo punto, a Milano c’è andato a viverci.
Sardo di Olbia, classe 84, fa anche lui parte di quella Generazione Y del rap italiano, che sta a metà strada tra la old school e la nuova scuola dell’hip hop che si è mangiato la trap. O viceversa.
Da quel giorno al Leo, davanti a me e ad altre ventinove persone, agli inizi della sua carriera, per Maurizio Pisciottu – questo il suo nome – sono cambiate tante cose. È cambiato lui, la maschera che per tanto tempo gli ha coperto metà volto ad un certo punto è sparita e anche le basi dubstep e il cappellino e quel timbro vocale è diventato un altro timbro vocale, più completo.
È partito con The Island Chainsaw Massacre, nel 2011, le basi drum and bass e la velocità tipica di chi si vuole prendere tutto e subito. Lui che recitava “L’Italia e la sua musica per checche isteriche“. Poi Death USB nel 2012 e tira giù i palazzi, sputa sangue da sotto la maschera del diavolo, fa un featuring insieme ai Belzebass e mostra i muscoli e i nervi.
Nel 2013, via la maschera. L’hip hop hardcore rimane tale, ma se ne va anche la dubstep. Pausa, e poi nel 2016 esce Hellvisback. La mutazione è completa. La maturazione, forse. Lascia la Tanta Roba, l’etichetta di Gué Pequeno e Dj Harsh e firma per Sony.
E pim pum pam, vince il disco d’argento.
Dopo un anno di date italiane, la maggior parte delle quali ha registrato sold out, Salmo porta Hellvisback in Europa, ha già affrontato Madrid, Barcellona, Parigi e nel giorno in cui parliamo al telefono, sono atterrati a Dublino.
Passeranno anche da Berlino, luogo da cui scrivo e nel quale ha sede Yanez. Il quattro aprile, fra pochi giorni.
A febbraio Hellvisback ha compiuto un anno. A 365 giorni di distanza, come lo vedi? È cambiato qualcosa o qualcosa lo cambieresti con il senno di poi?
Guarda, io non mi ascolto. (ride)
Nel senso che fai i dischi e non li ascolti quando sono finiti?
Li ascolto pochissimo. Mi stanco subito delle canzoni. Dopo un paio di mesi inizio ad odiarle. Credo sia una cosa normale. Generalmente io non lavoro solo sui testi, ma anche sui beats. La maggior parte sono miei e di un altro ragazzo, quindi stare sul pezzo 24 ore su 24 e conoscerlo come le mie tasche, mi porta ad averlo a noia. Diventa pesante. Quindi non mi ascolto. Quando finisco un disco, torno in sardegna a riposarmi e non ne voglio sapere niente.
A proposito di Sardegna, cosa rappresenta e ha rappresentato nel tuo percorso artistico?
Ovviamente ci sono attaccatissimo, sono nato e cresciuto lì. Oltretutto la Sardegna ha una storia particolare, siamo distaccati dall’Italia, c’è una mentalità diversa. Musicalmente è importante per me. Importantissima. Anche se ti ripeto, quando torno è perché ho bisogno di staccare. Lavoro quando sono a Milano, lì ho uno stato d’animo diverso.
Però hai iniziato a fare musica in Sardegna.
Sì, era una situazione particolare. Quando ho iniziato a scrivere i primi testi rap, nella mia città eravamo in cinque a farlo. Ascoltavamo e facevamo musica rap, tutti gli altri facevano punk o metal. Eravamo le pecore nere.
C’era un sacco di gente che faceva rap a Cagliari, dalle mie parti no. Era un’altra storia.
Diciamo che la mia città mi ha forgiato di più a livello musicale. Ho suonato con tre band, ho imparato a suonare la batteria, la chitarra, il basso. Pensa, se fossi nato a Bologna e avessi iniziato negli anni novanta, in quel luogo dove l’hip hop era una cosa potentissima ed erano in tanti a farlo bene, ecco, probabilmente non saprei suonare nemmeno uno strumento.
Sempre restando in Sardegna, so che, insieme al regista Mauro Aragoni, hai prodotto e presentato poco più di un mese fa, un cortometraggio. Vuoi parlarmene?
Sì, s’intitola Nuraghes. È un corto fatto in casa, quindi indipendente, l’ho finanziato interamente io. La trama è molto semplice, è una sorta di puntata pilota. Essendo il mio primo cortometraggio, volevo che fosse in tema con la Sardegna ed è ambientato nell’Età del Bronzo. Nel film uccidono mia figlia ed io la devo vendicare in questo torneo di lotta. Semplice. Dura 23 minuti. L’abbiamo presentato in piccoli cinema della Sardegna, poi anche a Milano e altri due, tre posti in Italia. Guardatelo, se ti capita.
Lo farò sicuramente. Resto sul cinema. Un’altra cosa risaputa è il tuo interesse verso la macchina da presa. Lo si vede nelle produzioni dei tuoi videoclip e nella tua propensione attoriale. Credo di non sbagliarmi.
No, per niente. È la mia grande passione. È una cosa nata insieme alla musica, nei miei primissimi video provavo già a recitare. Sono ‘scimmiato’ da tutto ciò che concerne cinema e recitazione. Provo a metterla ovunque. Ultimamente sto anche cercando di staccarmi un po’ dalla musica e concentrarmi solo su questa cosa. Ad un certo punto credo di avere bisogno di allontanarmi dalla musica. È sempre un po’ rischioso: i miei fan sanno che faccio rap, non che faccio film. È lo stesso discorso degli attori che provano a fare i musicisti. È rischioso, ma chi se ne frega, a me piace. È la mia passione.
Durante il tuo percorso hai fatto diversi cambi, dalle influenze drum and bass e dubstep al Salmo con la maschera e quello senza maschera. Cosa è cambiato in questo tuo maturare, cosa c’è dentro questo percorso?
Non c’è mai stato niente di premeditato, ti dico la verità. Quando faccio i dischi non sto mai dietro troppo al cosa faccio e cosa devo fare o come lo devo fare. Lo faccio e basta. Vado sempre d’istinto, perché so che nell’arte è importante muoversi seguendo lo stomaco. Quando inizi a seguire troppo la ragione e a pensare troppo a quello che stai facendo, spesso tiri fuori una cagata. È importante andare in freestyle. Provare a rincorrermi ed evolvermi è una cosa che mi piace fare. Tutti i dischi che ho fatto sono diversi tra loro perché per me è importante stupire o almeno provare a farlo. Non voglio essere prevedibile.
E a che punto sei del tuo freestyle?
A livello musicale ancora non lo so. Non ci sto pensando (ride).
Parliamo di attualità?
Perché no.
Soltanto qualche settimana fa sei stato protagonista di una serie di commenti che ti vedevano paragonato al nuovo acquisto di casa Machete, Axos. Ho notato qualche screzio sui social.
Non è successo niente di trascendentale. Semplicemente, Andrea Axos è entrato in Machete, ha pubblicato cose nuove e molti hanno scritto che assomigliava a me. A parte che non è così, ma anche se fosse che ha qualcosa che ricorda Salmo, a me non è che può far piacere. Però non è così simile, lo puoi sentire. Scrive in un altro modo. Ci sono dei piccoli particolari che ricordano me, ma è normale. Anche a Nitro gli dicevano le stesse cose all’inizio (Nitro è lui. n.d.a.), che aveva la mia voce e il mio modo di scrivere. Non è vero, ma ripeto, a me non può che far piacere. Sono due artisti molto bravi, soprattutto Nitro, negli ultimi anni è diventato un fenomeno. L’ho portato io a vivere a casa mia e da allora ad oggi è diventato uno dei più forti in Italia.
Però renditi conto anche di una cosa: ogni volta c’è sempre qualcuno che deve rompere le palle. È la normalità in questo genere di cose.
È chiaro. Senti, ti chiedo un’altra cosa. Che cosa pensi della nuova scuola hip hop/trap, i cui protagonisti sono Ghali, Rkomi, Sfera Ebbasta, Magazine DPG e compagni?
L’opinione pubblica pensa che io sia un hater, che odi la nuova scuola. Probabilmente pensano questo perché sono io a farglielo credere, ma non è così. Io sono un supporter della nuova scuola. È così che deve andare, la musica cambia perché cambiano le generazioni. Ci sono nuove influenze e nuove tendenze. Da una parte è positivo, perché se non ci fossero questi artisti a dare nuova linfa ad un certo tipo di musica, in Italia la musica inizierebbe a morire. Quindi, queste nuove realtà sono importanti. Se ti piace o meno musicalmente, è un altro discorso, però dopo tanti anni mi sono reso conto che il discorso di qualità musicale o di bravura o di tecnica è una stronzata. La tecnica e la bravura sono fini a se stesse. Cercare di essere tecnici non è tutto, non è il segreto. Capisci?
Se tu sei bravo, funzioni. Fine.
Loro funzionano. E sai perché? Si stanno trovando nel posto giusto al momento giusto. Sono bravi a gestire la loro immagine. Ci sanno fare.
Io non sono un fan della loro musica, di come la fanno. Però mi piace tutta la situazione, questa cosa che hanno creato. All’inizio non capivo, perché mi rendevo conto che loro non vogliono essere hip hop. Non gliene frega un cazzo di esserlo, però nello stesso tempo questo movimento che hanno creato, credo sia la cosa più hip hop che io abbia mai visto negli ultimi anni. Sono tutti uniti, stanno tutti insieme. Hanno creato una crew a Napoli, c’è un movimento a Milano, c’è n’è uno a Roma. E sono tutti amici. Per adesso, poi vediamo più in là.
Esatto. Vediamo poi cosa succede.
All’inizio siamo sempre tutti amici. Poi, con il passare del tempo, non ce ne sono di amici. È quello il problema.
Però credimi, sono un loro supporter.
Anche della Dark Polo Gang?
Sì, anche di loro. Sono un fan dei personaggi. Per me loro sono i Sex Pistols del rap italiano. Pensaci se non è vero.
Mi prendo del tempo per pensare se sono d’accordo. Intanto torniamo a te, ultima domanda: stai affrontando un tour europeo importante, che segue ad una multitudine di date costellate da sold out. Cosa ti aspetti?
Io ho già fatto dei tour europei, però li ho fatti con le band e cantando in inglese. Ovviamente è una soddisfazione diversa, perché sto andando in giro per l’Europa cantando in italiano. Io lo so che quelli che ho davanti sono quasi tutti italiani, però gli italiani si portano dietro l’amico inglese, francese o spagnolo. I locali non sono grandi, ma per me sono i live migliori. Ho avuto la possibilità, negli anni, di suonare su palchi molto grossi, magari con 50.000 persone davanti. Quelle situazioni sono molto belle, ma le vedo sempre come una sorta di esame. Devi salire su un palco enorme, con tanta gente e deve essere tutto perfetto. È una situazione un po’ più fredda.
Invece quando suono nei locali più piccoli, mi ricorda da dove sono partito. Quando ho iniziato a suonare avevo davanti dieci persone. Sono i live piccoli, quelli dove hai le persone davanti, a due centimetri e alla tua stessa altezza. Diventa una cosa molto famigliare, intimo. Diventa magico.
Mi sto divertendo veramente tanto. È una bomba.
Foto di copertina: Salmo official ©
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