“Prossima fermata Rovigo. Prossima fermata Rovigo”, annuncia la voce registrata dall’altoparlante, mentre il treno rallenta. Ci avviamo verso le uscite, a quell’ora sempre i medesimi volti, vite di pendolari che s’incontrano quasi ogni giorno, senza però mai salutarsi.
Chi rimane seduto per continuare il suo viaggio non mostra nessun interesse per la città in cui si sta per sostare: nessuno guarda fuori dal finestrino, nemmeno un’occhiate veloce. Anche i vari turisti (si riconoscono immediatamente i turisti) diretti a Ferrara, a Bologna, a Padova, a Venezia, sembrano non fare caso a questa fermata: a Rovigo.
Eppure, è proprio dalle prossimità delle stazioni che si può intuire lo spirito della città in cui si sta per entrare. Giungendo da Nord, da Venezia quindi, se si prestasse attenzione al panorama esterno che introduce la città di Rovigo, si noterebbe un’estesa architettura postindustriale affatto banale. Sede di un ex zuccherificio storico, ora riconvertita in spazio congressi e mostre, il Censer è l’emblema perfetto dei non luoghi teorizzati da Marc Augè: così vasto da sembrare isolato, così dispersivo nelle sue strutture intersecanti da parer inabitato, e infatti ogni volta che passa il treno tra queste mura di fitti mattoni rossi non si intravede mai nessuno, solo qualche auto parcheggiata, nulla più.
È in questo stabile, simbolo di una modernità che resiste a un’architettura contemporanea talvolta asettica, che può, in parte, racchiudersi la simbologia presente nella città di Rovigo. Qui l’industriale si coniuga all’elemento naturale con spontaneità, dal Censer basta fare pochi passi a piedi per essere immersi nella riviera fluviale dell’Adige, in aree campestri pressoché prive di qualsiasi formalità cittadina, in un silenzio che solo le piccole città possono permettersi.
Ma è soprattutto quel silenzio che spesso diviene insopportabile, sono quei ripetuti fermi immagine di paesaggi che cambiano solo con il variare delle condizioni meteo a diventar pesanti, perché i sensi, oltre che di pace, hanno bisogno anche di varietà, di un guizzo inaspettato, di una scoperta e invece – Rovigo – funziona come un’istantanea perché si presenta sempre nello stesso modo.
La nebbia
Non si possono infatti descrivere i luoghi di Rovigo senza parlare della nebbia. Sia in autunno che in inverno, quasi a giorni alterni, chi vive nel Polesine vede i luoghi che lo circondano filtrati dalla coltre di bianco che imperversa sulla città. Strade, campi, case, tetti e persone vengono inghiottite dal velo di questo fumo, divenendo invisibili. Rovigo sparisce nel nulla. Restano soltanto i fari delle auto, le luci dei lampioni e di qualche finestra. Si prosegue a tentativi, con cautela, le pupille che incessantemente sbattono verso un impalpabile muro grigiastro, un senso di sospensione aumentato da suoni che arrivano attutiti e che rendono ancora più difficile distinguere ciò che ci circonda.
È un’invadenza involontaria che non si limita allo sguardo, ma entra nel respiro e nella pelle, avvolgendoci nell’umidità condensata: un’esperienza che coinvolge tutti i sensi e che si allunga, come intemporale, fra le sere di Novembre e le mattine di Marzo.
Si disegna un paese fantasma che cala sulla città fino a farla scomparire, riempiendo le estese campagne, mentre svanisce la sottile linea dell’orizzonte, assemblando in un’unica visione cielo e terra, nell’indefinibilità dello spazio.
E silenziosa è anche la mia uscita dalla stazione. I pendolari, precedentemente accalcati, si disperdono ora nel piccolo piazzale, sparpagliandosi, e facendo ricadere la zona ferroviaria in un sentimento di quiete. Un bus semivuoto parte, mentre un gruppo di tassisti appare in piedi sul lato estremo della stazione a chiacchierare: uno di loro getta un mozzicone di sigaretta per terra per risalire frettolosamente sull’auto; al mio passaggio lo calpesto. Per il resto, Rovigo tace.
Raggiungere il centro e le piazze dalla stazione è molto semplice. Camminando ci si impiegano in media quindici minuti, in auto o in bus appena cinque. Qualunque sia il percorso scelto, uscendo dalla stazione per andare verso il cuore di Rovigo non c’è modo di schivare il deposito delle corriere.
Ancora, un’architettura postmoderna che non smette mai di attrarmi. Il suono di un campanello mi fa voltare lo sguardo a sinistra, verso il deposito. È un’area semi circolare, composta da grandi stanze grigie dove gli autobus sostano o vengono lavati e riparati. Ambienti essenziali, dove nulla appare superfluo, scarni nei loro lineamenti strutturali, eppure custodi di quella relazione spazio/tempo appartenente ad altre epoche, priva di qualsiasi automazione: qui il rapporto uomo-macchina sembra viaggiare indietro nel tempo. “Di sicuro” mi ripeto camminando “Rovigo non è una città futuristica: Aki Kaurismäki la troverebbe interessante”.
Ghetto underground
Questo posto amo chiamarlo “ghetto underground”. Si trova vicinissimo al centro, alle piazze, sul retro di un pub, ma in un suolo pubblico appartenente al Comune. Ha tre entrate, tutte ben nascoste, su tre lati differenti. Il ghetto si presenta come un cortile circondato da edifici bassi, di massimo un piano. Ogni muro è rivestito di murales e graffiti. Qualche garage, depositi, la sede degli alpini le cui finestre sono verso un edificio abbandonato, che a sua volta si affaccia su un terreno dominato dai gatti.
Valicare questo luogo è per me come immergermi in un gioco psichedelico, un distacco dalla realtà provinciale degli ambienti del centro. Se si incomincia a girare su se stessi al centro della corte lo sguardo viene infatti assorbito dal passaggio repentino di forme multicolori, di distorsioni ottiche disorientanti. A Rovigo non ci sono giostre, ma questo è un luna park bellissimo e gratuito.
Mi colpisce, più di tutti, il murales in cui a dividersi il muro sono uno scheletro e una figura umanoide, quest’ultima non dipinta, ma costruita tramite materiali di scarto. Tra loro vi è una balloon fumettistica, con all’interno una frase illeggibile in cui si identifica la parola “mascherina”. Poi, al lato estremo, pieno di colori, si nota il volto di una tigre che ruggisce. Su un altro blocco affiorano le scritte “Je suis Charlie”, “Je suis Bruxelles” e “I can’t breath”: l’evasione, il valico immaginativo dei confini, mentre gli occhi si fanno rapire dal turbinio di colori dei disegni.
Il vociferare degli autisti, in pausa o alla fine del turno, si mescolano con quello degli attrezzi meccanici usati dagli operai per sistemare i bus, in una temporalità che non ammette varianti, un ritmo che segue un decorso quasi naturale. Sono quasi le sette di sera e il lungo corso che si muove verso il centro città è deserto. Niente negozi che si susseguono uno dopo l’altro, la gente non si accalca in giro a chiacchierare, non si ascoltano le voci umane miste al chiasso dei clacson e dei motori delle auto. A Rovigo, ancora una volta, domina il silenzio, interrotto, di tanto in tanto, dall’abbaiare di un cane, forse anche lui stufo di essere immerso nell’immobilità.
Passo davanti a molte vetrine impolverate, che riflettono ambienti vuoti dove l’unica traccia di un passaggio umano è testimoniata da un volantino affisso, e poi caduto, con la scritta: “vendesi”, “svuota tutto”, “ultima offerta”. Avvicinandosi al centro l’atmosfera cambia. Gradualmente sul viale riappaiono le luci interne dei negozi, che si riversano sui passanti, cercando di attrarli: le vetrine hanno un’aria pretenziosa, qualcuno si ferma ad ammirarle, mentre stabile appare il gruppetto di anziani che resta a chiacchierare ai lati dell’ingresso della piazza.
A Rovigo i cittadini sembrano essere dominati da un ciclo ripetitivo delle azioni che, stagione dopo stagione, si susseguono con una costanza che non ho mai riscontrato in maniera così precisa nelle altre città. Se si passasse ogni giorno e alla stessa ora per le medesime strade si noterebbero sempre le stesse identiche persone: esse mantengono l’equilibrio della ripetizione presentandosi nel medesimo punto in cui le hai incontrate ieri, l’altro ieri, la settimana precedente, il mese scorso. E se non si vede qualcuno, è perché di sicuro è successo qualcosa.
Ruderi
L’incrostazione che parte dal tetto giunge come il getto di un fulmine fino a metà muro, dove crepe si scontrano, ingarbugliandosi in forme dalla geometria impura. Certi blocchi della parete si sgretolano e nell’attimo prima di cadere, forse a causa di un movimento eccessivo di vento, restano sospese, spingendosi verso l’esterno, invadendo spazi a loro ignoti, mentre pezzi di vernice deteriorata giacciono per terra, come pioggia. Poi, nell’atto finale, arriva lo schianto, con la ruggine che ricopre l’intera serranda del garage, una prepotenza materica che si rafforza nei colori scuri, squarcia lo sguardo.
Ma le persiane non sono completamente abbassate, forse la casa non è disabitata.
Eccoli, i ruderi abitativi che nella loro esibizione espongono la storia di Rovigo, una città di bombardamenti e alluvioni, che si ricostruisce su macerie ormai troppo lontane per essere ricordate.
Tra la schiera di presenze costanti di Piazza Vittorio Emanuele II e Piazza Garibaldi, nel centro di Rovigo, compare il signore che porta a spasso il cane, proprio all’uscita da Corso del Popolo. Non ci conosciamo ma ci salutiamo comunque educatamente, talvolta mi ferma per lamentarsi o per raccontarmi del suo lavoro, io lo ascolto, perché mi fa sentire parte di qualcosa. Più aventi riemerge un’altra comitiva di anziani, gli stessi, per la precisione, che sono presenti anche alla mattina, ma che con l’incedere dell’ora hanno cambiato posto. Ho sempre pensato che il loro tono di voce sia troppo alto, le loro intonazioni, le locuzioni spiccatamente dialettali, mi raggiungono anche sul lato opposto del marciapiede e mi traghettano, insofferente, nel loro mondo di opinioni, una realtà da cui vorrei scostarmi.
Muto appare invece il giovane che quasi ogni sera si siede sulla scalinata del monumento Gran Guardia. Ha l’aria spaesata e vagabonda, in contrasto con l’espressione fiera degli habitué del locale alla moda, situato a fianco. E come le strade, anche i bar traboccano della stessa gente, mentre alcuni avventori rimangono fissi per tutta la serata nello stesso posto, interagendo, di volta in volta, con i nuovi venuti. Altri si spostano, passando dall’enoteca raffinata all’osteria più alla mano, per poi finire la nottata nel pub in stile inglese, il tutto situato talvolta nella medesima via.
I cinema del centro hanno chiuso ormai da tempo, il multisala situato nell’area industriale è andato a fuoco e per quasi due anni è rimasto inattivo. Niente concerti, a parte quelli jazz promossi dal Conservatorio e l’evento annuale del Deltablues. La musica dal vivo per i rodigini non esiste, per ascoltare un gruppo bisogna mettersi in macchina e procedere verso Bologna, Padova, Verona o Venezia, a un’ora almeno di strada, e poi occupare la casa di amici.
Superstrade polesane
Fasci di strade si intersecano deviando le auto verso orizzonti differenti. Scorre veloce il tempo qui, e possedere moto è l’unica regola permessa. Strade: presenze grigie che attraverso la densità del cemento e riaffermano la loro inconfutabile materialità. Un nucleo di camion, corriere e automobili che si intrecciano, sfiorandosi esclusivamente tramite il riflesso delle luci, proiettandosi all’esterno, invadono le vie e i volti degli altri guidatori.
Ci troviamo in uno dei nodi più trafficati di Rovigo, una rotatoria appena poco fuori dalla zona stadio, una strada che se si prosegue in direzione lineare porta verso l’ospedale e più avanti, continuando per vari chilometri, verso il mare (sì, Rovigo ha il mare e nella sua provincia, ma a 75 chilometri di distanza, a Rosolina mare, anche detta Rosapineta). Se invece si svolta a destra si va verso il polo dell’area industriale e commerciale rodigina, con direzione Ferrara. Sulla sinistra, via a Nord, si va a Padova. Tre mete diverse per tre superstrade apparentemente identiche, in cui il gioco di intervallo tra capannoni e campagna segna nel suo essere, come un marchio, il territorio polesano. Quando si viaggia in auto per il Polesine ogni posto sembra essere intercambiabile a un altro, non c’è infatti un luogo che emerga per qualche caratteristica particolare, l’unico segno distintivo è concesso dai cartelloni pubblicitari, diversi in base alle zone in cui ci si avvicina. Qui non abbiamo colli o montagne che definiscano l’orizzonte, ma i fiumi, Po e Adige, che si innestano su un panorama di ponti, dossi e campi intorno ai quali a mutare sono soltanto il colore e la velocità dell’acqua, oltre alla percentuale di umidità. Le Superstrade del Polesine si percorrono con l’entusiasmo di chi vuole raggiungere la meta, mentre lo sguardo si perde in un inganno sempre uguale.
Rovigo non ha fiducia nell’immaginazione. Il “fare, produrre, guadagnare” tipico del Veneto ha progressivamente spento gli spazi della fantasia, dimenticato la creatività. Un’esigenza, quella dell’esprimersi, esplosa nei graffiti che compaiono fra le vie nascoste del centro, impressa a colori sui muri: è lì per restare. Sono questi murales, insieme ai cineforum dell’Arci, al Festival Opera Prima, ai rave party in campagna, che contrastano il grigiore rodigino.
C’è una parte di Rovigo viva e forte, pronta a sperimentarsi anche lontano dall’ora aperitivo, la cui energia mi accompagna nel mio percorso quotidiano verso la stazione, in attesa del prossimo treno.
Passato il confine, anche la nebbia svanisce.
REDAZIONE
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