Ventisette volti colorati. Giganteschi. Negli ultimi due anni in cui ho vissuto a Roma, è stata la vista di cui ho goduto dalla mia finestra su via del Porto Fluviale. Nei due anni precedenti, invece, ho visto un uomo che dipingeva tutti i giorni la facciata grigia dell’ex caserma dell’Aeronautica Militare, occupata dal 2003. Quell’uomo si chiama Blu ed è uno street artist italiano di fama internazionale. Il progetto del murales è stato realizzato senza alcuna autorizzazione ufficiale, finanziato interamente dalle 450 persone che vivono all’interno dell’edificio. Dal novembre 2014, la caserma è dominata dai colori di quei visi allegri e mostruosi, con finestre al posto degli occhi. In un caso, al posto della bocca. Quest’immagine ha un solo sottofondo: il suono dei clacson delle auto incastrate nel traffico, in attesa all’incrocio con via del Gazometro.
Ostiense ha molti altri murales. E’ un quartiere colorato, in cui l’arte è per tutti. Per chi è imbottigliato nel traffico, per chi fa una passeggiata, per chi si affaccia a una finestra. Proprio di fronte all’ex caserma firmata da Blu, in uno dei punti con più traffico di Roma, c’è un’altra opera di street art, dal nome “Hunting Pollution” (“A caccia di inquinamento”) e nasce dalla mano di Federico Massa, in arte Iena Cruz. Ampio mille metri quadrati, il graffito rappresenta un airone tricolore, animale in via d’estinzione, immerso in un mare inquinato, mentre caccia la sua preda. E’ un dipinto speciale, dal momento che è anche ecologico: i colori usati sfruttano la tecnologia Airlite, che trasforma le pareti del palazzo in depuratori che riducono gli ossidi di azoto ed eliminano i batteri. In pratica, aiuta ad abbassare i livelli d’inquinamento dell’aria con la capacità di un bosco di trenta alberi.
Il simbolo del X quartiere di Roma, però, è il Gazometro, progettato nel 1909 insieme allo stabilimento del gas (oggi sede romana di Italgas) e voluto dall’allora sindaco Ernesto Nathan, che voleva fare di quell’area a ridosso delle Mura Aureliane e del Tevere un sito industriale. Si tratta di una struttura architettonica figlia del periodo dello sviluppo urbanistico, un cilindro reticolato di lamiere e profilati di alluminio, ma gli abitanti del quartiere gli vogliono bene: dall’inaugurazione, nel 1937, è uno di famiglia. In una città così legata ai simboli dello splendore imperiale, dell’arte rinascimentale e della maestosità della Chiesa, questo pezzo di archeologia industriale viene investito di una valenza poetica non immaginata nel progetto originale del primo decennio del ventesimo secolo. Quando il sole cala a Ovest, sconfinando nel quartiere Portuense, il Gazometro viene abitualmente immortalato nella sua veste più suggestiva: in uno sfondo che va dalle tonalità dell’arancio a quelle del viola, con a destra il Ponte dell’Industria, detto ponte di ferro, e il Tevere che si muove sotto di esso. Una delle foto più famose di Pier Paolo Pasolini lo ritrae proprio con questo sfondo.
Il quartiere Ostiense è anche il preferito del regista Ferzan Ozpetek, che qui ha girato Le fate ignoranti, uscito nel 2001. “Mi basta una passeggiata al Gazometro, meraviglioso Colosseo industriale, per smaltire un’arrabbiatura” ha dichiarato. Oggi, lo scheletro argenteo è uno dei protagonisti più apprezzati dello skyline della Capitale. Senza dubbio, uno dei più fotografati. Già quando non vivevo ancora a Roma, la sognavo. Mi ero presa una cotta per la Capitale da piccola e aspettavo l’iscrizione all’Università per trasferirmi. Quando a Roma non ci nasci, il rapporto con la città è, più che una relazione familiare, una storia romantica. Prima la vivi a distanza, ma quando la ami da vicino, ti fai abbattere dalla sua bellezza e dalle sue promesse. Non c’è scampo.
Il ponte dell’Industria, che collega Ostiense a Portuense, da via del Porto Fluviale a via Pacinotti, è stato costruito nel 1862 per collegare la ferrovia di Civitavecchia alla stazione di Roma Termini. Prodotto in Inghilterra da una società belga, è stato poi montato pezzo per pezzo nella Capitale. Ora il treno non lo percorre più, ma ci passano, invece, le auto e i pedoni, attraversando una struttura che testimone non soltanto del periodo in cui è stato costruito, ma anche di un periodo ben più cupo. In una targa posta all’entrata est, quindi da Porto Fluviale, vengono ricordati i nomi e i cognomi di dieci donne, fucilate proprio lì dai soldati tedeschi, il 7 aprile 1944. Le truppe di occupazione avevano tolto al popolo pane e farina, per destinarlo ai militari. Quelle donne assalirono il Forno Tesei, su quella stessa strada, per procurare cibo alle loro famiglie. Per questo, furono uccise.
Insieme al progetto del Gazometro, nel primo decennio del Novecento, il sindaco Nathan promosse anche quello per la costruzione del Porto Fluviale, i Mercati Generali e la Centrale Montemartini, ex stabilimento termoelettrici ora diventato museo, in cui convivono caldaie e mosaici, macchinari in ghisa e marmi. I Mercati Generali hanno vissuto una vita piena di voci e storie, di venditori urlanti e clienti intenti a contrattare per abbassare il prezzo, di banchi di frutta e verdura, pollame e pesce. Di quell’esistenza rimane un vuoto enorme, come la struttura che li ospitava, fatto di silenzio e di abbandono, nell’attesa che si avviino i lavori per il suo rilancio (dovrebbe diventare la cosiddetta “Città dei giovani”), ma per ora non ci sono cantieri. Almeno, dà un po’ di riparo ai clochard.
La mia storia con il quartiere Ostiense comincia e si svolge quasi interamente di notte.
Uno dei punti di riferimento dei ragazzi che lavorano nei locali notturni è un pub aperto fino alle prime luci del giorno, il “Mastro Titta”, dal nome del boia di Roma. Da Trastevere ci arrivavo con i colleghi e gli amici, passando accanto a Porta San Paolo, nata Porta Ostiensis, perché da lì inizia la via Ostiense, diretta al porto di Ostia. Fu poi cristianizzata e identificata come l’ingresso che permetteva di raggiungere la Basilica papale di San Paolo fuori le mura. Questo fu anche il teatro dell’ultimo tentativo di resistenza dell’esercito italiano, in lotta contro l’occupazione tedesca. Per non dimenticare quel giorno, c’è una targa commemorativa: “Alla Resistenza che eroicamente qui segnò il 10 settembre 1943 il secondo Risorgimento”. A pochi metri dalla Porta, si erge la Piramide che dà il nome anche alla fermata della metro B che si trova di fronte. Alta 36 metri, fu costruita tra il 18 a.C. e il 12 a.C., in un periodo in cui l’Egitto era provincia romana da già diversi anni e Gaio Cestio Epulone decise che voleva una tomba grandiosa. La ebbe in fretta: i suoi eredi la fecero costruire in soli 330 giorni, pena l’esclusione dall’eredità. Di notte, illuminata da fredde luci artificiali, non sembra fatta di calcestruzzo, ma di crosta lunare.
In una calda giornata primaverile, una mia amica mi ha promesso di portarmi in un luogo che ancora non conoscevo. Da una trattoria vicino casa, abbiamo passeggiato fino a piazzale Ostiense e da lì in via Caio Cestio, dietro la Piramide, ma già a Testaccio. Al civico 6, un cancello custodisce un giardino. E’ il cimitero acattolico, chiamato anche cimitero degli Inglesi o dei Protestanti e cimitero del Testaccio o degli artisti e dei poeti. Un luogo con molti nomi, in cui sono sepolti gli stranieri non cattolici, nonché i suicidi e gli attori, che non avevano il diritto, per la Chiesa, di essere seppelliti in terra consacrata. Cominciamo dalla parte sinistra, quella in cui sono sepolti i deceduti tra il 600 e il 700. Siamo proprio dietro la Piramide, in un praticello con delle panchine e qualche lapide. Alcuni visitatori sono seduti a leggere un libro, qualcuno sta disegnando. Sembra un prato come un altro. Una delle lapidi commemora il poeta inglese John Keats, morto di tubercolosi nella Capitale: “Questa tomba contiene i resti mortali di un giovane poeta inglese che, sul letto di morte, nell’amarezza del suo cuore, di fronte al potere maligno dei suoi nemici, volle che fossero incise queste parole sulla sua lapide: qui giace uno il cui nome fu scritto sull’acqua”. A poca distanza, una lastra risponde: “Keats! Se il tuo caro nome fu scritto sull’acqua, ogni goccia è caduta dal volto di chi ti piange”. C’è anche la tomba di un altro poeta inglese, Pierce Bisshe Shelley, scomparso durante un naufragio e sulla cui lapide sono incisi dei versi de La Tempesta di Shakespeare:”Niente di lui si dissolve, ma subisce una metamorfosi marina per divenire qualcosa di ricco e strano”. La cosa che mi colpisce di più è la pace. I cimiteri cattolici con i loro viali pieni di cipressi, croci e ceri danno la dimensione dell’angoscia, del non sapere cosa aspettarsi dopo. Qui, invece, si passeggia in un giardino, pieno di fiori e di sculture, accompagnati dai gatti della colonia felina della Piramide Cestia. Qui si ha la sensazione che i morti stiano riposando davvero. Le uniche croci sono quelle nella parte ortodossa. La mia amica mi racconta la storia di due delle numerose sculture di marmo presenti nel cimitero. L’Angelo del dolore raffigura un angelo che piange su una tomba, la testa sulla lapide, le braccia abbandonate alla disperazione. Lo ha scolpito l’artista statunitense William Wetman Story, per la morte della moglie. Morì lui stesso subito dopo averlo completato. La seconda scultura raffigura una ragazza stesa su una tomba. “E’ una giovane suicida tedesca – mi spiega la mia guida – che si è buttata nel Tevere”. Noto che tra le mani ha dei fiori freschi. E lei mi racconta che la leggenda narra che sia lo spirito della sorella della giovane, che ogni mattina le porta i fiori. Gli italiani sono pochi. Le eccezioni sono state fatte per personalità illustri, che per cultura o altre circostanze sono stati stranieri in Patria. Tra questi: Antonio Gramsci (sposato con una russa), Carlo Emilio Gadda e Andrea Camilleri.
A circa tre chilometri, invece, si erge uno dei templi del cattolicesimo: la basilica di San Paolo fuori dalle Mura. E’ la seconda basilica papale per grandezza, dopo San Pietro, e gode del principio dei extraterritorialità della Santa Sede. Lo Stato italiano non ha giurisdizione su questo suolo. La basilica è stata costruita vicino all’Abbazia delle Tre Fontane, dove la tradizione vuole che San Paolo sia stato seppellito dal discepolo Timoteo e in cui oggi è presente una piccola comunità di monaci Cistercensi della Stretta Osservanza. Monaci trappisti che producono la loro birra.
La notte fa luce su un altro mondo che popola il quartiere, fatto di gente che incontra il giorno solo quando torna a casa la mattina, o prima di andare al lavoro, nelle ore pomeridiane. Una vita che esclude l’altra. Ci si abitua all’oscurità e a ristabilire il proprio ritmo circadiano. Ad amare Roma con gli occhi di un gufo, che vede una bellezza che di giorno, a volte, è quasi scontata. I giovani e meno giovani che si ritrovano attorno a un bancone di legno, sotto le luci delle discoteche storiche del quartiere e quelle sotto il Gazometro in abito estivo, con i locali aperti solo per le manifestazioni stagionali, sono urla di gioia che barcollano sotto i lampioni del ritorno a casa. Urla di un popolo che cerca ancora la bellezza oltre il degrado. Urla di una città che è eterna ma non merita di essere ferma, scolpita in quell’eternità che sembra rassegnazione. Che sembra una condanna.
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