La Roma dei nostri giorni ricorda una Bangkok mediterranea. L’accostamento tra l’antico e il moderno, o, per meglio dire, il risultato della speculazione edilizia e la mala gestione delle infrastrutture, è palpabile in alcuni scorci. Primo su tutti, Porta Maggiore.
Piazza di Porta Maggiore appare come un immenso disastro urbanistico che ospita il più famoso e malfamato paninaro notturno, o zozzone, della capitale. Sono ben due le principali arterie intasate della città a confluirvi, Via Prenestina e Via Casilina, alle quali si somma Via Statilia, che la collega a San Giovanni. Dall’altro lato si snodano le strade che conducono verso Piazza Vittorio Emanuele e la Stazione Termini. I molteplici semafori sono disposti in maniera confusa, le corsie lungo le quali incanalarsi ancora di più. Sono sempre stata fermamente convinta che solo dopo aver acquisito una lunga esperienza di guida a Roma si possa riuscire a barcamenarsi tra le innumerevoli carreggiate di questa piazza senza provocare incidenti contro le auto che procedono in maniera casuale, scortate dal frastuono dei clacson in dolby surround, o i diversi tram che sfrecciano provenendo dai quattro punti cardinali.
Malgrado ciò, Porta Maggiore è in realtà un luogo incantato e millenario, una delle porte nelle Mura Aureliane, il punto in cui convergevano ben otto degli innovativi acquedotti che distribuivano acqua nell’antico centro amministrativo dell’Impero Romano. È una piazza imponente, un sito archeologico in cui dimora addirittura una ben nascosta basilica sotterranea della quale oggigiorno solo in pochi conoscono l’esistenza. Peccato che, quando vi si transita, si è sempre troppo di fretta, intenti a inveire contro gli automobilisti o a divincolarsi tra gli incalcolabili pericoli, per notarne e apprezzarne la bellezza.
Uno dei tram che attraversano Porta Maggiore è il celebre trenino che percorre l’ex ferrovia Roma Laziali-Pantano, declassata a Roma Laziali-Giardinetti (uno dei quartieri attigui ai sobborghi della periferia sud-est) in seguito al miracoloso avvento dell’apertura della tanto agognata Metro C.
Il trenino della Casilina, così conosciuto dal volgo, è un viaggio nell’Inferno dantesco. Il suo odore acre e ferruginoso ti si insinua nei canali respiratori e non li abbandona per diverse ore. I posti a sedere si vincono alla lotteria, gli intervalli di tempo tra una venuta e l’altra sono indefiniti. Ogni fermata è un girone che accorcia poco a poco le distanze con la porta del Purgatorio, il capolinea di Roma Laziali. Questo è situato in fondo all’enorme stabile della Stazione Termini, dal lato di Via Giolitti, una strada apparentemente sinistra, che, tramite un pestilenziale tunnel, si collega al quartiere della movida universitaria e alternativa, San Lorenzo.
Su Via Giolitti si susseguono negozi non ben identificati, parrucchieri per persone con capelli afro, fatiscenti ristoranti poco frequentati e losche comitive. Ciononostante, ai poli opposti di questo segmento asfaltato, caratterizzato da una poco rassicurante tonalità di grigio scuro, erano situati due dei luoghi chiave per i giovani aspiranti ribelli di diverse generazioni. Il primo, Discoteca Laziale, che offriva ai novelli ascoltatori un’interessante, ma non eccessivamente ricercata, selezione di dischi metal, grunge, post-punk e new wave: per chi scendeva lì, rappresentava una tappa obbligata.
Il secondo, e senza ombra di dubbio il più leggendario, era Lo Zoppo, un piccolo negozietto la quale decadente insegna, in realtà, recava la scritta (probabilmente ereditata) “Souvenir”. Lo Zoppo, nei suoi percepiti tre metri quadri di superficie, smerciava una quantità spropositata di toppe, spillette, gadget e t-shirt di gruppi musicali underground, oltre a catenine della Alchemy Gothic, ciondoli esoterici, borse militari, bandane, teli e borchie di ogni forma e dimensione. Non c’era un solo centimetro di quel posto che non fosse stato sfruttato al meglio. Tuttavia, per noi era soprattutto un punto di ritrovo. Chiunque sia cresciuto nel lato oscuro della capitale qualche decennio fa non può fare a meno di ricordarlo con nostalgia.
Ci ritrovavamo anche a Piazza del Popolo. Anzi, ci davamo appuntamento di fronte allo Zoppo appositamente per andare a Piazza del Popolo. Quattro fermate di metro, stazione Flaminio, ed eccoci catapultati nell’immensità della tracotante bellezza romana. Nulla a che vedere con il fetido squallore dei circondari della stazione. Ci incontravamo intorno all’elegante Obelisco Flaminio, ombelico della piazza, fatto trasportare via nave dall’Egitto per conto dell’imperatore Augusto nel 10 a.C. Lì ci scambiavamo cassette e CD masterizzati, sfoggiavamo outfit e makeup estremi, ci ubriacavamo sotto al sole cocente e qualcuno, offuscato dai fumi dell’alcol, si faceva addirittura il bagno in una delle quattro fontane sormontate dai gentili guardiani leoni. Ciò che distingueva la nostra comitiva dalle altre era innanzitutto il copioso numero di persone di diverse fasce di età che ne faceva parte, e, in secondo luogo, il mix di sottoculture che racchiudeva: punk, dark, grunge, metallari vecchia scuola, black metallari, raver, cyber, indie, zecche, skinhead. Più tardi ci sostituirono gli emo, si spostarono ai piedi di una delle due chiese gemelle, e tutto svanì nel nulla.
Nonostante le evidenti divergenze ideologiche, nei miei ricordi eravamo un’unica grande famiglia. Santificavamo con devozione ogni pomeriggio sulle scale di quell’obelisco, circondati da architetture solenni, flotte di turisti, famiglie che ci osservavano con curiosità o disgusto.
Quando decidevamo di muoverci, era spesso per recarci all’enoteca a Via di Ripetta o da Bacillario, negozio che vendeva a prezzi inaccessibili abiti e accessori gothic/fetish, oltre che modelli di anfibi al tempo irreperibili. Si trova (ancora, che io sappia) a Via Laurina, una piccola traversa di Via del Corso, il gremito corso cittadino, ovvero la strada centrale delle tre che hanno origine a Piazza del Popolo. I giorni in cui volevamo avventurarci in gite fuori porta, invece, salivamo sulla sovrastante Terrazza del Pincio.
Dalla Terrazza del Pincio, che si affaccia proprio su Piazza del Popolo, si intravede una buona fetta di Roma, tra cui la cupola di San Pietro e il gazometro del quartiere Ostiense. È collegata alla gloriosa scalinata di Trinità dei Monti, che discende in tutta la sua magnificenza verso la Fontana della Barcaccia di Piazza di Spagna, e si trova a una delle estremità di Villa Borghese. Questa villa è un misto di natura, storia, arte, regalità e patrimonio culturale, in cui però hanno spazio anche trovate folcloristiche, venditori abusivi, atti di vandalismo e guardoni.
La Passeggiata del Pincio è qualcosa di sublime, un insieme di deliziosi e labirintici vialetti alberati costeggiati da oltre 200 busti in marmo di tradizione rinascimentale, raffiguranti personaggi di spicco del mondo dell’arte, della letteratura, della filosofia e della scienza. Alcuni di questi busti sono mancanti, qualcuno li ha portati via. Chissà perché, chissà in che modo. Anche la mistica Fontana dell’Orologio è stata vandalizzata, presa a sassate. Questo magico idrocronometro, oggi così poco rispettato, venne addirittura presentato all’Esposizione Universale di Parigi del 1889. Si tratta di una timida colonna che alle estremità superiori presenta quattro quadranti e che si erige su una roccia sistemata al centro di un torbido stagno recintato da massi. Rischia di passare inosservato per la sua modesta struttura, tuttavia possiede un’alchimia tale da riuscire a calamitare ogni sguardo, seducendolo.
Nei pressi della fontana si trova uno dei punti di ristoro della villa, l’omonima Casina dell’Orologio. Qui si possono acquistare panini, tramezzini, dolci, fare un aperitivo e bere un caffè. Il personale indossa divise desuete e gesticola di conseguenza. I prezzi non sono modici e la qualità delle vivande non è sempre eccelsa, ma resta comunque un luogo molto frequentato sia da turisti che da autoctoni, così come lo sono i viali circostanti.
L’aria che si respira a inizio marzo differisce però dalla canonica atmosfera che generalmente contraddistingue questo nobile spazio verde. I presenti sono pochi e si muovono a debita distanza l’uno dall’altro. Il sempreverde turismo romano appare dimezzato. Sulla Terrazza del Pincio c’è abbastanza spazio per sedersi e chiacchierare, nessuno deve aspettare il proprio turno per scattare un selfie memorabile da postare tra le storie di Instagram.
Bianche scale di marmo usurate da suole di scarpe e smog, tornelli. Prima di oltrepassarli, puoi comodamente acquistare il biglietto avvicinando una carta con chip contactless, evitando in questo modo la coda alle macchinette automatiche. Una scoperta sensazionale. Due direzioni, una scelta. Altre scale, una banchina, ricoperta di linoleum nero e percorsi tattili di colore giallo per non vedenti. Convogli bianchi, relativamente nuovi, dotati di aria condizionata funzionante a fasi alterne, schermi che pubblicizzano ristoranti giapponesi e mostrano il meteo o l’oroscopo della settimana.
La linea A della metropolitana di Roma è la più longeva tra le tre, quella che attraversa l’intera capitale da nord-ovest a sud-est, passando per il centro storico. Da quando ho memoria, non c’è mai stata una sola volta in cui non abbia dovuto sgomitare per entrare o lottare per respirare. La Metro A è sempre stata piena zeppa di gente, a qualsiasi ora del giorno e della sera. Eppure, il clima di questo fine inverno è stranamente torbido, i passeggeri sembrano essere stati decimati e i sedili vuoti abbondano. Chi per qualche motivo è costretto a viaggiare con i mezzi pubblici si preoccupa di sistemarsi accuratamente lontano dagli altri presenti e di coprirsi la bocca con una sciarpa o un foulard. Volano taglienti occhiate circospette indirizzate a chi tossisce o starnutisce, non è il momento adatto per essere reduci da un’influenza invernale.
Molte fermate della Metro A sono collocate su Via Tuscolana: Porta Furba, Numidio Quadrato, Lucio Sestio, Giulio Agricola, Subaugusta, Cinecittà. Via Tuscolana è un’arteria residenziale, generalmente molto trafficata e frequentata da gruppi di individui più o meno giovani, in parte grazie alla predominanza di punti vendita dedicati allo shopping, locali notturni, cinema e ristoranti di ogni tipo. I giorni appena precedenti al 9 marzo, però, come a voler fare da specchio al flusso della sottostante ferrovia, il tipico viavai dei suoi marciapiedi appare diradato.
L’aeroporto G. B. Pastine (dove G. B. sta per Giovan Battista), meglio conosciuto come Aeroporto di Ciampino, è una rara oasi di efficienza romana. Un piccolo crocevia tra gli Stati europei e altri situati fuori dall’ormai offuscato Spazio Schengen. Nell’ampio atrio si sviluppa un’enorme serpentina per i check-in, spesso inutilizzata. Subito sulla destra si accede in tempi record ai controlli di sicurezza che, di norma, vengono svolti in tempi altrettanto record. È così compatto e agile che, dopo aver attraversato il duty-free, si viene immediatamente catapultati nell’area partenze costellata di sedili metallici, alcuni dei quali dotati di colonnine con prese USB. È qui che i dilatati tempi calcolati per evitare ritardi o contrattempi si manifestano in tutto il loro eccesso. Niente file, nessun terminal distante, pochi negozi in cui rischiare di perdere casualmente o volutamente tempo. Una volta entrati si è già giunti a destinazione, senza distrazioni. Una sosta al bagno, una al bar, poi l’attesa per l’annuncio del gate.
All’arrivo, l’iter è più o meno lo stesso. Una volta scesi dall’aereo, spesso i passeggeri trovano ad attenderli un bus che in pochi minuti permette loro di raggiungere l’uscita, situata subito dopo l’area di ritiro bagagli. Niente di più semplice.
Durante gli ultimi 12 anni, ovvero da quando vivo a Berlino, il mio corpo ha progressivamente assimilato questi processi, malgrado io non abbia ancora imparato a ridurre le canoniche due ore di anticipo suggerite dalla compagnia aerea di turno. Anche il 19 febbraio, quando sono atterrata qui per l’ultima volta, mi sono spostata lungo il medesimo percorso. L’ombra di una catastrofe incombeva su noi spensierati viaggiatori, preannunciata dai controlli della temperatura corporea effettuati per mezzo di affidabili termoscanner, esattamente come accade nei film di fantascienza di bassa lega confezionati per la TV. Pochi giorni dopo, per l’esattezza il 14 marzo, il terminal per i passeggeri dei voli di linea dell’Aeroporto di Ciampino è stato chiuso al pubblico, con circa una settimana di ritardo rispetto al resto della città.
Da una sinistra nube virale piovono repentinamente raffiche di termini già esistenti nel vocabolario della lingua italiana, sebbene, fino a quel momento, mai fuoriusciti dall’ambito medico-giuridico. Termini che si appropriano con veemenza degli ampi e al contempo angusti spazi della Città Eterna, oltre che del labiale dei suoi abitanti, trasformando una metropoli millenaria in tanti fitti e contigui alveari in conflitto l’uno con l’altro.
Pandemia, asintomatico, decreto, autocertificazione, contingentato, guanti monouso, assembramento, distanziamento sociale, paziente zero, malattie pregresse. Alcuni di essi appaiono come catene di suoni vuote al loro interno. Qualcuno fatica addirittura a pronunciarli. Chi si è mai espresso in un contesto quotidiano usando la parola “contingentato”? Con-tin-gen-ta-to. Suona così burocratese, così freddo. Eppure, ora, anche per andare al supermercato bisogna essere contingentati. In pratica, anche le persone comuni vengono contingentate. “Assembramento?” Non era mica “assemblamento”? Sono in molti a domandarselo.
Per non parlare dei vocaboli di origine straniera. Lockdown, smart working, pre-triage, contact tracing. Più che un momento di difficoltà, sembrano denotare un improvviso salto progressista nell’Europa unita. Finalmente siamo internazionali. Proprio ora che non possiamo più esserlo. Il paesaggio giallognolo forgiato dalle facciate dei palazzi nelle stradine adiacenti a Via Tuscolana appare sgombro, ma è solo un miraggio. È proprio l’eco di queste parole a riempirlo, rimbalzando da un laterizio all’altro, fino a raggiungere il limpido orizzonte delle prime giornate di aprile. Si percepisce un impellente bisogno di esprimersi con queste stringhe sillabiche che conferiscono a chi le pronuncia un senso di solennità e, allo stesso tempo, vacuità.
Esco dal cancello, giro a destra. La scena che si ripropone ai miei occhi a ogni uscita è eternamente identica: una fila perpetua, quasi disegnata, davanti alla macelleria. Persone, per lo più anziane, forse sempre le stesse, fanno da sfondo al marciapiede di Via Calpurnio Fiamma, che mi ha adottato nel periodo di quarantena. Indossano mascherine chirurgiche, ma ignorano la prescrizione del metro di distanza. Stanno lì, immobili. Attendono il proprio turno per acquistare il pezzo forte del banchetto della domenica, del Primo Maggio, o, prima ancora, di Pasqua, Pasquetta o del 25 Aprile. Si intrattengono osservando con sospetto e visibilio chi le circonda, interrogandosi sulla solita questione. “Non dovrebbero essere tutti in giro. Perché non vanno a casa?”, “C’è troppa gente”, sussurrano con diffidenza.
Faccio slalom tra di loro per evitare ogni eventuale contatto, svolto di nuovo a destra sorpassando l’ottico, per poi proseguire sul tratto pedonale di Via Flavio Stilicone. Sinuose panchine in cemento distribuite in maniera approssimativa si alternano a saracinesche abbassate a causa di sequestri amministrativi: è così che si legge sui cartelli affissi. Uno spaccio di forniture per parrucchieri spicca per la sua imperterrita e inspiegabile apertura al pubblico. Ci chiediamo tutti segretamente secondo quale criterio venga considerato un servizio essenziale. In ogni caso, un giorno, spinta dal tedio di frequentare esclusivamente supermercati, enoteche, tabaccai e negozi di casalinghi, anch’io ho varcato la sua soglia e vi ho acquistato alcune tinte per capelli.
Per combattere la monotonia, creo un percorso a zigzag che cerco di diversificare periodicamente. Mi muovo con fare guardingo, sperando di non incappare in un’ispezione da parte delle forze dell’ordine alle quali dovrei esibire un’autocertificazione che non ho mai stampato. Respiro aria proibita. Indosso la mascherina abbassata fino al mento, poiché altrimenti mi toglierebbe il respiro e mi appannerebbe gli occhiali da sole di fortuna acquistati al discount. La mia attenzione viene catturata da alcune profumerie vecchio stampo che espongono in vetrina prodotti obsoleti e impolverati. Per intenderci, profumi melensi, creme per il corpo ingiallite e marche di trucchi anni ’90 dal packaging poco accattivante, senza colori pastello e scritte come “Bio” o “Naturale al 98,9%”. Sono quelli volutamente tossici, che regalano uno splendore d’altri tempi, come le lacche per capelli che incollano indissolubilmente l’intera chioma facendo capolino da una réclame di metà secolo scorso.
Arrivo nel mio giardino segreto. È qui che vengo a telefonare, a fumare, a prendere una boccata d’aria pulita che mi riconduce ai tempi delle scuole elementari, quando ci portavano in gita al Parco Nazionale del Circeo per farci familiarizzare con la natura, con i nomi botanici degli alberi e con gli animali della macchia mediterranea. Eravamo bambini cresciuti tra blocchi di cemento. Grazie a quelle gite, ora so che la fresca ombra proiettata su Piazza dei Consoli è quella di pioppi e pini. I nastri gialli strappati recanti la dicitura “Comune di Roma” appesi a ognuno dei quattro ingressi indicano un vano tentativo di impedire l’accesso al parco, frequentato indistintamente da padroni di cani, coppie di anziani, presunti spacciatori, alcolisti solitari e gente come me, che ritrova in questo spazio un soffio di libertà perduto.
A ricordarmi di essere ben lontana dalla rigogliosa distesa verde di Villa Pamphilj c’è il pavimento lastricato di mattoni in cemento disposti a blocchi di colori alternati, grigio antracite e rosso rame sbiadito, ma ciò non basta a smorzare l’entusiasmo che questa passeggiata accende in me. Percorro l’area più e più volte, ampliandone così la superficie. Sulla sinistra sorge un parco giochi per bambini, adeguatamente sigillato, seguito da un campo da basket che ha tutta l’aria di essere abbandonato da tempo immemore. Al centro si schiude una sorta di doppio anfiteatro fatto di sedute continue in stile brutalista. È qui che, dopo pranzo o in seguito alla passeggiata domenicale brucia-grassi, assaporo le mie sigarette e sorseggio l’acqua di uno dei due nasoni funzionanti. Il resto della piazzetta è occupato per lo più da panchine ombreggiate e da un’area cani di cui non usufruisco.
Saluto con la solita malinconia questo luogo di perdizione, allontanandomi dal suo epicentro per rientrare verso casa. La severa Basilica di San Giovanni Bosco mi osserva solennemente mentre sembra venirmi incontro, con la sua cupola di bronzo e le finestre squadrate incastonate nell’austera struttura a forma di parallelepipedo. Ripenso a quella sera di fine febbraio, quando, intrisi di leggerezza, la prendevamo in giro per le sue fattezze poco aggraziate mentre cercavamo parcheggio. Invano.
Una scrivania in perpetuo disordine, un letto a una piazza e mezza su cui ormai mi addormento in posizioni random divorando le serie di Netflix, un beauty case esploso su una cassettiera, un tavolino bianco di Ikea su cui alloggiano alla rinfusa i miei hobby del momento. Un libro, un Kindle, un mazzo di Tarocchi, quaderni, blocchi e materiale da disegno. È tutto ciò che ho per impiegare il tempo libero, perché qui non dovevo restarci così a lungo.
Avrei dovuto alloggiare in questa camera per un breve lasso di tempo, un paio di settimane, massimo tre. Poi è arrivato il lockdown, sono stati impediti gli spostamenti e, come per uno scherzo del destino, si è trasformata nel mio universo. Qui dentro lavoro, studio, scrivo, mi alleno, pratico yoga, ascolto con voracità la Discover Weekly di Spotify, mi depilo, piango, rido.
La succursale della mia stanza, situata al settimo piano di un palazzo nei pressi della fermata di Lucio Sestio, è un balconcino di pochi metri quadri che mi mette in contatto con il mondo esterno. Dalla rete a rettangoli bianchi riesco a scorgere le fronde degli alberi, il tetto dei palazzi limitrofi, le persone che vivono dall’altro lato della strada e trascorrono il tempo insieme ai propri figli, congiunti o coinquilini, affannandosi nell’escogitare occupazioni con cui scandire l’avvicendarsi delle ore che compongono le pigre e interminabili giornate-fotocopia della primavera romana 2020. Dalla sedia ricoperta di scotch da pacchi, il mio lettino prendisole del weekend, inquadro una sorta di mansarda dal tetto spiovente, così geometricamente perfetta da richiamare le immagini dei libri di educazione tecnica delle scuole medie. Un dipinto mozzato alla radice.
Affacciati alle finestre circostanti, fino a un mese fa, i vicini cantavano l’Inno di Mameli e organizzavano i celebri flash-mob delle 18 per indorare la pillola dell’isolamento, palliativo che ha avuto vita breve. Un pomeriggio, io e la mia coinquilina, abbiamo risposto con gli Slayer. Le fiduciose voci che animavano i cori patriottici si sono lentamente affievolite fino a smorzarsi del tutto, assumendo la forma di isterici rimproveri in romanesco di cittadini verso altri cittadini che, a loro dire, non seguono le regole. Per me il balcone resta invece un luogo di silenzio dal quale contemplare il cielo per sfuggire alla claustrofobia.
Un rossetto fucsia? Un altro rosa carne, uno prugna. Matite per le labbra che coprono l’intera scala dei rossi, dal “nude” al rubino. Non sapevo di averne tante. Non ricordo neanche come tracciare una linea con l’eyeliner senza macchiarmi l’intera palpebra. Oltre ad abiti che non somigliano a un pigiama, decido di indossare anche una catenina con ciondolo e degli orecchini. E di spruzzarmi qualche goccia del mio profumo preferito.
È il 4 maggio, l’inizio dell’attesissima Fase 2, una splendida giornata di sole. Sono euforica, se non commossa. Devo recarmi a un controllo medico, ma mi sento come se stessi partendo per un festival, uno dei tanti a cui ho dovuto rinunciare quest’anno per via della pandemia.
Supero Numidio Quadrato, il confine oltre il quale non mi sono avventurata per quasi due mesi: “Fuga da Alcatraz”. Il vento mi scompiglia i capelli mentre cammino a passo spedito, ma non mi interessa. Voglio camminare, camminare, camminare fino a raggiungere l’altro capo della città. Non devo arrivare così lontano, soltanto a Colli Albani, a tre chilometri da dove vivo adesso. Mi muovo serena, riappropriandomi degli spazi che mi hanno cullato sin dagli albori della mia esistenza.
Negli auricolari rossi riecheggia “Emperor” di Mark Lanegan.
Ambra Cavallaro non sa più dove vivere, se a Roma (dove è nata nel 1987) o a Berlino (dove risiede da 12 anni). È un’avida lettrice, una polemica osservatrice e un’eterna indecisa appassionata di sonorità oscure e disturbanti. Lavora come traduttrice freelance e si sposta incessantemente nello spazio-tempo alla costante ricerca di nuovi progetti e pace interiore.
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