Se il mondo vuole parlare di me, allora deve sapere almeno come sono in realtà.
Anticonformista, bellissima e inconsolabile. Elisabetta Amalia Eugenia di Wittelsbach, imperatrice d’Austria, regina apostolica d’Ungheria, regina di Boemia e di Croazia, a partire dal 1955 diventa per tutti la Principessa Sissi, come nei film della trilogia di Ernst Marischka. Tuttavia, non è mai stata principessa (nata duchessa, divenne poi imperatrice) e mai si è chiamata Sissi. Il suo soprannome era Lisi, come la chiamavano nella casa di infanzia a Monaco e nella residenza estiva di Possenhof, in Baviera, fin quando Francesco Giuseppe d’Austria lesse male la sua firma e iniziò a chiamarla Sisi. La doppia consonante è una scelta del regista, che voleva dare un suono ancora più dolce al suo nome. Dolce, come il sapore che lascia il personaggio interpretato dall’attrice Romy Schneider, grazie a cui la vera Elisabetta di Baviera è entrata nel mito.
La sua vera storia, però, è molto più complessa e amara di quella raccontata sullo schermo. La stessa imperatrice ha fatto in modo che arrivasse fino a noi, per mezzo delle sue poesie, scritte tra il 1885 e il 1889 e ispirate da Heinrich Heine, che idolatrava. Le affidò alla fedele dama di compagnia Ida Ferenczy, affinché le tenesse al sicuro fino al passaggio di mano, alla sua morte, al fratello Carlo Teodoro, a cui spettava il compito di consegnarle a sua volta al Presidente federale svizzero e renderle pubbliche dopo sessant’anni a partire dal 1890. Solo allora, pensava Elisabetta, le “anime del futuro“ l’avrebbero capita e conosciuta in quanto donna, e non solo giudicata in relazione al suo ruolo all’interno dell’impero asburgico. Avrebbero conosciuto anche quella parte di lei che firmava a volte i suoi scritti: Titania, la regina delle fate di Sogno di una notte di mezza estate.
Nata la vigilia di Natale del 1837, Sissi fu la quarta dei dieci figli di Ludovica (sorella dell’arciduchessa Sofia, madre dell’imperatore) e di Massimiliano Wittelsbach, detto Max, il quale aveva altre due figlie illegittime che amava moltissimo, come amava anche la loro madre, sua amante. Con la moglie, invece, ebbe un rapporto molto infelice. Entrambi avevano il cuore altrove e, mentre al duca era concesso (in quanto uomo) di avere una storia più o meno clandestina, Ludovica dovette rinunciare al suo amore e dedicarsi a fare figli e a farli sposare con i migliori partiti in circolazione. A tale scopo, previo accordo con l’arciduchessa Sofia, Ludovica decise di partecipare ai festeggiamenti per il compleanno del nipote Francesco Giuseppe I a Ischl, residenza estiva della famiglia reale. Portò con sé Sissi e la sorella maggiore Elena, detta Nené. Il piano era quello di far fidanzare il giovane monarca con Elena e alimentare l’interesse del fratello Carlo Ludovico nei confronti della quindicenne Sissi. Le cose non andarono come previsto. Dal momento in cui rivide Elisabetta, tutte le attenzioni di Franz furono per lei. Elena era bella, intelligente, elegante, ma troppo austera. Fu subito messa in ombra dal carattere spontaneo e gioviale della sorella minore, stupita e dispiaciuta per averle rubato la scena e il corteggiatore. Le due sorelle erano vestite di nero, perché partite in fretta e furia dopo il funerale di una parente e non avevano avuto il tempo di cambiarsi. Nenè non era stata fortunata: quell’abito a lutto incupiva la sua espressione già severa. Sissi, invece, era luminosa. La mattina dopo l’incontro, secondo quanto scrisse l’arciduchessa nel suo diario, il figlio si precipitò nella sua stanza e, con lo stomaco pieno di farfalle, confermò la sua infatuazione con queste parole: “Quant’è dolce Elisabetta, fresca come una mandorla che si schiude! Come sono meravigliosi i capelli che le incorniciano il volto! Che occhi teneri e soavi e che labbra simili a fragole!”. Nonostante i dubbi della madre, che la considerava una ragazzina ancora selvatica e priva dell’educazione necessaria per la vita di corte, l’imperatore aveva scelto.
La giovane, invece, avrebbe detto a Ludovica che sì, ricambiava l’interesse per il cugino, ma temeva le conseguenze e le responsabilità legate al titolo e al rango: “Certo, gli voglio tanto bene. Se solo fosse un sarto qualsiasi!”. Sebbene i suoi genitori fossero entrambi nobili, e la madre di discendenza regale (il nonno Massimiliano era diventato re di Baviera nel 1805), a casa Wittelsbach l’etichetta non era mai stata presa in considerazione. Diventare imperatrice significava rinunciare alla spensieratezza e piegarsi alle rigide regole del cerimoniale spagnolo. Ma all’imperatore d’Austria non si dice di no.
Il matrimonio ebbe luogo il 24 aprile 1854 nella Chiesa degli Agostiniani di Vienna e i festeggiamenti si protrassero fino alle 11 di sera, dopo una cena di gala e una sfarzosa illuminazione a giorno della Capitale e residenza Imperiale, mentre i due sposi godevano dello spettacolo dalla loro carrozza (appartenuta prima a Napoleone, poi presa come bottino di guerra). Un cronista dell’epoca scrisse: “Sembrava che tutto il percorso si fosse trasformato in una sala da ballo”. Erano anni di carestia ed era iniziata la guerra di Crimea, il popolo era stanco e affamato. L’annuncio del fidanzamento e poi le nozze diedero speranza soprattutto a chi auspicava una svolta liberale. In effetti, l’unione con Sissi coincise con l’inizio di una serie di scelte più magnanime da parte del monarca assoluto: lo stato d’assedio nelle grandi città venne gradualmente revocato e i prigionieri politici furono messi in libertà prima di aver scontato tutta la pena o furono amnistiati. Fu promulgato un nuovo codice penale militare, con un allentamento di alcune leggi troppo rigide. Ad esempio, venne abolita la punizione del passare per le bacchette (il militare punito camminava tra due file contrapposte di soldati che lo fustigavano). La diceria, non confermata dalle fonti storiche, è che Elisabetta abbia chiesto tale provvedimento come regalo di nozze. Una differenza evidente rispetto a quando le decisione dell’imperatore subivano la pressante influenza di Sofia, per nulla moderata o tollerante, arcicattolica, poco incline al perdono e ossessionata dal rispetto delle regole. Anche nel campo religioso, la nuora fu l’opposto della suocera: l’imperatrice fece una donazione a una chiesa evangelica per la costruzione di un campanile, rivelandosi una fautrice della tolleranza religiosa e, quindi, un’avversaria del concordato, firmato nel 1855, che aveva segnato l’apice del cattolicesimo politico in Austria.
Sul conto di Sissi, però, l’arciduchessa aveva ragione: non era adatta alla vita di corte. La ragazza odiava le rigide norme di comportamento del cerimoniale, odiava essere trattata come un’incapace in quanto non avvezza ai pettegolezzi, odiava dover dar conto della sua vita privata (la notizia della perdita della sua verginità solo la terza notte si diffuse con una velocità da far invidia ai social network odierni). L’imperatrice voleva andare a cavallo, scrivere poesie, leggere libri, proprio come faceva quando era soltanto una Wittelbachs. La luna di miele fu triste. Franz si recava ogni mattina alla sua scrivania e lei passava le giornate a Laxenburg, sola, in mezzo a sconosciuti che dovevano educarla e servirla. In quei giorni compose “Nostalgia”:
Torna la giovane primavera
e copre l’albero di fresco verde
e nuovi canti insegna agli uccelli
facendo sbocciare più belli i fior.
Ma che m’importa delle delizie che offre primavera
in questa terra lontana e aliena?
Io sogno il sole della mia terra
io sogno dell’Isar la sponda.
Tuttavia, non si tratta solo di nostalgia di casa. A due settimane dalle nozze, l’imperatrice componeva versi sulla perdita della libertà (Invano maledico il baratto / che perderti m’ha fatto, o libertà!) e piangeva la morte del suo unico vero amore, uno scudiero stipendiato dal duca Max e da lui trasferito altrove, una volta scoperto l’idillio con la figlia. Il giovane tornò qualche tempo dopo, ma si era ammalato e morì. Elisabetta ne fu devastata e non aveva mai smesso di pensare a lui (Amato ho veramente / solo una volta, e fu la prima). Col tempo, imparò ad amare anche Francesco Giuseppe, che la adorava.
La nascita della primogenita, Sofia, significò un momento di grande gioia per la coppia, ma anche il punto di non ritorno della guerra tra suocera e nuora. L’arciduchessa ottenne di potersi occupare della bambina e, l’anno successivo, anche della secondogenita Gisella, in quanto considerava Sissi lei stessa una ragazzina (aveva allora 19 anni) ancora impreparata alla vita di corte. Sissi si oppose, pianse, scalpitò e provò a convincere Franz, ma invano. Fino al 1857, quando la coppia imperiale si preparava a un viaggio nelle province austriache della Lombardia e del Veneto e in Ungheria. Durante la guerra di Crimea, l’Austria si era schierata contro la Russia, senza tuttavia allearsi con gli Stati dell’Europa occidentale. Una situazione favorevole per la Prussia, ma anche per il Regno di Sardegna, in testa al movimento per l’unificazione italiana, che nel frattempo si era garantito l’appoggio della Francia di Napoleone III, nuova potenza egemone in Europa, a discapito della Russia. Il viaggio nel Nord Italia era una dimostrazione di forza: l’imperatore non aveva intenzione di cedere quei territori. In questa occasione, Elisabetta sfidò apertamente l’arciduchessa e riuscì a portare la primogenita con sé in un viaggio che poteva essere molto pericoloso, vista l’avversione del popolo italiano. Il disprezzo delle folle era evidente. A Venezia, la gente accalcata (per lo più per ammirare la bellezza di Sissi, come scrisse il console inglese) rimase in silenzio. Tutt’altra storia rispetto agli “Evviva” e alle dimostrazioni d’affetto ricevute in Austria. Agli spettacoli di gala alla Scala di Milano, gli aristocratici mandarono la servitù a occupare i palchi. Poi toccò all’Ungheria, che chiedeva una maggiore autonomia dall’Austria e di tornare alla vecchia Costituzione magiara. Qui, l’accoglienza divenne meno fredda mano a mano che Sissi si faceva vedere in pubblico. Il popolo la amava, ricambiato. Non era un segreto che l’imperatrice avesse un forte interesse nei confronti della storia ungherese, di cui aveva studiato la lingua. Era evidente, inoltre, che fosse più felice tra quella gente che in mezzo agli aristocratici viennesi. Per questo viaggio, aveva ottenuto di farsi accompagnare da entrambe le figlie, ma Gisella si ammalò dopo qualche giorno, con febbre e diarrea. Quando guarì, si ammalò Sofia, che morì dopo undici ore di agonia. Da Budapest, Francesco Giuseppe telegrafò alla madre: “Siamo distrutti”. L’imperatrice non si riprese mai da questa perdita. Si sentiva in colpa per aver voluto portare le figlie con sé e, tornata in Austria, rinunciò a qualsiasi diritto di madre: lasciò nelle mani della suocera l’educazione di Gisella e quella del principe ereditario, Rodolfo, che nacque nel 1858, un anno dopo.
Rinunciato anche al ruolo genitoriale, l’unica occupazione di Elisabetta era prendersi cura della sua bellezza, che divenne una vera e propria ossessione e la portò all’anoressia. Le sue diete rigide prevedevano lo stesso alimento per giorni (brodo, latte, tè, succo di carne cotta e poi spremuta). Il regime squilibrato provocò degli edemi alle gambe che già a 23 anni le impedirono di camminare correttamente. Eppure continuava a passeggiare, fare ginnastica e cavalcare fino allo sfinimento. Per stringere il suo corpetto, che non doveva permettere al suo leggendario vitino di allargarsi, era necessaria un’ora. Nulla, in confronto alle tre ore dedicate ai suoi lunghi capelli che arrivavano alle caviglie e che le causavano frequenti mal di testa. Li lavava una volta a settimana con un impasto di uova e cognac. La parrucchiera di fiducia inventava sempre nuove acconciature e doveva, a fine seduta, porre su un vassoio d’argento i capelli caduti e mostrarli alla sovrana, che non ne era affatto felice. Per evitare rimproveri, se li attaccava grembiule.
Essere invitati a pranzo dalla coppia reale non era una gioia per il palato: se da un lato l’imperatrice non toccava cibo, dall’altra Francesco Giuseppe mangiava sempre di fretta per via dei suoi impegni. Di norma, i camerieri dovevano togliere i piatti di tutti subito dopo che i sovrani avevano finito la loro porzione. Pertanto, gli ospiti non avevano neanche il tempo di cominciare.
Nonostante la sua bellezza fosse indiscussa, Sissi aveva un difetto di cui si vergognava molto: i denti guasti. Per questo motivo, preferiva non aprire mai molto la bocca e parlava a voce bassissima. Pertanto, i nobili della corte la deridevano e la consideravano “bella, ma stupida”. Smise di farsi fotografare a circa 30 anni, così da rimanere per sempre giovane e all’apice del suo splendore.
A causa del dolore per la morte della figlia e delle poche attenzioni del marito, impegnato con guerre e amanti, Sissi si ammalò di depressione. Solo che allora venne diagnosticata come tubercolosi e il medico di corte le consigliò di curarsi altrove. Il primo viaggio, per motivi di salute, fu a Madeira. Finalmente lontana da Vienna, lo stato di Elisabetta migliorò. Scriveva al marito quotidianamente e con affetto, ma ancor prima di tornare pensava alla prossima fuga. Continuò a viaggiare in tutta Europa: in Italia, dove sua sorella Maria aveva sposato l’erede al trono Borbone, in Irlanda, Ungheria, a Corfù. Dedicò molte poesie al mare e si fece fare il tatuaggio di un’àncora dietro la spalla. Nell’isola dell’Egeo, fece finanziare al consorte la costruzione di una residenza piena di dipinti e sculture. La chiamò “Achilleion” in onore del semidio che intimamente amava, il protagonista dell’Iliade, Achille. Sissi si rifugiava nell’amore mitologico e fuggiva da quello terreno.
La sua bellezza, le scelte ribelli per l’epoca (oltre al tatuaggio, era una fumatrice) e i viaggi senza marito aizzarono le malelingue. Ebbe molte amicizie, ma nessuna relazione romantica. Tra gli amanti attribuiti, vi furono il capitano William Bay Middleton, a cui era legata dalla passione per le corse a cavallo e la caccia, e l’austriaco Fitz Pacher von Theinburg, che conobbe a una festa in maschera, alla quale si presentò celando la sua vera identità, per mischiarsi alla gente al di fuori della corte. Nel 1866, conobbe il conte Gyula Andrássy, un rivoluzionario ungherese fuggito in esilio inseguito alla condanna a morte e tornato in patria grazie a un’amnistia. Un uomo colto, carismatico, affascinante. “Gli ungheresi ne fecero un eroe nazionale, i non ungheresi spesso un mascalzone” scrive la storica Brigitte Hamann. Già simpatizzante della causa ungherese e intollerante nei confronti della vita di corte, Elisabetta ebbe idee sempre più liberali e arrivò ad abbracciare ideali antimonarchici. Nel 1867, si raggiunse il compromesso: la vecchia costituzione magiara tornò in vigore e si creava di fatto un doppio stato nell’impero, l’Austria-Ungheria. Sissi e Franz furono incoronati re e regina di Ungheria e a Budapest fecero nascere la quarta figlia, Maria Valeria, “la bambina ungherese”. Si disse che in realtà era figlia di Andrássy, nominato primo ministro, ma la piccola era identica all’imperatore. Questa volta, Sissi fu una madre presente e affettuosa. Ciononostante, la più piccola crebbe con idee lontane dalle sue: divenne conservatrice e intollerante. Soprattutto, per tutta la vita, odiò gli ungheresi. Il principe, al contrario, ebbe l’indole sensibile dell’imperatrice e i suoi ideali di giustizia e libertà. Come lei, fu ammaliato da Andrássy, che elesse a suo mentore. Sebbene il rapporto con Sissi non fu mai recuperato del tutto, il figlio le era molto grato. A soli sei anni, il padre aveva provato a farne un soldato, allontanandolo dalla corte e affidandolo a un precettore che aveva il compito di addestrarlo militarmente, senza sconti, neanche quando doveva essere punito. Elisabetta venne a conoscenza di cosa stava accadendo durante uno dei suoi viaggi. Tornò a Vienna, su tutte le furie. Pretese e ottenne di potersi occupare di Rodolfo e scegliere per lui un nuovo maestro: il piccolo ebbe così un’educazione eclettica, moderna e di impronta liberale. Tuttavia, i traumi dell’infanzia non lo abbandonarono mai e i fantasmi della sua mente aumentarono con gli anni. Fino al 1889, l’anno dei cosiddetti fatti di Mayerling, la città della Bassa Austria dove il suo cadavere fu trovato insieme a quello della sua amante, Maria Vetsera. Si trattò di un doppio suicidio: lui le aveva sparato, con il suo consenso, e poi si era ucciso. Alla moglie Stefania del Belgio (da cui aveva avuto una figlia) lasciò un biglietto d’addio: “Cara Stefania, sei liberata della mia presenza, che è una vera piaga per te. Sii felice a modo tuo”.
La notizia raggiunse Elisabetta a lezione di greco, mentre leggeva Omero. Mostrò grande autocontrollo e fu lei stessa a informare l’imperatore, che si trovava con la sua amante, l’attrice Katharina Schratt. La consorte approvava la liason. Per meglio dire, l’aveva incoraggiata. Si preparava ad abbandonare per molto tempo la corte che odiava e sapere che Francesco Giuseppe non era da solo alleggeriva il peso del senso di colpa. La morte di Rodolfo rese Sissi inconsolabile. Smise di scrivere poesie e si avvicinò allo spiritismo. Divenne più spericolata, non badava alle conseguenze. “Più di tutto – raccontò la nipote Amalia, come riporta Brigitte Hamann – le sarebbe piaciuto vedere affondare la nave sulla quale si trovava durante una furiosa tempesta”. Negli anni a venire, i suoi comportamenti divennero bizzarri e capricciosi. Si diceva che stesse diventando pazza come il cugino Luigi II di Baviera, morto qualche anno prima di Rodolfo, e a cui era molto legata.
Le avventure, il dolore, la pazzia, finirono di colpo, la mattina del 10 settembre 1898, a Ginevra. Poco prima, l’anarchico italiano Luigi Luccheni leggeva su un giornale locale che l’imperatrice d’Austria e regina d’Ungheria si trovava in città. Elisabetta alloggiava all’hotel Beau Rivage sotto falso nome (era la contessa von Hohenembs), ma qualcuno l’aveva riconosciuta e la notizia era diventata pubblica. Luccheni si era recato in Svizzera per uccidere il principe d’Orléans, che però non aveva trovato lì, come previsto. Ma qualsiasi nobile andava bene, tanto li odiava tutti, come disse lui stesso durante l’interrogatorio. E Sissi andava più che bene. La seguì nel tragitto a piedi verso il pontile da dove si sarebbe imbarcata per Montreux, insieme alla contessa ungherese Irma Sztáray. Appena fu alla sua portata, Luccheni si avventò sull’imperatrice e la colpì al petto con una lima affilata. Lei cadde a terra, ma si rialzò. Turbata dal gesto dell’uomo, chiese alla dama di corte se era stato un tentativo di rubarle l’orologio e continuò a camminare: credeva di aver ricevuto un pugno in petto. Ma una volta imbarcate perse i sensi e morì. Le sue ultime parole furono: “Cosa mi sta succedendo adesso?”. La ferita piccolissima aveva fatto fluire il sangue nel pericardio molto lentamente, fin quando il cuore non aveva smesso di funzionare. La regina triste era morta senza soffrire. L’imperatrice antimonarchica era stata uccisa in quanto rappresentante della monarchia, colpita al petto con uno strumento da lavoro, perché mai aveva lavorato.
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