Pordenone? Ho fatto il militare a Pordenone.
Pordenone, quella del great complotto.
Pordenone dei Tre Allegri Ragazzi Morti e del ‘prova a star con me un altro inverno a Pordenone’. Pordenone così a nord che è vicino a Bolzano.
Pordenone, dove ti mandano in punizione se non righi dritto. È in Veneto o Friuli, Pordenone?
E i pordenonesi, esistono?
Pordenone, hai detto?
Pordenino, Pordenoia.
Il monte Cavallo, al centro, se lo guardi bene al tramonto, in cima sembra il profilo di Dante, addormentato col naso all’insù. Lo spritz servito rigorosamente in calice, due patatine, un’oliva impalata dentro il bicchiere, e poi un saluto cordiale, ci conosciamo anche se non ti vedo mai, diobòn. La parlata che non è friulana, anche se siamo in Friuli, eppure non è nemmeno veneta, che il Veneto sta lì di fronte: quando dici PordenoOone, con le sgraziatissime vocali aperte, quasi ti si deforma la bocca, come volessi inghiottirla, la città, campanile compreso.
Pordenone è piccola, graziosa, ma non è bella, non della bellezza che ci si aspetterebbe, almeno. Il centro storico è raccolto, con l’influenza tipica dei borghi che sono stati per un periodo parte della Serenissima: due eleganti corsi principali con molti portici e colonnati, arricchiti dai vicoletti che si arricciano intorno. Corso Garibaldi, più ampio e in parte pedonale, gradualmente sfuma verso Corso Vittorio, il più caratteristico, che si affusola, restringendosi, fra alti palazzi storici, altri colonnati, altre logge.
All’estremità il palazzo del municipio sembra un’illustrazione, semplice ma efficace, con la sua facciata in mattoni dalle curve delicate, le numerose volte che incorniciano la loggia sottostante, ma soprattutto il grande orologio astronomico dorato al centro, il mio elemento preferito. Tutto il centro si visita a piedi in meno di venti minuti, prendendosi persino il tempo per contare i nidi di rondine sotto i portici. Quando ero ragazzina ricordo che le mie compagne di classe mi introdussero al mondo de ‘le vasche in centro, come a Milano’: si camminava su e giù per i corsi, atteggiandosi da adulte compiaciute e osservando le vetrine, tutte, anche quelle di camicie da uomo. Arrivate alla loggia del municipio si tornava indietro e si ricominciava da capo finché non avevamo creato un solco sui sanpietrini.
Amo la Pedemontana del Friuli, quella zona che da Pordenone arriva verso le montagne e dove praticamente ogni 4 chilometri si parla un dialetto diverso, e realtà immense sono condensate in pochi metri quadrati. Patria di cuochi e camerieri per la più ricca Venezia, oppure minatori partiti in massa, per lavorare in Belgio. Già, fino a neanche 50 anni fa qui non c’era la metà di quello che vedi, era quasi tutta campagna. Mia nonna abitava in centro, non lontano da corso Vittorio dove, pensa, proprio l’altro giorno è stato venduto un palazzo per 4 milioni di euro. Ecco, io mi ricordo ancora quando andavo a trovarla, con le galline e i conigli in giardino, e in casa non aveva né bagno né acqua corrente, e non era certo l’unica a quel tempo. Adesso si, siamo una città, ma abbiamo ancora memoria del prima. (Mio papà, con la sigaretta accesa fra le mani giganti).
A volte, quando ero da sola o con le amiche più strette, mi piaceva andare a salutare Egle. Allora superavamo il municipio, attraversavamo piazzetta San Marco lasciandoci il duomo con la sua facciata spoglia e il campanile sulla sinistra, per raggiungere il ponte di Adamo ed Eva, un ponticello di pietra che prende il suo nome fraintendendo quello delle due statue al suo ingresso: Giove e Giunone. Da qui si incontrave il Noncello, un fiume di media portata che oggi scorre in sordina ai lati della città, ma che in passato era il punto focale attorno al quale si sviluppò Portus naonis (letteralmente: porto fluviale sul Noncello), il primo insediamento romano, da cui venne poi fondata Pordenone. Con i secoli la città si è spostata sempre più verso l’entroterra e il fiume è stato parzialmente sotterrato dal cemento, che ne ha asfissiato diversi tratti. L’acqua però non si è ritirata del tutto, e molte volte, quando piove tanto, accade che il Noncello straripi, cercando di riprendersi ciò che una volta era suo. Quando la stagione era più secca e l’acqua più limpida era possibile individuare Egle: una bicicletta immersa tra i flutti, di cui si poteva ancora notare l’originale colore rosso fiammante, ancora non del tutto arrugginito e a cui ci eravamo divertite a dare un nome. Per ammazzare il tempo ci ritrovavamo spesso a metà del ponte, amavamo guardare il fiume, acqua verde circondata da ulteriore verde, quello delle foglie, dell’erba, del muschio. Ci piaceva inventare storie sulla sua fantomatica proprietaria e ci sentivamo come quella bici: un mezzo di locomozione impedito nel movimento, allagato, incastrato, soffocato da una realtà minuscola, ma con il potenziale di poter andare dappertutto, esplorare l’inesplorato.
Pordenone è una di quelle città che quando sei adolescente trovi “stretta” e noiosa. Poi cresci, gli amici che restano ti fanno apprezzare i piccoli momenti vissuti insieme, anche solo bevendo un bicchiere di vino al solito bar. Con loro fai sogni, crei sogni, realizzi sogni. Ti basta trovarti la sera in corso Vittorio Emanuele guardando in lontananza il municipio e inizi ad apprezzarla. È una piccola città che sa farti innamorare, a volte cocciuta e “immobile”, ma che è abitata da gente con il cuore. Non c’è un luogo o una cosa specifica che me la rende figa, ma un mix di cose che forse sono difficili da spiegare, che valgono la pena di essere vissute. (Moschio).
Ci sono dei momenti in cui Pordenone si spoglia del suo abito provinciale e si mascherava da città vera, con la sua confusione, la folla, i turisti. Succede, ad esempio, per Pordenonelegge, il festival del libro con gli autori, a settembre, che quest’anno ha raggiunto la sua diciannovesima edizione. La città si veste di giallo e per quattro giorni migliaia e migliaia di persone affollano il centro, agglomerandosi in code disordinate fuori dai palazzi e dai padiglioni dove avvengono gli incontri. Ricordo una grande confusione, code, rumore, ma soprattutto mi ricordo con quanta emozione aspettavamo che uscisse il catalogo della manifestazione. Sembrava incredibile che proprio fuori dalla porta di casa ci fossero decine e decine di conferenze, incontri, presentazioni, mostre, addirittura autori stranieri con l’interprete. Una volta ho servito il caffè a Zerocalcare, a momenti glielo lanciavo sulla maglietta, per l’emozione. Nel tendone dei libri usati e dei fuori catalogo si assiepano hipster, radical chic, disadattati, pronti a litigarsi l’edizione più rovinata de I fiori del male (la mia copia mi è costata una corsa olimpica verso la cassa): da ragazzine potevamo permetterci di acquistare un libro della Adelphi. In quei giorni a Pordenone si respirava, si respira cultura, l’educazione avveniva quasi per osmosi, talvolta contrapponendosi alla maleducazione di alcuni spettatori insardinati dietro transenne e cordioli, soffocati dallo stress di una città che sembrava non riuscire a contenere una tale affluenza. Il centro rischiava di esplodere da un momento all’altro, fino alla domenica sera, quando in un battito d’ali, appena girata l’ultima pagina, il tranquillo mortorio riprendeva, gli amanti dei libri sparivano e la città, un po’ frastornata, rientrava nel suo canonico silenzio. Noi tornavamo a sognare Parigi.
Pordenino è un bellissimo presente, non è più così ino, anzi per certe cose è one! Per le giornate del cinema muto, per esempio, vengono da tutto il mondo, ma non per il turismo (la nostra città non è certo Venezia). Ciò che li porta da noi, in quei giorni, è esclusivamente la loro pura e semplice passione, e trovo che sia meraviglioso. Ci sono così tanti movimenti culturali che adoro, penso a Cinemazero, ad esempio: un piccolo cinema sede di un’associazione così grande. Nanni Moretti, pensa, ci viene tutti gli anni, cascasse il mondo. Eppure basta allontanarsi appena cinque minuti dal centro e si è praticamente in mezzo ai boschi, e la periferia stessa è ricca di orti curati, di campagna. In questa città si impara continuamente, se si è abbastanza attenti. (Micaela, mentre accarezza il grigio gatto Paolo).
Un po’come a sottolineare la commistione di opposti che contraddistingue la città, al festival della parola scritta segue, all’inizio di ottobre, il festival “Le giornate del cinema muto”, sette giorni in cui al teatro Verdi, il teatro comunale, vengono proiettati storici film muti, per più di dodici ore al giorno. Le pellicole vengono quasi sempre musicate dal vivo da orchestre, quartetti jazz, solisti e musicisti da tutta Italia. Cinemazero e Cineteca del Friuli organizzano questo evento ormai dal 1982 ed è uno dei più importanti al mondo nell’ambito del cinema muto. Probabilmente è molto più considerato all’estero che in casa propria, io stessa l’ho scoperto durante l’anno in cui ho lavorato come maschera al teatro, e mi ha inghiottita, masticata e poi risputata, ripiena, sconvolta, arricchita da nuova passione e da un ciuffo ondulato sulla fronte, che non ne ha più voluto sapere di cambiare forma.
Gli spettatori delle Giornate del Cinema Muto, il Pordenone Silent Film Festival, arrivano da ogni dove e sono una nicchia di pubblico molto meno numeroso e assordante rispetto a quella del festival del libro, molto più pittoresco e diversificato. All’esterno del teatro la folla si diluisce facilmente, quasi non si nota, eppure basta superare l’ingresso del Verdi per ritrovarsi in una foto in bianco e nero, con il tirabaci sopra l’orecchio sinistro e dei meravigliosi guanti di seta: sfilano look da fare invidia agli anni ’20. Sullo un film muto, che risuona però di scarpe di vernice, ticchetta di orologi da taschino, cappelli di feltro e borsette a cloche che si chiudono con un secco ‘clack’. Poi inizia l’orchestra, la sala diventa buia e le immagini sbiadite brillano sullo schermo: si sente solo la musica.
Al concentrato vintage dell’interno delle sale si contrappone la facciata moderna del teatro, inaugurato nel maggio del 2005 dopo quasi tre anni di lavori. È stato costruito sulle ceneri del vecchio Cinema Teatro Verdi, demolito per fare spazio a questo colosso cilindrico bianco sgargiante, che quando lo hanno completato in tanti si pensava che si fossero sbagliati. Ci sono voluti un po’ di anni prima che tanta immacolatezza venisse ingrigita dalla pioggia e dallo smog, permettendo al povero teatro comunale di mimetizzarsi con il contesto. Il tempo, soprattutto, è servito ai pordenonesi per smettere di considerarlo un ospite scortese, un invitato di straforo, incastrato tra il Palace Hotel Moderno e i portici veneziani, e trattarlo finalmente come si merita, da ospite d’onore, se non addirittura da padrone di casa. La prima volta che sono andata al Teatro Verdi, l’anno dell’inaugurazione, ero con mia sorella, e c’era Stefano Benni che leggeva Lolita di Nabokov, mentre un’elegante ballerina ne danzava le parole. Dopo un’adolescenza passata a vedere gli spettacoli dalla “laterale studenti” del minuscolo auditorium Concordia, ci pareva un salto spaziale, entrare in un teatro vero. Doveva essere uno dei primi spettacoli in cartellone, perché si respirava ancora un’atmosfera da evento mondano, quasi cerimonioso. Ricordo di aver perso il conto delle signore impellicciate, un’esagerazione, dal momento che ottobre quell’anno era stato piuttosto clemente con le temperature; aspettavo il momento in cui le avrei viste sudare, sia per il caldo, ma soprattutto per il momento in cui Humbert Humbert si prende la dodicenne Lolita.
Io di Pordenone amo soprattutto le persone. Questa città la stupisci con un fiammifero, qui è tutto nuovo e qualsiasi cosa tu faccia, se dotata del giusto gusto e spessore, viene apprezzata. Magari non subito, i pordenonesi devi andare a prenderteli a casa, ma una volta che hanno messo il naso fuori, sono tuoi. Ovvio, bisogna impegnarsi sempre per tenere la fiamma accesa, ma con il tempo si ottiene un fuoco culturale bruciante, interesse e coinvolgimento. Ho deciso di investire qui perché questo è un territorio dove l’innovazione è possibile, siamo in campagna, è vero, non succede mai nulla e le persone ti lasciano il giochino di tuo figlio perso per la strada appoggiato a un muretto, in modo che tu possa ritrovarlo quando torni indietro, ma il terreno, seppure a un esterno potrebbe apparire semi-spoglio, è in realtà molto fertile. Siamo una piccola provincia ma solo esteticamente. (Martina, presidente dell’associazione culturale Speakeasy, beve un caffè amaro con dentro un cucchiaino d’acqua).
Appena fuori dal centro storico il panorama diventa meno raffinato e non si distacca molto dal moderatismo urbanistico tipico delle piccole cittadine di provincia. Casette a schiera, qualche condominio più alto degli altri, parchi cittadini con il percorso ginnico e il laghetto con le anatre, parchetti più piccoli, incastrati fra i parcheggi e lo scivolo giallo con la torretta. È tutto rassicurante, nel suo aspetto metodico. “Pordenone è una città così ordinata che persino le prostitute si organizzano”, mi ha detto recentemente un’amica di mia mamma. Si riferiva al CDCP ovvero il Comitato per i Diritti Civili delle Prostitute, fondato nell’82 da Pia Covre e Carla Corso. Originariamente nato per rivendicarne i diritti, è poi diventato una vera e propria ONLUS che offre assistenza sanitaria, legale o sociale alle donne di strada.
Non conosco più molte persone in città, ma quelle che mi sono rimaste mi testimoniano continuamente il cambiamento che con fatica, sudore e molti improperi, oltre all’amore per la propria terra, sono riuscite a portare avanti. Ciascuna a modo suo, sta modificando una città che, con diffidenza, pian piano si lascia andare. Mi viene in mente ad esempio “Casa al Sole”, dove lavora la mia amica Liana, un’iniziativa di ASL e Fondazione Down FVG, che è la prima in Italia ad accompagnare adulti con una disabilità intellettiva e/o sindrome di Down in un percorso verso l’indipendenza, ma soprattutto verso l’autonomia abitativa.
Sembra quasi che la campagna circostante abbia un’influenza ambivalente sulla città: talvolta appare attanagliarla come una morsa culturale, stringendone le menti a una visuale celluloide. Altre volte, invece, è come uno spazio naturale sconfinato, dove il pensiero si espande all’infinito, e dove è possibile respirare aria nuova, guardando i piedi delle montagne, talmente vicini che sembra di poterli toccare con la punta delle dita.
Amo i rituali, le cose che mi ricordano quando ero bambina, le brioches alla Pasticceria Reale perché sono le più buone, la Casa del Gelato perché fa il mio gusto preferito, il parco Galvani dove andavamo quando saltavamo scuola, il supermercato sotto casa dove mi salutano sempre con un amichevole “Ciao” e sanno già che voglio 50 grammi di spianata nel panino. Adoro i vecchietti che se incroci il loro sguardo per strada ti inondano con i bei ricordi sui tempi andati, le vicine di casa e le chiacchiere di vicinato quando non diventano pettegolezzo. Pordenone è un misto non sempre equilibrato di paese e città, dove le abitudini si contrappongono ad avanguardie e insieme si riesce a costruire un nuovo modello di futuro, adattabile ma soprattutto esportabile. (Liana, in pausa pranzo con un panino nella mano destra e il telefono nella sinistra).
È difficile affrontarne il dualismo, l’ambivalenza squilibrata, oscillante fra la più raffinata cultura e la provincialità più gretta, fra la facciata fredda e nordica dei suoi abitanti e la loro più spassionata umanità, di Pordenone. Una terra di mezzo, un veneto diluito e un friulano lavato via, un’architettura carina, ma non appariscente, in una conca fra le montagne e il mare. Pordenone è una mancanza di definizioni, un luogo un po’ sfuggente, che ama farsi rincorrere, afferrare. E una volta abbracciata, è difficile lasciarla andare.
REDAZIONE
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