Il Teatro degli Orrori sarà in concerto a Berlino il 18 febbraio 2017. Il concerto è organizzato da Le Balene Possono Volare e MegaHerz Booking Agency. Tutte le informazioni riguardo il costo del biglietto e la venue sono nell’evento Facebook ufficiale
La prima volta che ho ascoltato Il Teatro degli Orrori dal vivo era il 2006. Quella notte la mia vita è cambiata. Qualcosa dentro di me è volato fuori, ha strisciato sull’asfalto di un lungo viale milanese che conduce ad un aeroporto e si è sperso. Con il sangue e con altro.
Se la mia esistenza ha subito una sterzata non è merito di Pierpaolo Capovilla e soci, anche se mi piace pensare che, in un qualche modo, abbiano avuto un ruolo in ciò che è successo.
Ed è successo che hanno suonato al Saphary Summer Fest, Circolo Magnolia. Luglio milanese. Io ci sono andato in Vespa, partendo da Viale Monza e arrivando a Segrate, tagliando Milano in obliquo e attraversando Viale Forlanini. È successo anche che il ritorno non è stato così liscio come l’andata (come spesso accade) e, a metà di Viale Forlanini, l’auto davanti a me ha deciso di sbandare, di farmi sterzare per non entrargli nel baule e di farmi perdere il controllo della Vespa. Ottanta chilometri orari. T shirt. Bermuda. Infradito. Casco.
La moto è andata via, ha aperto le sue ali di metallo e plastica bianca, inclinandosi in un lato e mi ha detto “Vai, vola” come il falco che lascia cadere il proprio cucciolo giù dalla roccia e aspetta che il vento e l’istinto facciano il resto.
Ho passato tre mesi su di un letto d’ospedale in quello che è stato il mio più importante rehab. Perché oltre che le ferite, le ossa rotte, il dolore e i miei genitori che sono morti dentro durante quella notte e risorti circa un mese dopo – quando loro figlio è tornato sotto controllo (che parola strana “sotto controllo”, cosa è sotto controllo?) – oltre tutto questo, ho ripreso in mano una vita che si andava rimpicciolendo, come un limone che rattrappisce, si secca e poi marcisce.
Quest’anno, grazie anche a quella notte di dieci anni fa, ho la possibilità di portare in concerto a Berlino, Il Teatro degli Orrori. L’ho organizzato io questo live e sono qui a pensare che non li ho mai più visti dal vivo, dopo il 2006.
La prima cosa che ho immaginato di chiedere a Pierpaolo Capovilla, nel momento in cui l’ho chiamato per intervistarlo, è stata: c’è stato un momento preciso in cui la tua vita è cambiata oppure deve ancora arrivare?
Non l’ho fatto, ma la nostra lunga chiacchierata, in un modo ancora più buffo delle circostanze che ci hanno portato ad incontrarci, forse mi ha portato ugualmente la risposta.
Gli chiedo che cosa ha fatto nell’ultimo anno, Pierpaolo Capovilla.
“Bella domanda.” mi ha risposto, da dietro una schermata Skype, tra le luci e le ombre della sua voce grattante e una stanza veneziana pixelata.
“È stato un anno, per così dire, di tournée defaticante per Il Teatro degli Orrori. Poi ho fatto undici date consecutive con il mio nuovo progetto, che si chiama Buñuel, ovvero io al basso (non canto), Xabier Iriondo alla chitarra, ex Afterhours, non so se ti ricordi; il chitarrista rock più innovativo che abbia mai conosciuto. E poi Francesco Valente alla batteria e il signor Eugene S. Robinson alla voce, cantante degli Oxbow.”
Certo che mi ricordo di Xabier Iriondo, fa parte di quel passato tempestato di dubbi ed errori in cui io mi ritrovavo, dopo ore a vagare per le strade del quartiere Isola, ad entrare – come a cercare un luogo sacro ed immacolato nel quale poter fermare sia me che quello che stava in me – nel suo negozio di strumenti musicali inusuali; Sound Metak. Un giorno parlai per ore di musica e di quel disgraziato di Xabier insieme a sua madre, una donnina minuscola come un mignolo ed energica come qualcosa di cui non riesco a trovare la metafora giusta.
“Ora sono in giro con un reading meta-teatrale dedicato ad Antonin Artud, utilizzando testi tratti dalla sua ultima opera poetica; Succubi e Supplizi. Il reading s’intitola Interiezioni. L’opera fa parte di uno dei rari casi di “opera orale”, perché Artud la dettò interamente ad una dattilografa, visto che non era più in grado di scrivere. Si ritrovò a “scriverla” tra un elettro shock e l’altro. Gliene fecero una sessantina in due anni. Di elettro shock. Non so se mi spiego.”
“Direi di sì.”
“Ho inserito questo spettacolo nell’ambito di una campagna politica italiana contro la contenzione meccanica nei luoghi di cura.”
“Cos’è la contenzione meccanica?”
“Quando ti legano polsi e caviglie ad un letto e ti riempiono di psicofarmaci. Questo succede nei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura. È la nostra piccola battaglia di civiltà. Nel frattempo, mi sono fatto incastrare dai compagni e dalle compagne del neonato Partito Comunista Italiano. Non so se ti è giunta voce a Berlino, ma è rinato il PCI con il vecchio logo che ideò Roberto Guttuso. La falce ed il martello. È tutto legale, ma la stampa in Italia ci prende in giro, perché per loro siamo tutti delle vecchie cariatidi comuniste, i valori del socialismo non hanno più niente a che fare con la nostra contemporaneità e bla bla bla. Noi non la pensiamo così e ci diamo da fare. Quindi, per chiudere, sto facendo sia meta-teatro che musica, che politica. Vorrei riuscire a cambiare le cose e ci provo su più fronti. Interiezioni credo sia una delle cose più belle che ho fatto in tutta la mia vita.”
“Meglio dell’esperienza de Il Teatro degli Orrori?”
“Sono cose diverse. Il rock è il rock, è la nostra religione. In questo caso invece esploriamo territori completamente diversi. Ti ripeto, ha un senso molto politico, perché chi viene a vedere il nostro spettacolo ne esce sconvolto, comprendendo finalmente che cosa vuol dire elettro shock.”
Il giorno che il nostro incontro telematico ha luogo, Donald Trump diventa Presidente degli Stati Uniti d’America, è una delle elezioni più chiacchierate (per usare un eufemismo) da tempi immemori.
“Mi parli di politica, e allora ti chiedo cosa ne pensi delle elezioni americane. Proprio oggi Donald Trump sale sul trono.”
“Penso che il capitalismo contemporaneo sta gettando la maschera, non c’è più una guerra fredda, non ci sono più due grandi potenze nucleari che si contendono “la pace” nel mondo. Ovviamente, gli Stati Uniti sono il più grande paese capitalista del globo e in queste elezioni mi sembra evidenzino la scelta politica della classe dirigente. Tanto non servono a niente quei due. Noi siamo abituati a definire gli Stati Uniti come la più grande democrazia al mondo, ma non è vero, non è una grande democrazia. Non è una democrazia. Come può essere una democrazia un paese dove i carcerati non possono votare, chi non ha pagato le tasse fino all’ultimo spicciolo non può votare, chi non ha soldi non riesce ad iscriversi al seggio. Non può essere democratico un paese dove, dal 2015 ad oggi, sono state uccise dalla Polizia 1.990 persone per la strada. Negli Usa vivono circa 320 milioni di persone, in Italia 60 milioni. È come se dal 2015, in Italia, la Polizia avesse ammazzato 200 persone per strada. Noi siamo ancora indignatissimi per ciò che è successo a Cucchi e Androvandi. Non è democratico un paese dove si somministrano psicofarmaci negli orfanotrofi.”
“La pena di morte.”
“Esatto. Penso al libro “La Svastica sul Sole” di Philip K. Dick, in cui i nazisti vincono la Seconda Guerra Mondiale e il protagonista li vede e non li vede, questi nazisti. Ha dei momenti in cui percepisce l’assoluta democrazia americana e altri momenti in cui vede gerarchi ovunque. È la stessa cosa. È il fascismo che domina la democrazia negli USA. Ti spiego meglio; la democrazia in America è una farsa, un simulacro, perché, in realtà, il popolo non decide niente. Ti dico di più, noi italiani rischiamo tantissimo, perché siamo il paese che, più di chiunque altro, vorrebbe americanizzarsi. Se dovesse accadere, finiremmo in mano ai massoni e alle lobby. C’è molto da lottare, caro Mattia.”
“Diciamo che non sei molto pro America.”
“No, proprio per niente.”
“Però, il tuo percorso artistico è molto americano.”
“Chiaro, sia dal punto di vista narrativo che da quello musicale. Il rock, su tutto. Poco ma sicuro. Però li ammiro solo sotto il punto di vista artistico, perché il popolo americano è il più stupido ed ignorante del mondo. Ci sono delle intelligenze sopraffine e straordinarie che svettano per la loro capacità narrativa e criptico filosofica, se vogliamo. Si tratta di grandi eccezioni che confermano, in pieno, la regola.”
Penso a quello che mi ha detto e lo associo a Il Teatro degli Orrori e, ancora prima, ai One Dimensional Man, prima band di Capovilla. Penso al rock e a come l’hanno inteso loro in tutti questi anni di musica. Poi penso all’America.
“Noi arriviamo da lì, ma da un certo tipo di rock americano. Arriviamo dall’hardcore prima, quello dei Dead Kennedys, per intenderci. Il rock della fine degli anni ‘80 e dei primi ‘90 aveva un senso politico fortissimo. E poi il nuovo rock che si è sviluppato durante tutti gli anni ‘90 e primi 2000, mi riferisco a Fugazi, The Jesus Lizard e via dicendo. Una scena altrettanto fortemente politicizzata. Veniamo da un rock dissidente, indipendente.”
“Un rock che, la maggior parte delle volte è stato anti-americano.”
“Esattamente.”
“Quel certo tipo di rock italiano di cui mi parli, durante gli anni che hai citato, era ad altissimi livelli nel nostro paese. Che fine ha fatto quella scena?”
“Gli anni ‘90 sono stati un decennio fantastico per il rock indipendente in Italia, molti gruppi sono emersi con forza, altri meno. Era una scena di intellettuali con la quale tutti, compresi i musicisti stessi che la stavano cavalcavano, ci interagivano attivamente. Questa scena non c’è più, però. Non è un buon momento per il rock in Italia. Resistono ancora alcune eccezioni, tra le quali mi permetto di annoverare Il Teatro degli Orrori. Sono band che continuano a fare un rock autentico, massimalista e radicale, ma che riesce, comunque, ad avere un suo seguito. Adesso i nuovi gruppi preferiscono suonare computer, tastierina ed il gioco è fatto.”
“Dove sono finite quelle band?”
“Esistono ancora. I Massimo Volume sono molto attivi, Emidio Clementi non sta mai fermo, sono sicuro che nell’anno nuovo faranno uscire un nuovo album. Resistono gli Afterhours, che hanno pubblicato qualche mese va un disco che, secondo me, è il migliore di sempre. Resistono i Verdena e poi tante altre piccole realtà. Proprio oggi mi è arrivato a casa un disco dei Nàdar Solo, che vengono dalla scena emergente torinese, ed è proprio un ottimo lavoro. Sono molto freschi, un po’ campanilistici, ma bravi davvero. È da stamattina che lo ascolto. Qualcosa c’è, ma non c’è più quella scena che fu veramente la scena. Però vedi, negli anni novanta c’erano i Centri Sociali. Io ricordo che nel ‘95, quando eravamo ancora One Dimensional Man, in pieno esordio, con un disco iper-radicale e super-massimale, riuscimmo a fare un centinaio di date. Perché? Perché c’erano i Centri Sociali, che oggi non esistono più. Non esiste più il fervore culturale e politico che c’era allora. È assolutamente morto. Potrei anche rintracciare una data di morte del movimento antagonista italiano: il 2001 e i fatti di Genova.”
“Il G8.”
“Proprio lui. Il movimento subì una mazzata tremenda”
Carlo Giuliani.
“Leghi quella data anche alla morte della scena di cui abbiamo parlato fino ad ora?”
“La musica è politica. Politica in qualsiasi caso. È un’idea alla quale ho sempre aderito. Ramazzotti e la Pausini fanno politica, come la fa Vasco Rossi. Il Teatro degli Orrori fa politica, in un verso completamente diverso, ma lo fa. Perché l’arte è politica. L’arte serve a cambiare le circostanze storiche in cui viviamo, altrimenti che cosa lo facciamo a fare.”
“E allora come vedi Manuel Agnelli ad X-Factor? Permettimelo.”
“L’ultima volta che l’ho incontrato doveva ancora cominciare e abbiamo condiviso un palcoscenico. Non gliene parlai, perché chiunque lo incontrasse gli chiedeva qualcosa e voleva sapere. Se avessi conversato con lui sull’argomento gli avrei chiesto “ma non temi il suicidio artistico?” Ma, da che mi risulta, Manuel sta facendo una gran bella figura in questa circostanza. Per quel che lo conosco, è un uomo intelligente, una testa pensante che sa quello che fa e ne ha tutto il diritto. Io non guardo e non possiedo la TV e questi programmi non li ho mai visti in vita mia. Leggo sui giornali alcune sue considerazioni che mi sembrano intelligenti e quindi gli auguro ogni bene possibile. Ho molta stima di lui. Lo trovo un lavoratore straordinario, è uno che si da e si è dato molto da fare. Posso immaginare che quando ti propongo di fare televisione, dietro ci sia anche una grossa possibilità, probabilmente anche economica, e posso immaginare che arrivati ad un certo punto della vita, quando ti propongo certe cose, ci pensi su due volte prima di dire no. Detto questo, se lo chiedessero a me non lo farei mai.”
“Perché?”
“Perché sono molto più politico di lui, nel senso che detesto e disprezzo la televisione come mezzo di comunicazione in sé.”
“I Centri Sociali sono morti davvero?”
“Non esistono più dal punto di vista delle forze in campo.”
Mi ricordo della prima volta che entrai in una manifestazione: avevo qualcosa come diciotto anni, ma non ne sono sicuro. Probabilmente ero minorenne. Ricordo di quanta voglia avessi di andare davanti al corteo e prendere quel microfono in mano d’altri. Il microfono che serviva per dire la tua, la mia, per urlare ai palazzi intorno e alla gente sui marciapiedi, perché questo mondo era sbagliato. Tra una pausa reggae e l’altra.
E ricordo la mia prima volta in un Centro Sociale, al Deposito Bulk, davanti al Cimitero Monumentale di Milano, che ora non esiste più e mai più esisterà. Il Bulk e la lamiera al posto del soffitto, il freddo d’inverno, i concerti migliori di sempre. The Donnas e Raw Power. Poi il Leoncavallo ed io che crescevo e il Leo anche, che non c’era più l’ingresso a sottoscrizione, ma a 5 euro e a volte 8, altre volte 10. Io che ci organizzavo concerti fino a tre anni fa. Quella roba è davvero morta?
“I Centri Sociali non hanno più la forza che avevano prima. Le nuove generazione sono sostanzialmente dominate da un qualunquismo di fondo molto forte. Lo si percepisce anche, semplicemente, camminando per la strada in una grande città.”
“E con quale tipo di generazione si rapporta Il Teatro degli Orrori?”
“Con una intergenerazione. I nostri concerti sono composti da un pubblico che va dai quindicenni ai sessantenni. E mi accorgo che nelle prime file ci sono i ragazzini, che vogliono guardarti e vogliono vivere il sudore del concerto, in prossimità del mixer ci sono i quarantenni, che non gli frega nulla di essere davanti e si vogliono ascoltare il concerto godendoselo. Infine, dietro al mixer, i cinquanta/sessantenni, perché gli da fastidio l’eccesso di volume. Ora, questi ultimi probabilmente ascoltavano i Rolling Stone, i quarantenni i Fugazi o i Black Flag, i trentenni sono ancora intrippati per i Nirvana, i quindicenni che ne so, ma tutti insieme, però, cercano un po’ di rock autentico. Secondo me, noi rappresentiamo, in Italia, un raro caso di autenticità della musica rock. Siamo veramente distanti e rifuggiamo totalmente le mode del momento.”
“Ok. E i testi? Cosa volevi e vuoi lanciare addosso a questa gente quando scrivi cose come Compagna Teresa, La Canzone di Tom, Carrarmatorock, fino alle ultime cose de Il Mondo Nuovo e, addirittura, prima ancora con i ODM?”
“Con gli ODM cantavo in inglese poi, con Il Teatro degli Orrori, ho iniziato a cantare in italiano e, finalmente, qualcuno ha iniziato a capire cosa dicevo. Comunque, guarda, per me fare musica ha un senso politico, ma non nell’accezione di militanza. Io scrivo canzoni con l’ambizione di suonare le corde del cuore di chi ci ascolta. Preferisco narrare gli ultimi, gli emarginati, la povera gente e la loro vita. Se scrivo una canzone d’amore (sono tutte canzoni d’amore, se vogliamo) preferisco il tema della violenza domestica. Cerco di svelare le contraddizioni sociali, le prevaricazioni e le ingiustizie. La nostra non è musica per divertirsi (anche se poi ci si diverte molto), ma per riflettere.”
“E pensi che le nuove generazioni riescano a percepirla questa cosa?”
“Assolutamente sì.”
“Sei fiducioso sulle nuove generazioni.”
“Scherzi? Lo constato ad ogni concerto che facciamo. C’è un affetto nei nostri confronti pazzesco. Ovviamente noi non facciamo 20.000 persone a concerto, ne facciamo dalle 1000 alle 3000, dipende dalla venue, ma quelli che vengono si emozionano, ridono e piangono insieme a noi. È qualcosa di semplicemente meraviglioso.”
“Mi riferivo più al capire che cosa volete dire attraverso i vostri testi e la vostra musica. Capiscono davvero cosa volete dire, dove volete arrivare?”
“Io credo di sì, anche perché ad ogni intervista, come qui con te, lo ribadisco con grande forza. Lo capiscono tutti che noi abbiamo un intento progressista e battagliero.”
“Un Carrarmatorock, insomma.”
“Esatto. Che ti faccia morire di musica e non di paura.”
“Da dove arriva Pierpaolo Capovilla?”
“Vivo a Venezia da trent’anni ormai e questa città non la cambierei con nessun’altra al mondo. Mi sento parte di questo consorzio umano, nonostante sia un consorzio umano piuttosto cadavere, perché se ne stanno andando tutti. Siamo rimasti meno di cinquantamila residenti. È una città morente, una città in cui la gente che la popola la sta lasciando lentamente morire. Vivo questa città che sta cadendo, ma non per questo me ne vado da un luogo che ritengo unico al mondo. Sono nato a Varese, figlio dell’immigrazione interna, mio padre era un operaio fonditore ed io e le mie sorelle ci siamo spostati dove lui ha trovato lavoro. Poi sono venuto a Venezia quando mi sono messo a studiare e non me ne sono più andato.”
“Venezia ha ispirato la tua musica?”
“Beh, direi di sì.”
“In che modo?”
“Ho iniziato ad appassionarmi al rock quando avevo dodici anni. I guai sono cominciati molto presto. Figurati, io sono figlio di una suora e di un signore che voleva farsi prete. Quindi loro, almeno fino a quando hanno capito che era un lavoro serio e che aveva senso dal punto di vista economico, mi hanno sempre osteggiato. Ora non ci sono più, i miei due vecchietti, ma ricordo che fino a due anni fa, quando erano ancora vivi, erano molto felici di quello che stavo combinando. Malgrado loro fossero dei cattolici integerrimi, anche piuttosto massimalisti, quindi anti comunisti, io, per quanto sia cresciuto politicamente a sinistra, il loro diniego non ha mai influito nel rapporto tra di noi. Per quanto riguarda Venezia, invece, c’ho fatto l’Università. Non mi sono mai laureato, ma ci sono restato dieci anni. Quindi, a Venezia mi sono acculturato, ho conosciuto insegnanti straordinari ed educatori integerrimi che mi hanno permesso di crescere molto, anche artisticamente.”
“Senti, hai ancora problemi con l’alcol?”
“Dove lo hai letto?”
“Beh, è una cosa che si dice, come si dicono tante altre cose, ovviamente. Ho letto una tua intervista del 2012, in cui dicevi che avevi smesso di bere da quattro mesi.”
“Mattia, io sono veneto, ti lascio immaginare cosa possa voler dire. Sfido chiunque viva qui a tentare qualsiasi forma di socializzazione senza finire brillo almeno due o tre volte alla settimana. Comunque sì, io sono un alcolista consapevole, ma non sono mai stato dipendente dall’alcol. Mai stato. Posso dare questa impressione al mio pubblico o ai giornalisti. A chi viene ad osservarmi ai nostri concerti che, nel post live, mi trova completamente divelto. Però vedi, quando sei un certo tipo di musicista, il dopo-concerto è un disastro morale, ma non solo per me, per tantissima gente che mi gira intorno. Non mi sembra di essere un’eccezione.”
“Compresi spesso il pubblico e gli organizzatori.”
“Ma certo. Guarda, ti dico, ricordo che, ai tempi migliori dei ODM, eravamo considerati – per colpa mia – una band di alcolizzati. Perché si arriva nei club ed io quasi non mi reggevo in piedi. Facevamo viaggi lunghissimi e si beveva tantissimo. Poi, una volta che eravamo sul palcoscenico, si spaccava tutto. L’importante è che la tua musica riesci a farla e la fai bene.”
“È banale chiederti come fai a bere fino a distruggerti ancora prima di arrivare alla venue e poi salire sul palco e andare dritto come un siluro?”
“No, non è banale, ma la risposta lo è: conosco i miei limiti. Quelli che ti guardano dall’esterno pensano tu li abbia superati di gran lunga, e invece non è vero. Ti posso assicurare che non salgo mai sbronzo sul palco. È successo tre volte in tutta la mia carriera e mi sono vergognato come un ladro. Ripeto, uno mi vede e dice “ma come diavolo fa a stare in piedi?” e, in realtà, è uno show e io riesco a mettere in atto una certa disciplina.”
Mettere in atto la disciplina. Una disciplina che è un delirio e che poi è rock n roll. Perché ogni cosa ce l’ha, una disciplina. Ogni cosa.
“Comunque ti voglio dire che uno dei più grandi artisti di sempre, Nick Cave, cambiò la mia vita durante un suo concerto. Avevo diciassette anni e il concerto faceva parte del tour di “From Her to Eternity”. Era quel Nick Cave, quello degli inizi, con i The Bad Seeds. Insomma, quell’uomo, quella notte, su quel palco, era semplicemente distrutto dalle droghe. Era un qualcosa che facevi fatica a crederci. Lo ricordo come se fosse oggi. Vidi questo giovanotto alto quasi due metri, completamente stravolto, portarsi sulle spalle tutti i mali del mondo. Fu qualcosa di incredibile ed io avevo l’età in cui tutto ti sembra molto più grande di quello che è, ma quel concerto mi cambiò l’esistenza. Fu un momento cruciale per me, perché mi dissi: se questo è il rock, lo voglio fare anch’io. Ho avuto questo particolarmente cattivo maestro che mi ha spinto verso la sregolatezza. Io non capisco da dove arriva questa polemica sul mio alcolismo. Te la ricordi la canzone Sex and Drugs and Rock n Roll?”
“Madonna se me la ricordo.”
“Oppure, pensa a cosa cantavano i Black Flag ad inizio carriera: Preferisco la birra alla mia ragazza. E quando gli Husker Du cantavano l’eroina, perché erano tutti eroinomani. Quelli erano inni all’eroina. Ovviamente, dicevano quanto potesse fare male, ma loro, per esempio, gli Husker Du, sono stati una tra le band rock più importanti di tutti i tempi. I Led Zeppelin ne combinavano una dietro l’altra. Roger Daltrey, leader dei The Who, cosa non faceva? I Rolling Stones, quante volte sono andati in Svizzera a farsi rimettere in salute, per quanto si facevano?”
“Lou Reed.”
“Ne potremmo fare un elenco infinito. Voglio dire, la sregolatezza fa parte del DNA del rock. Questo perbenismo strisciante che mi si rivolta contro, mi lascia abbastanza sospettoso. Sai cosa mi sta sui coglioni? Bob Dylan o lo stesso Nick Cave che, ad un certo punto della loro carriera, riscoprono Dio. Perché? Forse perché, passati i cinquanta e i sessanta, hanno improvvisamente paura di morire. Dio, i valori cristiani e perepeppé. No, mi da fastidio. Passi una vita intera nella sregolatezza e nel delirio più clamoroso, a fare quello che ti pare, poi ad un certo punto cerchi un percorso di ravvedimento. Io amo la vita, ma per me vita vuol dire anche lasciarsi andare, esagerare ogni tanto. Adoro il sesso. Mi piace vivere la mia esistenza fino in fondo. In un certo senso mi sento molto più rock di Bob Dylan.”
“Azzardo: forse questo perbenismo è soprattutto italiano, piuttosto che, per tornarci, negli Stati Uniti.”
“Non lo so, non ci sono mai stato negli USA.”
“Boh, mi chiedo chi può puntare il dito su quello che hanno fatto gli Husker Du o i Black Flag? Invece su Pierpaolo Capovilla l’hanno puntato.”
“Mattia, credo ci sia anche un altro problema: quello dell’invidia sociale. A me sta bene così, c’è chi mi detesta e chi mi adora, chi ci ama e ci odia. Vuol dire che facciamo discutere e quindi va bene.”
“Probabilmente è la cosa giusta.”
“Sarebbe un problema se ci fosse un totale unanimismo. Come diceva Roberto Baggio in un’intervista di tanti anni fa, riferendosi a Sacchi: a qualcuno sto nel cuore a qualcun altro sto da un’altra parte.”
“Esisterà mai un momento in cui ti fermerai e dirai basta alla vita di rockers?”
“È da qualche anno che mi chiedo cosa farò da grande, caro Mattia, e non sono ancora riuscito a trovare una risposta. E ho cinquant’anni.”
“Arriverà da sola.”
“Sto scrivendo un libro, in realtà, perché mi è stato proposto da un’importante casa editrice italiana. Ci sto lavorando da un paio d’anni. Quello potrebbe essere uno dei possibili ambiti nel quale continuare la mia carriera artistica.”
“Ma non ne sei sicuro.”
“Non totalmente. Tu hai un figlio Mattia, vero?”
“Sì, è qui con me ora.”
“Quanti anni hai?”
“Trentaquattro.”
“Io ho quarantotto anni e la mia compagna ne ha quarantadue. Viviamo insieme da dodici anni. Comincio a sentire un grande desiderio di genitorialità, spero non sia tardi.”
“No, direi che non lo è. La tua compagna ha quarantadue anni.”
“Sì, ma potrebbe essere tardi per me, non per lei.”
“Mah, non credo ci siano ancora problemi.”
“Sai, ne abbiamo parlato fino adesso, con quello che bevo e con tutte le sigarette che mi fumo.”
E ridiamo, insieme, come due persone che sanno che il tempo sta per scadere, sia per quella loro chiacchiera piacevole che per tante altre cose. E, forse, per l’uno, rispetto all’altro, il tempo si fa ancora più esiguo, perché oltre a chiudersi dietro, si chiude anche davanti.
“Voglio avere un figlio e non so perché non l’ho ancora fatto. Mi è stato detto, da un amico che di figli ne ha diversi, che il motivo è che sono un egoista. Non lo so se si tratti di egoismo, quello che so è che cerchi di dare un senso alla tua vita, ad un certo punto, e per farlo hai bisogno di un altro essere vivente che sia tuo o il tuo continuo. Quando incontro i miei amici che hanno figli, mi commuovo. E questi amici mi dicono che il rovescio della medaglia è che ti cambia la vita radicalmente, che devi fare sacrifici. Però, sai cosa vedo? che tutti loro, e dico tutti, sono più felici di me. Hanno una vita più avvincente della mia. Forse il rock n roll mi ha un po’ disgregato, mi ha fatto perdere per le strade del mondo.”
“Beh, allora sai cosa devi fare.”
Ridiamo ancora e gli dico che sono felice di aver parlato con lui, ma non perché si chiama Pierpaolo Capovilla, no, perché per un’oretta, in questa mia serata tranquilla e ghiacciata, davanti ad uno schermo, a migliaia di chilometri di distanza, ho parlato ed ho imparato ed ho sentito di poter dire. Ed è una cosa rara.
E allora, caro Pierpaolo, c’è stato un momento preciso in cui la tua vita è cambiata oppure deve ancora arrivare?
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