Prologo
Vent’anni fa.
Ci sono io a casa di due amici. Sono un ragazzino, anzi sono un bambino.
Penso che tutta la musica italiana sia uno schifo. Ascolto gli Autechre e mi vanto quando le persone che conosco non sanno di chi sto parlando. Mi compiaccio ancora di più quando glieli faccio ascoltare e mi dicono: questa roba non è musica. Ascolto anche ‘Ummagumma’ dei Pink Floyd, il punk rigorosamente inglese o americano. Riesco a sopportare solo i CCCP, ma Lindo Ferreti non canta, Lindo Ferretti è la rivoluzione.
Per me ‘Moon Safari’ degli Air è un disco da diffusione in aeroporto.
Stiamo bevendo della birra e Daniele mi chiede se conosco gli Afterhours. Lui adora i Pearl Jam, il grunge, il blues. E il rock indipendente italiano: i Massimo Volume, i Ritmo Tribale, i Litfiba, i Marlene Kuntz.
Gli rispondo che no, non li conosco, ma se cantano in italiano, non va bene.
Lui mi dice che devo ascoltarli. Infila un cd nello stereo. Alza il volume.
Porco Cristo offenditi
C’è una dote che non hai:
Non è chiaro se ci sei
Sei borghese arrenditi
Gli architetti sono qua
Hanno in mano la città
Quella era una bestemmia?
Sì, era una bestemmia.
Ok, fammi ascoltare altra roba.
Sono un bambino.
‘1.9.9.6’ è la prima canzone che ho ascoltato degli Afterhours. La voce smangiata, metallica, di Manuel Agnelli, quel giro di chitarra perfetto, una lama che mi divide a metà tra quello che ho sempre sostenuto e ciò che sto vivendo in quel preciso istante.
Da quel giorno ho iniziato ad amarli anch’io, gli Afterhours, e ho iniziato anche ad ascoltare i Massimo Volume, i Ritmo Tribale, i Diaframma, i Verdena. Il rock indipendente italiano.
Gli Afterhours hanno scavato in fondo al mio pozzo, perché erano me, e li ho amati fino a quando non li ho odiati. Fino a quando hanno smesso di essere quello che tutti noi ci aspettavamo che fossero. Ma quelli erano anni in cui non sapevamo niente e le nostre sicurezze erano qualcosa di vago e di vano, che poteva cambiare come cambia il vento. E allora quando ascoltavamo ‘Male di Miele’ eravamo altissimi oppure sospesi e amavamo quella roba che ti diceva cosa significava essere giovani in una Italia che aveva smesso di esistere e ci sentivamo tutti delle piccole iene.
Ci scopavo con gli Afterhours, sdraiato tra due sedili e un freno a mano, ascoltando ‘Varanasi Baby’ e volevo essere Manuel Agnelli e scrivere come lui, oppure Xabier Iriondo e suonare come lui. Volevo sputare verso il cielo e riprendere al volo la saliva. Volevo i capelli lunghi e lisci, il viso cereo ed incazzato.
Non ricordo quante volte li ho ascoltati dal vivo, gli Afterhours. Tante e non mi sono mai stancato.
Ho pianto tanto quando ho perso il mio primo grande amore e in camera c’era ‘Germi’, diffuso in repeat e ad un volume sbagliato eppure perfetto, ed io che urlavo, a quella donna che non c’era più, di inoculare il mio germe.
Ho pianto anche quando ho ascoltato ‘I milanesi ammazzano il sabato’, perché sapevo che qualcosa era finito, aveva smesso di esistere come l’Italia negli anni novanta. Era finita un’era. Oppure era finita la mia era. Quella fatta di cose in bilico e di cadute sanguinose, di odio profondo, amore spropositato, di sicurezza infinita, che avrei potuto gettare tutto quello che avevo guadagnato senza nessun rimpianto, perché ero convinto di non aver guadagnato un bel cazzo di niente.
Non si esce vivi dagli Afterhours
Oggi.
Rodrigo D’Erasmo è in treno. Non gli chiedo dove sta andando. Sarebbe bello iniziare il nostro dialogo così, dove stai andando? Invece lo ringrazio per avermi concesso l’intervista, come ho fatto con tutti quelli che ho intervistato fino ad oggi. Mi dice che la linea è disturbata. Io urlo, da solo dentro una stanza e lui mi dice che ora mi sente meglio. Certo, sto urlando. E urlerò per più di un’ora, ad ogni mia domanda, ad ogni sua galleria.
Iniziamo dalla fine, che poi in realtà è l’inizio, se vogliamo. State per affrontare un tour europeo dopo diversi anni. Verrete anche qui da noi, il 25 aprile a Berlino. Come vi sentite e che cosa vi aspettate dalla gente che verrà ai vostri concerti in giro per l’Europa?
Siamo un po’ scarichi, lo devo ammettere, perché il tour italiano che abbiamo appena finito è stato davvero trionfale, lo dico senza falsa modestia. È stato bellissimo. Abbiamo avuto una risposta da parte del pubblico enorme. Sono stati quasi tutti sold out e abbiamo avuto la conferma, dopo l’uscita di ‘Folfiri e Folfox’, che l’album è stato recepito in un modo molto intenso e profondo da parte del pubblico. Non ce lo aspettavamo, perché è un album complicato. La risposta della gente, anche durante i live, è stata rispettosa e complice. È bello avere un pubblico così maturo, mettiamola così.
Speriamo di ricreare la stessa formula anche in Europa, ovviamente con il plus di suonare in club più piccoli, con un contatto molto più ravvicinato con le persone. Questo darà ai concerti un tipo di energia che non può crearsi in spazi grandi, da duemila/tremila persone. Per cui siamo felici di fare questo giro. Oltretutto è la prima volta che lo facciamo con questa formazione. Sarà una bella avventura.
Che tipo di pubblico pensate di trovare?
Guarda, vedendo le esperienze precedenti, credo che l’ultima sia nel 2011, ci aspettiamo una grossa fetta di italiani e una piccola di locals. Noi comunque speriamo che questa tendenza si possa invertire, senza nulla togliere ai nostri compaesani che sono in Europa o che verranno direttamente dall’Italia. Andare all’estero a suonare significa prendersi quella sensazione di ignoto e di conquista.
Torniamo indietro. Ho sempre pensato che ci sia stato uno scatto in ciò che sono stati e che poi sono diventati gli Afterhours. Quello scatto lo inserisco idealmente nel 2008 con I milanesi ammazzano il sabato, probabilmente anche con la partecipazione a Sanremo e che si è confermato definitivamente con Padania, fino, appunto, a Folfiri e Folfox. Credo che in quel momento ci sia stato qualcosa che è cambiato nella band, nel modo in cui avete iniziato a concepire la vostra musica, l’avete scritta e incisa. Oltretutto tu sei arrivato proprio nel 2008.
Io sono arrivato quando ‘I milanesi ammazzano il sabato’ era già stato registrato. Anzi, era addirittura già uscito. Dal punto di vista creativo posso dirti che cosa è successo immediatamente dopo. Indubbiamente è stato un periodo di grossi cambiamenti. Questo è innegabile. Quando sono arrivato io c’era un nuovo assetto nella band, erano appena entrati Gabrielli e Dell’Era, che hanno portato tanta novità e anche parecchia diversità da un punto di vista di timbriche e di arrangiamenti. A me quell’album piace molto anche se è stato leggermente bistrattato da parte del pubblico e in parte anche dalla critica. Io invece penso che sia un album da riscoprire, da rivalutare.
Però sì, è stato un periodo di svolte. Al di là del fatto che siamo andati a Sanremo. Quello è stato un giro di boa nel percorso degli Afterhours. Il passaggio da una scena indie, con tutta una serie di vincoli e gabbie che si stavano stringendo attorno al progetto e che, invece, quando ce ne siamo liberati, ci hanno permesso di diventare non solo una band, ma anche ciò che ci piace essere al di là del discorso puramente musicale, e cioè provare ad essere degli agitatori culturali. Mettendoci la faccia e la voce. C’è tutta una politica della musica molto importante, che gli artisti dovrebbe sostenere e difendere.
Comunque hai ragione, da lì in poi c’è stato un grande cambiamento. A livello creativo io sono arrivato con i due album seguenti e quindi la svolta l’ho sentita, in qualche modo, di riflesso.
Perché, usando le tue parole, I milanesi ammazzano il sabato è stato bistrattato dal pubblico?
Non lo so. Secondo me gli album hanno anche una vita propria, dipendente molto dal momento in cui escono, dall’album precedente, dalle aspettative del pubblico e dalla percezione della band nei confronti di quel pubblico. Per cui secondo me, dopo un album come ‘Ballate per piccole iene’, che era stato così tanto amato e per così tanto tempo, oltretutto è stato il disco più classico degli Afterhours, ecco probabilmente molti si sono sentiti spiazzati da ‘I milanesi ammazzano il sabato’ che, per certi versi è più pop dei precedenti, con elementi di avantgarde e sperimentazione. Però è servito a scardinare una serie di resistenze che poi con ‘Padania’ e ‘Folfiri e Folfox’ si sono sciolte. Sono cambiate le esigenze della band e, conseguentemente, le sonorità.
Forse quella dei primi dischi degli Afterhours era un’altra Italia. Un’Italia che si è sciolta in altre cose e altri ascolti.
È il ciclo naturale della storia della musica di ogni paese. L’Italia è sempre stata a rimorchio di ciò che accadeva fuori. Però, e non lo dico perché è la mia band, credo che gli Afterhours siano stati pioneristici da un punto di vista europeo. Quantomeno sono stati al passo con i tempi, rispetto a quello che stava accadendo.
Ad ogni modo, passano i decenni e i cicli musicali fanno si che ci siano delle trasformazioni all’interno delle sonorità. Noi siamo una band in continua evoluzione. Il fatto che gli Afterhours siano sempre stati così uniti, è dovuto, paradossalmente, grazie ai continui cambi di formazione e di suono. Per cui credo che sia una cosa fisiologica. I primi nostri album suonavano a seconda dell’esigenza di quelle formazioni e di quel momento. Io trovo che il suono della band sia coerente in tutto il suo percorso. Gli Afterhours fanno un album ogni tre, quattro anni e in tutto quel tempo si vive, si cambia, si ascolta tanta musica differente e tanta acqua passa sotto i ponti.
Mesi fa ho intervistato Pierpaolo Capovilla, che conosci bene, e gli ho fatto una domanda che ripropongo anche a te. Il rock indipendente italiano, di cui facevano parte gli Afterhours, come anche Il Teatro degli Orrori, è stata una realtà molto importante in un periodo altrettanto importante. Ecco, dov’è finita tutta quella scena?
Guarda, io negli anni novanta ero piccoletto e soprattutto ero un nerd da Conservatorio, quindi i miei ascolti erano tutti di musica classica e un po’ di musica brasiliana, perché sono brasiliano. Oltre a quello ascoltavo roba molto morbida; i primi Queen, i Beatles. Erano i dischi di mio padre.
Per cui quel periodo l’ho vissuto solo di riflesso attraverso il racconto degli altri musicisti. Quello che ho avuto modo di constatare negli ultimi dieci e quindici anni è stato, per mia sfortuna, dato che è la scena nel quale mi sono ritrovato e alla quale mi sono affidato – scena che non credo di poter ancora definire rock indipendente, bensì qualcosa di più art-rock, dove la matrice resta rock, ma dove i desideri musicali sono talmente ampi e vanno da, appunto, la musica classica al noise – ecco, queste cifre che trovo comunque molto attuali e che difficilmente vedo tramontare nel prossimo futuro, in Italia sono passate di moda e, purtroppo, un problema dell’Italia attuale e che segue troppo le mode. C’è poco desiderio di originalità. Invece il rock di cui parli tu aveva nell’originalità il suo dogma. Andavano bene gli Sonic Youth, gli Husker Du, come tutto il periodo post-punk, per esempio, ma in fondo il vero intento era quello di essere unici. Oltretutto usando l’italiano che è una lingua molto difficile da far calzare al rock. Questo tipo di attitudine mi sembra che in questo momento manchi davvero. Quella scena, per chi ha resistito ed è resistente è ancora in piedi, vedi gli Afterhours, come anche Il Teatro degli Orrori, i Marlene Kuntz, i Verdena. Però ci sono solo loro, e ti assicuro che non c’è nessun desiderio di restare attaccati alla poltrona, anzi c’è un enorme voglia di buttarci giù dalla poltrona. Il problema è che non arriva niente di altrettanto dirompente, perché quella forza è proiettata in altri ambiti, al momento. L’hip hop, per esempio, è un grandissimo catalizzatore da questo punto di vista. È una cosa che capisco, in termini di linguaggio è una formula molto potente, incisiva in modo più immediato e più semplice per chi deve farlo. Non dico che sia facile, però da lì ad andare ad infilare dei testi che abbiano anche un certo spessore in una forma canzone come il rock, credo che si tratti di qualcosa di davvero molto più complesso.
Comunque, come ti dicevo prima, credo che sia una cosa ciclica, nel senso che l’energia e l’adrenalina, la forza propulsiva che mantiene il rock, legato alle giuste parole, non ha eguali. Lo dimostra il fatto che i concerti continuano ad andare molto bene.
La cosa che mi auguro è che si continui a provare ad essere speciali senza somigliare a niente. È il mio augurio a chi inizia a suonare ora.
Hai detto che eri un nerd da Conservatorio, mi piacerebbe sapere qual è stato il tuo percorso artistico. Come sei passato dall’essere quel nerd a ciò che sei ora, membro degli Afterhours e collaboratore di moltissime band italiane?
Diciamo che dopo aver concluso gli studi classici, sia prima del Conservatorio che dopo, ho fatto tanta musica classica; formazioni da camera, quartetti, l’Opera. Ad un certo punto però ho sentito che iniziava a starmi stretta la gabbia dello spartito. Sentivo di dovermi esprimere da solo, con la voce del mio strumento, soprattutto in generi che mi permettessero di essere più libero, sia in termini di scrittura che di composizione. Quindi tutto questo ha iniziato a svilupparsi e io mi sono proiettato verso altri territori, prima nella musica folk, soprattutto quella irlandese, poi quella yiddish. Probabilmente queste sonorità hanno anche condizionato il mio modo di suonare, e poi, ad un certo punto, nel 1997 vidi a La Palma, un club di Roma che ora si chiama Monk, un concerto dei Dirty Three, con Warren Ellis, che poi ha iniziato a collaborare con Nick Cave e lo fa tutt’ora, da ormai tanti anni. Ecco, quel concerto è stato lo spartiacque della mia vita, ho passato tutta l’ora successiva al concerto imbambolato a studiare il set up di Ellis; quali pedali usava, quale amplificatore e tutto il resto. Ho capito, in quel momento, che quella era la mia strada.
Poi è arrivato Cesare Basile, che è un mio carissimo amico, fratello maggiore a livello artistico e maestro. Lui è stato fondamentale per me. Soprattutto l’album ‘Hellequin Song’, che è stato prodotto da un altro grande mio maestro, John Parish. Quel disco mi ha dato la possibilità di farmi conoscere da Manuel Agnelli. Dario Ciffo stava lasciando la band e loro non avevano intenzione di sostituirlo, però quando hanno ascoltato quel disco e hanno parlato con me e con Basile si sono convinti che potevo esserci io nel futuro della band. E così è andata.
Lo so che ora ti ritrovi probabilmente a sentirti chiedere la stessa domanda che chissà in quanti altri ti e vi hanno fatto, ed io, altrettanto probabilmente, non ho tutta questa fantasia, ma un’altra cosa di cui parlammo io e Capovilla fu a riguardo della partecipazione di Agnelli a X Factor. Lui mi disse che ancora prima che cominciasse la trasmissione gli chiese se non temesse il suicidio artistico. Capovilla ha comuque detto che capiva la sua scelta e che, quando ti propongono di fare televisione c’è dietro una possibilità, anche economica, piuttosto allettante. Io chiedo a te, dove sta la verità?
La verità sta nell’essere onesti con se stessi e con il proprio percorso. Manuel è sempre stato onesto e libero, per cui gli arriva una proposta sicuramente allettante dal punto di vista economico, ma che gli da anche la possibilità, in prospettiva, di aprire altre frontiere, ovvero di sdoganare definitivamente un personaggio, storicizzarlo definitivamente dopo anni di onorata carriera e dare forza ad una voce davvero indipendente, che ha sempre provato a portare avanti quel messaggio di sostegno alla figura del musicista e dell’artista. Insomma, tutto questo da un potere di fuoco decisamente superiore e da forza a tutti i progetti che Manuel vorrà intraprendere in futuro, e che la band vorrà portare avanti. Per cui, andare ad occupare uno spazio del genere ti da la possibilità di portare avanti tutto questo con un’altra forza.
La sua è stata una scelta autonoma, fuori dagli Afterhours, nonostante ne abbiamo anche parlato tutti insieme. Da parte nostra c’è stato massimo supporto perché abbiamo capito le sue motivazioni, però dall’altra è anche una scelta personale. Non sono gli Afterhours che vanno ad X Factor, ma è Manuel Agnelli che decide di mettersi in prima linea.
Ok, parliamo di ‘Folfiri e Folfox’, il quale arriva a seguito di un periodo molto difficile per gli Afterhours. La morte del padre di Agnelli, la defezione di due membri importanti come Prette e Ciccarelli. Che tipo di disco lo definiresti e come lo avete preso voi, dall’interno?
È un disco liberatorio, catartico. È stato bellissimo farlo, è stato importante per la nostra storia. Ha sublimato un periodo di grandi lutti, grandi dolori e distacchi, dando a tutto questo dolore un senso di rinascita, vitalità ed energia. Questo per noi, ma spero anche per il pubblico. Credo sia arrivata quell’energia. Il risultato più grande di questo album è aver conosciuto tanta gente che ci ha detto che questo disco gli ha fatto bene, gli ha dato forza ed energia in un periodo in cui era giù. Non credo che ci sia gioia più grande di questa.
Com’è stato da parte vostra, della band, affrontare un tema difficile come la morte del padre di Agnelli?
È stato, come ti dicevo prima, veramente liberatorio, perché ad ognuno di noi, più o meno indirettamente, sono capitate storie simili, altrettanto dirette e intime. È chiaro che poi è stato Manuel a metterci le parole e a disegnare un sentimento comune. Noi ci siamo compattati attorno a lui e ci siamo cementati come band attorno a questo faro. È stata una scelta difficile e sofferta per noi, ma molto importante.
C’è una cosa che penso da parecchio tempo ed è che in un modo o nell’altro, nel bene e nel male, non si esce vivi dagli Afterhours.
Non posso che augurartelo e augurarlo a tutti. (ride)
Guarda, dal mio punto di vista non c’è nessuna voglia di uscirne. Gli Afterhours creano dipendenza e come l’hanno creata in me, credo sia accaduto anche in tante altre persone. Dopo trent’anni di storia penso che questa band e tutte le persone che gli sono gravitate intorno, abbiamo avuto un percorso meraviglioso. Gli Afterhours hanno ancora molte cose da dire, abbiamo ancora l’urgenza e il bisogno di dare tanto ed è per questo che continuiamo a farlo.
Epilogo
Ora.
Caro Daniele, avevi ragione tu quando quel giorno, mentre seduto sul tuo divano, mi guardavi con gli occhi lucidi e quel sorriso che solo dopo anni ho capito davvero: ci sono delle cose che non possono morire, e proprio per questo è giusto amarle e poi odiarle, perché noi alla fine dobbiamo spegnerci, ne abbiamo il diritto oppure non ne abbiamo la possibilità o la forza, oppure la voglia. Di sopravvivere, intendo. Se c’è qualcosa che non finisce mai, invece, è proprio la musica. E io l’ho capito quel tuo sorriso, Daniele, e adesso so cosa significa sentirsi come ti sei sentito tu, perché è come mi sento io.
Ora.
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Gli Afterhours saranno in concerto a Berlino il 25 aprile 2017.
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