Un estratto da “Maradona: non sarò mai un uomo comune”,
il libro edito da Minimum Fax
nel quale il grande Gianni Minà racconta, attraverso gli articoli più belli
dedicatigli nel corso del tempo, la parabola umana e sportiva di uno
degli uomini più affascinanti di tutti i tempi.
In “Maradona: non sarò mai un uomo comune” l’esistenza di Diego viene esplorata
ben oltre l’universo sportivo, una cronaca schietta e pulita in cui visione politica,
imprese calcistiche, debolezze e contraddizioni si fanno largo attraverso lo
sguardo empatico e avventuroso di Gianni Minà.
Questa è la storia di un uomo ritrovato che doveva esser morto e invece è rinato. Il più grande campione che il calcio abbia espresso, un campione divenuto a un certo punto prigioniero della cocaina. Un uomo spesso nella polvere ma un giocatore quasi sempre sull’altare, un frutto prodigioso di quella inesauribile scuola argentina che ha prodotto tanti campioni, tra cui Pedernera e Di Stéfano, Sivori e Batistuta, fino a Messi.
Maradona è nato calcisticamente nell’Argentinos Juniors, dopo è passato al Boca Juniors per un anno, per poi transitare senza gioia nel Barcellona e infine, nel 1984, per ventidue miliardi di lire dell’epoca, trasferirsi al Napoli del presidente Ferlaino, grazie alla testardaggine del direttore sportivo Antonio Juliano, vecchia bandiera della società partenopea.
A Napoli Maradona, giocando a pallone, è arrivato a simboleggiare per alcuni anni perfino il riscatto della città. Ma la pressione che condizionava ogni istante della sua vita gli ha fatto pagare un prezzo altissimo. Partito lui, anche la primavera della città è evaporata. I suoi sei anni nel nostro calcio hanno coinciso con quelli di Platini, Zico, Júnior, Rummenigge, Passarella, Vialli, Baggio, Ancelotti e molti altri. Furono anni irripetibili di calcio non noioso, non ostaggio delle tattiche e ancora non condizionato dai diritti tv. Benedetti o maledetti che fossero.
All’inizio del campionato 1984-85 il Napoli allenato da Rino Marchesi, oltre a Diego, all’altro argentino Daniel Bertoni, a Bagni e al vecchio «giaguaro» Castellini (ex portiere del Torino campione nel ’76), si poteva permettere solo onesti soldati del calcio come Bruscolotti, Carannante, Ferrario, Penzo o Caffarelli. L’anno dopo, con l’arrivo dell’allenatore Bianchi (dal Como) e di giocatori come Renica e Giordano, sarebbe cominciata l’ascesa allo scudetto.
Ma in quel 1984-85, alla tredicesima giornata, il Napoli era addirittura terzultimo con nove punti e dietro aveva soltanto Ascoli e Cremonese che, alla fine, sarebbero retrocesse in Serie B con la Lazio. In testa c’era il Verona di Bagnoli, che avrebbe vinto il campionato davanti a Torino e Inter. Allora una squadra come il Verona poteva anche conquistare lo scudetto. Molti si chiedevano chi gliel’avesse fatto fare, a Ferlaino, e che cosa se ne facesse di Maradona, che dalla quinta alla quattordicesima giornata era rimasto a digiuno di gol. Ma alla fine il fuoriclasse argentino, con quattordici reti, aveva trascinato fuori la squadra dai gorghi della retrocessione. E il Napoli era finito ottavo in un campionato che era ancora giocato da sedici squadre e dove la vittoria valeva due punti.
I prodigi (alla Lazio del compatriota Lorenzo aveva segnato da metà campo, e perfino direttamente da calcio d’angolo) si alternavano a trovate da prestigiatore e perfino a prove malandrine di gol di mano, come quello segnato agli inglesi da Maradona l’anno dopo, nel mondiale messicano. La stagione successiva al suo esordio, nell’anno del mondiale che l’avrebbe consacrato come il più grande, Maradona, pur segnando meno, solo nove gol, aveva guidato il Napoli al terzo posto dietro Juve e Roma. La Juventus di Trapattoni, che aveva rinunciato a Tardelli e Rossi, era ancora forte di Cabrini, Scirea, Platini e si era rinforzata con il danese Laudrup. Ma quel campionato in realtà l’aveva perso la Roma del presidente Viola e dell’allora giovane allenatore svedese Sven-Göran Eriksson, con un suicidio casalingo (2 a 3) nella penultima giornata contro il Lecce degli argentini Barbas e Pasculli, allenato da Eugenio Fascetti.
Il primo gol, nel 1985-86, Diego lo segnò alla quarta giornata proprio con quella Roma ormai orfana di Falcão (l’eroe dello scudetto giallorosso dell’83), che aveva però un centrocampo con Cerezo, Ancelotti e Giannini, sulle ali volava con Bruno Conti e Boniek e al centro aveva un ariete come Pruzzo. Finì uno a uno, con Diego che su rigore aveva pareggiato un gol di Tovalieri.
Alla settima giornata il Napoli di Diego, che ormai aveva giocatori ambiti come Garella, Renica, Pecci e Giordano (e il giovane Ferrara già in panchina) aveva avvertito con un sonoro cinque a zero al Verona (campione in carica) che stava per arrivare una nuova concorrente per lo scudetto. Una concorrente capace, due giornate dopo, di mettere in ginocchio la Juve con una punizione di seconda in area, sotto la pioggia, con la quale Maradona mortificò la supponenza del portiere Tacconi, che improvvidamente aveva dichiarato che non avrebbe mai preso un gol su calcio piazzato da Diego. Il Pibe de Oro era ormai un pericolo pubblico per i difensori nostrani, tanto che dopo trentanove partite del campionato italiano, e più di cinquecento falli subiti, all’undicesima giornata reagì alla Zidane contro Criscimanni dell’Udinese, che ostentatamente non mostrava nessun riguardo per le sue caviglie. La partita finì 1-1 e Maradona non avrebbe mai più avuto alcuna reazione violenta nei rimanenti quattro anni di campagna in Italia.
È interessante soffermarsi sui nomi degli arbitri di quell’epoca. C’erano i duri e puri Casarin e Agnolin, il vecchio navigatore Longhi, ma anche Bergamo, Pairetto e Lanese. Luciano Moggi lavorava per il Napoli, di supporto a Italo Allodi, ed era già molto abile, ma non riusciva ancora a imporre i suoi giochi di prestigio a un calcio italiano più trasparente, dove forse anche Bergamo, Pairetto e Lanese, nelle vesti di arbitri, non si comportavano in modo disinvolto come avrebbero fatto dopo essere divenuti designatori o dirigenti della categoria.
La favola che Maradona fosse un lusso per il Napoli invece si stava sgretolando non solo perché, alla seconda stagione al Napoli del Pibe de Oro, la squadra azzurra aveva raggiunto un terzo posto sotto il quale non sarebbe più scesa nei successivi quattro anni (vincendo anche due scudetti), ma anche perché in stadi come quello di San Siro Diego aveva oscurato tutti gli altri primi attori con prodezze e reti da manuale. Contro l’Inter il Napoli era stato bloccato solo dalla gamba spezzata a Buriani, un Gattuso dell’epoca che purtroppo non sarebbe più tornato a giocare a calcio ad alti livelli. Contro il Milan appena comprato da Berlusconi e traghettato verso il futuro da Nils Liedholm, il fuoriclasse argentino aveva danzato in mezzo a una difesa che solo negli anni successivi sarebbe diventata leggendaria con Tassotti, Maldini, Costacurta e Baresi.
Maradona, per affrontare il mondiale in programma in Messico nell’estate dell’86, un mondiale che avrebbe dovuto stabilire se era soltanto un virtuoso del calcio o un campione capace di guidare alla vittoria una squadra, aveva deciso di prepararsi secondo le tecniche basate sulla biomeccanica elaborate dal professor Dal Monte. Una scelta dettata dalla sua coscienza di ragazzo schietto, ben conscio, evidentemente, che la vita sfrenata nella quale era scivolato prima a Barcellona e poi a Napoli lo stava allontanando dalla possibilità di ottenere i risultati e i successi che le sue prodigiose capacità di calciatore lo obbligavano a inseguire. Fu quella una scelta di orgoglio che lo premiò al mondiale messicano, vinto praticamente da solo, ma da allora Diego non fu più capace di ripetere quell’exploit con la stessa intensità. D’altro canto la leggenda del campione già conviveva con le chiacchiere della gente e le favole metropolitane.
Il reportage che realizzai con lui seguendolo passo passo per una partita della nazionale argentina in Francia, e poi in Italia e a Napoli (perfino in una partita di calcetto con Sivori, l’emblema del calcio argentino prima di lui) era lo specchio di una situazione già compromessa dalla pressione dell’ambiente, decisamente eccessiva, e dalle contraddizioni di una città, alle quali Maradona aveva ceduto. In parte era già presente una confessione del suo disagio. Si trattava del capitolo intitolato «Una vita da gol» di una serie sponsorizzata dalla rivista calcistica il Guerin Sportivo e dalle Figurine Panini, alla quale avevano collaborato i migliori giornalisti emergenti dell’epoca e che era dedicata ai possibili protagonisti dell’imminente Coppa del Mondo. Su musica di Red Canzian dei Pooh e con una grafica non proprio d’avanguardia, gli eroi del calcio dell’epoca si raccontavano.
Quello di Maradona risultò il caso più emblematico di un mondo che, credo, aveva cominciato a divorare i suoi eroi.
Nel reportage emergevano tutte le caratteristiche di quella che è stata la vita a cento all’ora e contraddittoria di Maradona. Dai prodigi in campo al culto della famiglia, costantemente ostentata come parafulmine alla pressione di un mondo che spesso lo soffocava. «Non hai ancora vinto niente», commentavano i suoi critici. E lui, pronto: «Ho vinto la vita con mia madre e con Claudia, che valgono molto più di uno scudetto». E invece Diego era alla vigilia della più prodigiosa vittoria nella sua carriera di calciatore, il mondiale messicano, ma anche, per debolezza umana, al limitare di una prolungata caduta esistenziale, dalla quale si sarebbe rialzato tante volte per poi tornare a cadere.
L’ambiente fin da allora non gli risparmiava nulla. Perché Maradona, come ha scritto Eduardo Galeano, il più grande saggista uruguaiano, «continuava a commettere ormai da anni il peccato di essere il migliore, il delitto di denunciare a viva voce le cose che il potere ordinava di tacere, e il crimine di giocare alla mancina che, secondo il Piccolo Larousse Illustrato, significa “con la sinistra” e significa pure “al contrario di come si deve fare”».
Così l’immagine di Diego Junior, nato da una relazione con Cristiana Sinagra, in un certo giorno di primavera aveva aperto i telegiornali e addirittura La domenica sportiva, che avrebbe dovuto documentare solo i momenti più significativi della partita del Napoli, non la vita privata dei ventidue in campo.
Diego giocava troppo bene e aveva faccia tosta. «La dittatura», mi disse una volta, «ci aveva nascosto tutte le sue infamie. Fu viaggiando con la nazionale argentina che venimmo a conoscenza di questi crimini, e fu sconcertante e mortificante». Un calciatore solitamente non affronta questi temi: il mondo del calcio è ipocrita, ma ha bisogno di eroi, anche di quelli sfacciati. E Maradona era in grado di esserlo.
La Coppa del Mondo del 1986 fu marcata dalle sue gesta e dai suoi gol, che Diego stesso sostenne essere solo le rivincite di un bambino nato e cresciuto a Villa Fiorito.
«Se uno vuol colpire il pallone e pensa al denaro, quando disputerà la giocata, la partita, il campionato, bene, è sicuro che quel pallone lo giocherà male. Io non mi dimentico mai che il calcio è un sentimento popolare, anzi un modo di sentire popolare. E nel caso dell’Argentina, la mia terra, è un po’ come il tango, cioè un rito, una cerimonia, un sentimento unificante. Il tango una volta si ballava, ora si ascolta, come il calcio che si guarda, ma si sente anche. Non te ne sei accorto? Il calcio ha un suo rumore, un suo profumo, una sua vibrazione. È un sentimento popolare, te l’ho detto».
Diego Armando Maradona, il Pibe de Oro, a ventitré anni, dopo cinque stagioni di successo e malinconia nel calcio internazionale, parla con il sentimento, la saggezza e un po’ di retorica tipica di certi poeti popolari. Non ha ancora concesso, da quando è in Italia, lunghe interviste e ha evitato le confessioni o il tentativo di spiegare se stesso, e non per incapacità a spiegarsi. È sensibile e non banale, ma l’immensa popolarità in Argentina, in Spagna, in Italia, insomma nel mondo, gli ha insegnato a sue spese che a molti mass media di Maradona interessa solo il virtuosismo da primadonna in campo o l’esasperazione dei suoi rapporti col mondo fuori campo. Per questo prima di aprirsi e raccontarsi ha voluto che parlassi, mi «presentassi», insomma «superassi l’esame» con Blanco, un bravo giornalista argentino che conosce da quando giocava nell’Argentinos Juniors, che è stato testimone della sua evoluzione come giocatore e come uomo, è cresciuto con lui, si è imposto come giornalista mentre lui si affermava come fuoriclasse del calcio. Ora Blanco fa da filtro, ma anche intelligentemente si propone come testimone, storico, cronista di una vicenda, quella di Maradona, che ha implicazioni non solo calcistiche ma anche sociali, commerciali, industriali e forse addirittura razziali e politiche.
«Siamo in Italia», mi ha spiegato Blanco, «e Maradona ha scelto il Napoli perché per Diego in Spagna sono ben presto cadute le illusioni. Non era più un uomo felice. Avrebbe voluto ripetere le gesta di Alfredo Di Stéfano, che fece grande l’Argentina degli anni Cinquanta e poi il Real Madrid, primo e grande campione d’Europa. Ma dopo poco, Diego ha capito che non era più quel tempo. Era cambiato il contesto. Madrid evidentemente non è Barcellona. A Barcellona non si sentono spagnoli fino in fondo, si sentono prima di tutto catalani. E a Barcellona un argentino che non sia Diego Armando Maradona non ha vita facile. Anzi, non conta proprio nulla, è al massimo un essere per mestieri subordinati o infimi. Diego ha compreso tutto questo in breve tempo perché, al contrario di quanto si vuole far credere, Maradona non vive in una torre di cristallo con noi, la sua gente o meglio il suo clan, come scrivono molti giornalisti. Diego non vive avulso dalla realtà che lo circonda.
«E questa presa di coscienza è stata malinconica per lui. Poi a questo malessere e a questa prevenzione inattesa verso gli argentini e i latinoamericani, e sperimentata a Barcellona, si è aggiunta la prevenzione, l’ostilità, quasi la xenofobia scoperta il giorno che Maradona ha dovuto giocare contro una squadra basca. Ed è qualcosa che va al di là del calcio, è qualcosa che riguarda proprio la nazione spagnola, la sua difficile unità. Un campione come Maradona, un primo attore dello stadio che sarebbe accolto in tutto il mondo senza chiedergli nemmeno il passaporto, per i baschi che vogliono la loro squadra formata solo da calciatori baschi era un nemico, un usurpatore, un mercenario, forse il simbolo di una società, quella spagnola moderna, che essi sono costretti ad accettare, adesso che non c’è più la scusa della dittatura, ma che continuano a reputare straniera e nemica. Così per Maradona le partite con le squadre basche sono diventate subito una vera guerra, una caccia all’uomo dove Diego era la vittima predestinata. Quando Goikoetxea lo frantumò con un intervento assassino, non volemmo credere a un fatto predestinato; ma quando dopo cinque mesi di sofferenze, con una volontà tenace, Diego riprese a giocare e ritrovò in campo a Bilbao Goikoetxea, capimmo che tutto non era successo per caso.
«Il calcio forte, distruttivo, di persecuzione praticato per esempio dall’Atletico Bilbao e accettato per mille motivi da molti arbitri spagnoli, è il frutto di un credo che andrebbe studiato sociologicamente ed è il risultato di una campagna folle, esasperata nel caso di Maradona dall’allenatore del Bilbao Clemente, un signore che non conosce Maradona ma che aveva dato l’ordine di “spezzarlo”. Nel giorno del ritorno a Bilbao, Diego si vendicò con i mezzi del fuoriclasse che è, segnò due gol fantastici, ma quel giorno capimmo che la volta precedente l’incidente era stato voluto ed eseguito».
È un’analisi, quella che mi ha proposto Blanco sul rifiuto di rimanere in Spagna del Pibe de Oro, che mi spinge ad affrontare l’intervista a Maradona da un’angolazione diversa. «Diego, cos’è il calcio per te?»
Maradona scuote la famosissima testa guarnita di riccioli: «Il calcio è il mio modo di esprimermi, ma anche il mio metro per capire e giudicare gli altri, il mondo che mi circonda o mi condiziona. Ed è d’altronde l’unico modo che conosco. Ognuno cerca la propria felicità. Io l’ho trovata col calcio. E attraverso le mie scelte nel calcio difendo questa mia felicità, che è poi il mantenimento degli equilibri di uomo che vive una vicenda speciale. A Barcellona dopo due anni avevo perso l’incanto. Barcellona è una città molto spagnola, muy linda, con uno stadio prezioso. Per questa città, per la squadra del Barça, io ho giocato settanta partite in due anni, malgrado un’epatite virale e una frattura dolorosissima, vincendo una Coppa del Re, la Coppa di Lega, segnando quarantacinque gol e contribuendo a battere cinque volte il Real Madrid che per il Barcellona, come tutti sanno, è più importante quasi di qualunque altra vittoria.
«Eppure, malgrado questi dati inconfutabili, a Barcellona qualcuno aveva cominciato a insinuare dubbi su di me. E il dubbio per un atleta di orgoglio è il veleno più sottile e cattivo, perché ti fa perdere le motivazioni. Quando sono guarito dall’incidente causatomi da Goikoetxea, ho fatto un pellegrinaggio di sessanta chilometri alla Madonna di Lugari. E mi ricordo ancora che per riuscire a giocare contro il Manchester United, in una partita di coppa, mi sono sottoposto a una cura dolorosissima.
«Chi aveva il diritto di dubitare di me? Eppure a Barcellona stava succedendo, magari a Siviglia non sarebbe capitato, ma a Barcellona sì. Poi ho cominciato a prendere coscienza delle condizioni di vita dei miei connazionali in Spagna e in Catalogna. Non si tratta di nazionalismo. Ma non mi potevo tappare il naso, non vedere come erano trattati e non potevo farlo non solo come essere umano, ma anche come argentino. Io non sono Gesù Cristo come scrive qualcuno di me calciatore, nessuno lo è, ma se Dio mi ha dato qualità particolari per far divertire la gente con un pallone, per farla sentire bene, felice, orgogliosa, io ho evidentemente un dovere verso la gente e in particolare verso la mia gente, gli argentini, che tanto hanno sofferto ancora recentemente.
«Io questo sentimento lo provo, per questo sono contento di avere scelto Napoli, città, mi dicono, disastrata, in cerca sempre di un modo di vivere eppure capace sempre di sopravvivere, di essere felice con poco, magari solo con un palleggio e un gol di Maradona. E allora io adesso a Napoli, come ieri a Barcellona, certi doveri verso la gente so di non poterli dimenticare. E se tu dici che questa è retorica, io che ho fatto solo la scuola dell’obbligo ti dico che chiunque ha qualcosa dentro, cioè dei sentimenti veri, è un po’ retorico».
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Il libro “Maradona:non sarò mai un uomo comune”, di Gianni Minà, è edito da Minimum Fax e può essere acquistato qui.
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